Il senso di una fine

Questo romanzo di Julian Barnes è tutto nel titolo The sense of an Ending.

Trattasi di una riflessione-meditazione sulla fine ma anche sul fine, direi. Sì perché l’Autore, in questo suo ripercorrere il passato, cerca in tutti i modi di capire la vita. Barnes cerca di scoprirne il senso; di comprendere la forma del tempo.

Il suicidio di un vecchio amico costringe Tony, il protagonista, ad immergersi in questa ricerca, nel tentativo di trovare la verità del passato. E cercare di trovare un senso alle sue azioni.

Questa ricerca si complica quando il passato si fa avanti con un volto che Tony aveva dimenticato, aveva messo da parte – volontariamente? involontariamente? – ma che è sempre stato lì. Pagine di un diario dell’amico suicida costringono a guardare ciò che era stato rimosso.

Da qui, una serie di riflessioni sulla propria vita (come detto), ma anche sulla natura del tempo, sui rapporti interpersonali, sulla libertà e sulla responsabilità delle proprie azioni, su ciò che è stato o sarebbe potuto essere.

Il testo è scorrevole. Elegante.

Resta però l’amaro in bocca per la ristretta dell’orizzonte: i personaggi si muovono tutti in un disperato finito. Non c’è spazio per la trascendenza. Direbbe il filosofo Cornelio Fabro: «il finito divora il finito, infinitamente».

Alla fine è risuonata nella mia mente la celebre domanda di Camus:

«Il cielo si copre. È così in tutte le camere d’albergo, tutte le ore della sera sono difficili per l’uomo solo. Ed ecco ora la mia vecchia angoscia, là nel vuoto del mio corpo, come una brutta ferita che il movimento irrita. Conosco il suo nome. È la paura della solitudine eterna, timore che non vi sia risposta. E chi risponderebbe in una camera d’albergo?».

Giovanni Covino


Nota: il testo di Barnes è stato pubblicato in italiano da Einaudi; l’immagine di copertina generata tramite IA – Image Creator by Microsoft Bing.

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Giovanni Covino, autore e curatore del blog.