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Il silenzio della stanza era rotto solo dal ticchettio dell’orologio che segnava quasi la mezzanotte.
Salaris era seduto ed osservava, dalla solita finestra, la città che andava svuotandosi.
Il suono del quotidiano andirivieni era stato sostituito dal leggero brusio notturno, le luci dei lampioni guidavano i passi delle persone che ancora resistevano all’ora tarda, mentre le finestre dei palazzi intorno cadevano, una dopo l’altra, in un placido e quieto sonno.
Il commissario seguiva, con sguardo fisso e spento, la vita di quella notte. Impietosi, inesorabilmente, i tristi avvenimenti vorticavano nella sua mente.
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I pensieri si presentavano al commissario con un volto o come urla strozzate; il suono delle sirene ancora rimbombava nelle orecchie quale martellante doloroso ricordo.
In quei mesi, Salaris aveva attraversato il suo grande inverno. La solitudine era stata la sola a parlare, a dire qualcosa nel silenzio della sua stanza che sembrava aver perso la sua dimensione spaziale: gli angoli talvolta apparivano tanto distanti da allungare quasi all’infinito le pareti, le travi del soffitto altissime, e anche la luce che entrava dalle finestre pareva patire, sotto la pressione di quell’atroce destino. L’unica cosa che appena confortava Salaris era scrivere. Il commissario cercava di metter su carta il suo grido di dolore.
Così anche quel giorno, dopo tanti altri giorni, prese il suo taccuino e lo aprì.
Quasi come un rito.
La mano cominciò a seguire i pensieri:
21 febbraio
Il dolore – si dice – è un maestro di vita. È esperienza. Ti aiuta a comprendere il vero volto della vita, ad apprezzare le piccole gioie, a non perderti. Questo non toglie lo strazio del patire che si presenta all’uomo come un oste scorbutico e ubriaco che chiede il conto. È vero: il dolore insegna, ma il suo insegnamento è un togliere. Forse è questa la ragione segreta del pianto che bagna il viso di un uomo. Il pianto del cuore. È vero: il dolore è maestro di vita perché è della vita che parla. Quando arriva, penetrando nell’intimità del nostro essere, ci dice in fondo una semplice ma dura verità: poco, quasi nulla, è nelle nostre fragili mani. E senti l’inquietudine crescere a dismisura, l’angoscia affondare le sue unghie nella pelle, fino a porre la domanda delle domande: qual è il senso?
Erano passati mesi, ma il tempo sembrava non poter colmare il vuoto che si era creato nel cuore di Salaris. Come poteva una semplice pagina di diario rispondere a quella terribile domanda?
Come potevano le parole penetrare il senso della realtà?
Come un uomo poteva resistere all’orrore della vita?
Il suono del cellulare ruppe la catena di domande. Il commissario rispose. Era l’agente Brera.
[continua]
Giovanni Covino



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