Carlo Ancelotti è un problema.
È un problema per coloro che vedono il calcio come un gioco senza obiettivi specifici (in primis la vittoria hic et nunc) o per coloro che non riescono a distinguere le diverse fasi in un’annata sportiva, in un periodo specifico o in una partita singola.
Ancelotti è un problema perché scardina – con il suo realismo – l’idea che il modulo sia un “dogma”, il religioso punto di riferimento dell’allenatore e della sua squadra.
Naturalmente, parlare di “Ancelotti” in questi termini vuol dire parlare di ciò che Ancelotti ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà, vale a dire colui che è in grado di separare definitivamente il valore estetico del calcio dalla “grande bellezza” quale cd calcio spumeggiante. Cosa vuol dire? Che cosa così che rende spumeggiante una partita? Una serie di passaggi continui da destra a sinistra? O il possesso palla eterno? O il volontario suicidio sportivo della cd partita a viso aperto?
Ancelotti, ieri, ha fatto capire per l’ennesima volta che la “grande bellezza” è in realtà un concetto “velenoso”, un concetto che uccide lentamente il sano realismo che, nonostante sia tanto criticato, è ciò che permette di apprezzare anche un bicchiere di vino prodotto dall’umile lavoro del contadino che lavora e attende con costanza e pazienza.
Giovanni Covino



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