Il mio blog ha trattato molto spesso il tema della c.d. intelligenza artificiale, cercando di chiarire concetti quali appunto intelligenza, informatica, uomo, macchina. Lo scopo è quello di mostrare la differenza qualitativa tra ciò che noi abbiamo prodotto e ciò che noi effettivamente siamo. Un algoritmo, per quanto sofisticato sia, resta pur sempre un algoritmo che è – e sarà – certamente utile nella nostra vita quotidiana, nel nostro lavoro, ma non potrà mai presentare la ricchezza ontologica dell’essere personale. L’articolo che segue spiega proprio questo ed io con grande piacere lo propongo ai lettori di Briciole filosofiche [Giovanni Covino].
Il pericolo di un cattivo uso dell’IA ( = intelligenza artificiale) non è quello che ci sostituirà nel lavoro o in altre questioni di carattere socio-economico (certo è anche questo), non è solo che ci potrà fornire contenuti sbagliati (certo è anche questo!). Più radicalmente è l’umanizzazione dell’IA e l’artificializzazione dell’umano nelle nostre coscienze fino a che non si arrivi ad una vera e propria idolatria. Ha fatto bene dunque il Sommo Pontefice a ricordare di non artificializzare l’umano.
Il problema poi nasce dall’uso ambiguo di termini e sintagmi, come per esempio “machine learning”, uso che confonde non poco.
Un aiuto fondamentale può venire solo dal corretto studio della metafisica e della epistemologia. Una IA non può uscire fuori dai limiti imposti dai teoremi di Godel, perché non ha potere intuitivo. Presuppone il potere intuitivo intellettuale dell’ ente umano, in questo caso, che l’ha programmata. Insomma è impossibile una auto programmazione originaria dell’IA.
L’intelligenza naturale creata invece possiede una capacità intuitiva tale da cogliere autonomamente i primi principi e i primi giudizi dalla realtà stessa senza aver bisogno di categorie a priori di kantiana memoria: «Il nostro intelletto naturalmente conosce l’ente e le cose che appartengono all’ente in quanto tale, e su questa cognizione si fonda la notizia dei primi principii» – dice Tommaso d’Aquino, in Contra Gentes, II, c. 83.
Questo aiuto della metafisica e dell’epistemologia si rivela essere necessario per una stessa comprensione della psiche umana prima di tutto sotto l’aspetto considerato dalla psicologia razionale che studia l’anima e il suo stesso rapporto col corpo nei termini di una conoscenza delle prime verità concernenti la struttura entitativa dell’essere umano. Così, concludendo, se l’ipersessualizzazione è prima di altro una crisi della coscienza del proprio corpo e del suo valore, allo stesso modo credo che il pericolo di un’artificializzazione dell’umano sia una crisi della coscienza della psiche umana e del suo valore, che solo un corretto studio filosofico può iniziare a risolvere in maniera efficace.
Mario Padovano



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