La dimostrabilità dell’esistenza di Dio in Tommaso d’Aquino/Parte prima

Confutazione della tesi che non si può dimostrare l’esistenza di Dio

Nella Summa theologiae San Tommaso d’Aquino dice:

«Respondeo dicendum quod contingit aliquid esse per se notum dupliciter, uno modo, secundum se et non quoad nos; alio modo, secundum se et quoad nos» (I, q. 2, a. 1, co.).

In questo luogo l’Angelico fa una distinzione preliminare. Per risolvere il problema della dimostrabilità dell’esistenza di Dio bisogna aver bene in mente che cosa significa affermazione dimostrata. Una affermazione da dimostrare (demonstranda) è una affermazione che non è evidente per sé ma per aliud. In altri termini per cogliere la sua evidenza abbiamo bisogno di fare dei passaggi logici, dei ragionamenti in cui da delle premesse si giunge alla conclusione. Ora questo è il procedimento del sillogismo dimostrativo. Ma come in ogni sillogismo il passaggio alla conclusione è garantito dal termine medio, così anche qui la conclusione è pienamente intelligibile per mezzo di un termine medio e di altre proposizioni. Diversamente abbiamo affermazioni per se notae o auto-evidenti. Possiamo fare degli esempi: tutti i principi primi sono auto-evidenti. Infatti per provarli non abbiamo bisogno di principi ulteriori altrimenti essi non sarebbero primi. Si provano con la tecnica della riduzione all’assurdo (o consequentia mirabilis) mostrando che la negazione del principio suddetto presuppone e implica la sua affermazione. È il classico esempio della difesa del principio di non-contraddizione in Aristotele. Un’altra affermazione di per sé evidente è la negazione del nichilismo gorgiano: “Nulla c’è” infatti implica che il nulla sia qualcosa e non nulla. Tuttavia, ci sono affermazioni per cui scoprirne l’evidenza richiede la mediazione di altre affermazioni. Ad esempio il teorema di Pitagora, o altri teoremi della matematica. Per dimostrare il teorema di Pitagora, infatti, ho bisogno di aver acquisito prima le dimostrazioni relative all’equivalenza delle aree delle figure geometriche e di quelle relative, ad esempio, alle ampiezza degli angoli in gioco.

Ora Tommaso non distingue solo affermazioni per se notae e affermazioni per aliud notae. Distingue altre affermazioni: per se notae quoad nos e affermazioni secundum se notae sed non quoad nos. Ora l’esistenza di Dio è una verità per se nota quoad Deum ipsum sed non quoad nos. Che lo sia quoad Deum è evidente perché Dio è Onnisciente e atto puro e questo significa peraltro che in sé e per sé non solo è evidente ma è la prima evidenza. Tuttavia non quoad nos. Perché? Perché dovremmo essere noi Dio.  Nel provare questa tesi Tommaso prende in considerazione la tesi ontologista, secondo cui l’idea di Dio sarebbe per se nota quoad nos. È la tesi di Anselmo nel Monologion. Tale tesi è la seguente:

«Sed intellecto quid significet hoc nomen Deus, statim habetur quod Deus est. Significatur enim hoc nomine id quo maius significari non potest, maius autem est quod est in re et intellectu, quam quod est in intellectu tantum, unde cum, intellecto hoc nomine Deus, statim sit in intellectu, sequitur etiam quod sit in re. Ergo Deum esse est per se notum» (I, q. 2, a. 1, arg. 2).

A tale argomento il Doctor communis risponde:

«Ad secundum dicendum quod forte ille qui audit hoc nomen Deus, non intelligit significari aliquid quo maius cogitari non possit, cum quidam crediderint Deum esse corpus. Dato etiam quod quilibet intelligat hoc nomine Deus significari hoc quod dicitur, scilicet illud quo maius cogitari non potest; non tamen propter hoc sequitur quod intelligat id quod significatur per nomen, esse in rerum natura; sed in apprehensione intellectus tantum. Nec potest argui quod sit in re, nisi daretur quod sit in re aliquid quo maius cogitari non potest, quod non est datum a ponentibus Deum non esse» (Iª q. 2 a. 1 ad 2)

Tale risposta è estremamente significativa e valida. Infatti affermare che l’idea di Dio è per sé nota non vuol dire che sia automaticamente per sé nota la sua esistenza. Infatti l’ontologista non può dimostrare, pena la caduta in un aberrante circolo vizioso, che l’idea di Dio abbia di per sé referente reale. Infatti dovrebbe dimostrare che Dio esiste non solo come idea nella mente umana. Ma è proprio questo il problema. E per far ciò egli non può non partire che dall’idea. In altri termini egli deve ragionare così: siccome Dio è pensato come ciò di cui non vi è maggiore egli deve necessariamente esistere perché ciò che esiste nella realtà è maggiore di ciò che esiste solo nell’intelletto. Ma questo argomento è un circolo vizioso perché nella definizione id quo maius significari non potest è già implicita l’esistenza necessaria. E questo, come nota l’Angelico, è un vero e proprio circolo vizioso, a maggior ragione se si ritenesse, come farà poi Spinoza ad esempio, che non solo Dio sia per se notus quoad nos, ma addirittura sia la prima evidenza. Il problema di fondo dell’ontologismo, dunque, è il seguente: deve dimostrare almeno che tale affermazione sia per se nota quoad nos e per farlo avrebbe bisogno della reductio ad absurdum. Tuttavia nel tentativo di compiere questa stessa reductio esso cade nel circolo vizioso. Inoltre, non sa spiegare come mai ci sono coloro che negano la stessa esistenza di Dio affermando proprio che non si darebbe nulla di cui non si potrebbe pensare qualcosa di più grande (grande qui significa perfetto). È per questo che Tommaso conclude:

«Dato etiam quod quilibet intelligat hoc nomine Deus significari hoc quod dicitur, scilicet illud quo maius cogitari non potest; non tamen propter hoc sequitur quod intelligat id quod significatur per nomen, esse in rerum natura; sed in apprehensione intellectus tantum. Nec potest argui quod sit in re, nisi daretur quod sit in re aliquid quo maius cogitari non potest, quod non est datum a ponentibus Deum non esse»

Pertanto Dio non è una evidenza per sé nota.

Mario Padavono, op

Segue parte seconda


6 pensieri su “La dimostrabilità dell’esistenza di Dio in Tommaso d’Aquino/Parte prima

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  2. Molto interessante il suo sito. Per quanto riguarda l’affermazione sulla complessità del DNA fatta dal filosofo Antony Flew, suppongo che egli volesse sottintendere che la nascita dell’uomo rappresenti, nell’evoluzione dell’Universo, una sorta di Big Bang, un salto qualitativo, e non tanto un mero anello di una lunga catena evolutiva. Ciò presupporrebbe l’intervento di qualcosa di “essenziale”. Nel caso fosse così, questo filosofo esprimerebbe un concetto a me caro, concetto che ho espresso nella mia opera filosofica “L’uomo e la sua ombra”, nella quale assegno all’uomo ciò che, solitamente, viene visto oltre l’uomo, ovvero l’essenza – l’essere – del mondo. Adesso, nel salutarla, la invito ad aderire ad una impresa che potrebbe farle pensare di essere stato appena commentato da un folle. L’impresa è quella di realizzare la Repubblica di Platone. Ovviamente, si tratta di un progetto decennale, rispetto al quale le persone che riuscirò a radunare potranno rappresentare dei semplici ideologi o, al massimo, dei pionieri. Comunque, per dettagli, la rimando alla lettura del “Manifesto” che ho pubblicato in proposito sul mio blog. http://www.larepubblicadiplatone.it Arrivederla! P.S. Ho ripubblicato il commento perché non ho capito se fosse stato pubblicato la prima volta.

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    • Molte grazie per la segnalazione! Per quanto riguarda la citazione del filosofo britannico sul DNA, interpreto la sua posizione in questo modo: la complessità della realtà reclama un’Intelligenza. La casualità non può spiegare ciò che noi osserviamo: dall’ordine della realtà al Principio dell’ordine. Ciò nell’uomo è ancor più visibile viste il nostro essere liberi e intelligenti.

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      • Un’interpretazione hegeliana. In effetti, come ci insegna il secondo principio della termodinamica, se il tutto si svolge casualmente non può che portare al disordine. Al contrario, l’ordine richiede un “lavoro”.

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