La zona d’interesse: vivere al di là del muro

Quando Hannah Arendt pubblicò, nel 1963, il suo saggio Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, divampò un’accesa polemica che interessò il mondo filosofico, politico e culturale di quegli anni (e non solo). La polemica si concentrava soprattutto sulla descrizione dell’imputato Adolf Eichmann come uomo «senza idee» e in quanto tale «incapace di distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso», insomma il «suddito ideale del regime totalitario» (si veda di Arendt, oltre al saggio appena citato, anche il monumentale The Origins of the Totalitarianism).

A quanto appena detto, la filosofa e politologa aggiungeva un concetto, a mio parere di grande profondità teoretica, che emergeva dall’accostamento di due parole – banalità e male – che risultavano, apparentemente, in contrasto tra loro: quello che Arendt voleva sottolineare era il fatto che l’imputato fosse un semplice funzionario di stato e che i suoi crimini avevano luogo in un contesto di orrenda ordinarietà. Come dice la stessa Arendt:

«Sicuramente la difesa avrebbe preferito dichiararlo [Eichmann] non colpevole perché in base al sistema giuridico del periodo nazista egli non aveva fatto niente di male; perché le cose di cui era accusato non erano crimini ma “azioni di Stato” […] egli aveva il dovere di obbedire».

H. Arendt, La banalità del male, pp. 29-30.

Questa banale, e al tempo stesso terrificante, ordinarietà è il concetto cardine dell’ultimo film del regista britannico Jonathan Glazer, La zona di interesse, pellicola appena uscita nelle sale italiane.

Il film, presentato al Festival di Cannes 2023, è l’adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Martin Amis pubblicato nel 2014. Glazer mette in scena la vita quotidiana di Rudolf Höss e della sua famiglia che si svolge accanto al campo di concentramento di Auschwitz. L’unica cosa a separare la famiglia dal campo è un muro.

Le scene sono una combinazione di immagini e suoni: le prime si soffermano sulla vita ordinaria della famiglia – lavori domestici, giochi, scuola, lavoro – mentre i secondi ricordano la cruda realtà al di là del muro.

Il prodotto che viene fuori da questa combinazione è la perfetta raffigurazione del concetto arendtiano di cui sopra.

Il direttore del campo svolge, con scrupolo e meticolosità, il lavoro affidatogli – il funzionamento dei forni crematori – mentre la moglie, i figli vivono la loro routine – tra giochi in giardino, tuffi in piscina, incontri tra amici ecc.

In questa surreale, paradossale situazione, lo spettatore riesce a cogliere la profondità e la forza teoretiche della riflessione di Arendt e non può non interrogarsi alla fine della visione sulla sua presunta superiorità morale.

Che cosa avremmo fatto noi nella stessa situazione?

È una domanda scomoda, ma necessaria che nasce dal fatto che il male, in quel momento storico, è riuscito a insinuarsi così radicalmente nel cuore dell’uomo da anestetizzare la sua coscienza, tanto da rendere il male stesso compiuto un banale atto della propria vita lavorativa (“eseguivo semplice gli ordini e le leggi dello Stato”) – come quella del direttore Rudolf Höss.

È un pericolo, quello di rendere ordinario il male, sempre presente. E se è necessario ricordare, fare memoria di eventi passati, questo atto di fedele custodia non deve trasformarsi in un mero lavoro – altrettanto banale per l’argomento trattato – di antiquariato.

Occorre, per concludere, tener presente ancora una volta le parole di Hannah Arendt:

Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qual volta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale od economica in maniera degna dell’uomo.

Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, p. 629.

Giovanni Covino

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Giovanni Covino, autore e curatore del blog.