Una riflessione propedeutica ad un eventuale discussione epistemica sui limiti e il valore della ricerca storica

Ricevo e pubblico con piacere questo contributo su un tema complesso da sempre dibattuto: valori e limiti della ricerca storica. L’Autore, Mario Padovano, religioso che appartiene all’Ordine dei Predicatori, ci propone di riflettere, con sana realismo metafisico, su questo spinoso problema, affrontando le questioni più importanti: il valore del testo e del contesto, l’affidabilità del testimone e delle testimonianze, il problema di Lessing ecc.

Il contributo è diviso in cinque parti: 1) Preamboli epistemologici; 2) Un tentativo di risoluzione metodologica; 3) Una conseguenza su cui discutere: l’importanza della discussione fatta per gli stessi studi biblici e di storia della Chiesa; 4) Appunto per una logica della testimonianza; 5) Dichiarazione di incompiutezza di questo breve studio e sua apertura ad ulteriori discussioni e approfondimenti in merito.

Di seguito le prime due parti.

Buona lettura [Giovanni Covino].


Prima parte: preamboli epistemologici

Iniziamo a descrivere uno dei problemi fondamentali della ricerca storica in quanto tale (avviso che si tratta di epistemologia dunque a questo livello di indagine va discussa la questione): problema dei rapporti tra testo (inteso in senso ampio come unità comunicativa dotata di senso compiuto) e contesto (inteso qui non come un dato insieme dei testi che possono benissimo illuminarsi vicendevolmente ma come ambiente storico reale in cui il testo è stato prodotto ossia come realtà di un’epoca con le sue dinamiche culturali, economiche sociali, politiche, ecc.).

Se il contesto spiega il testo ma a sua volta il testo stesso è alla base della ricostruzione del contesto si genererebbe un circolo ermeneutico vizioso. Questo è il primo problema.

Il secondo sempre di carattere epistemologico è: il numero di testi (ossia documenti e fonti di varia provenienza, letterari, artistici, ecc.) non ci garantisce della percentuale di conoscenza che realmente si possiede di una qualsivoglia epoca X. In altri termini, di una epoca storica non possiamo in linea di principio né dimostrare né mostrare quale sia la percentuale esatta di conoscenza che ne abbiamo (se del 20%, 50%. 90%, e così via). Si possono, infatti, in teoria trovare ulteriori testi che o approfondiscono o al contrario smentiscono quelli di partenza, o comunque causano un aggiustamento conoscitivo o una revisione nella narrazione. Dunque, la scientificità della ricerca storica è evidentemente messa in discussione. Questo colpisce dal punto di vista filosofico lo stesso storicismo epistemologico, vale a dire l’assolutizzazione indebita della ricerca storica come unica chiave di lettura della realtà degli eventi umani succedutisi nel tempo.

Il circolo ermeneutico si può obiettare che può essere virtuoso quale processo iterativo, dove gli storici partirebbero da una ipotesi di lavoro usando i testi per affinarla o per smentirla. Sarebbe un percorso di aggiustamento. Sul secondo punto non sembra esserci obiezione: è innegabile l’indimostrabilità – e non può essere smentita nemmeno per assurdo – della completezza di una ricerca storica su un contesto epocale X. Tuttavia, alla prima obiezione si controbatte ancora dicendo che se si parla di ipotesi di contesto come punto di partenza non si risolve il problema posto. Perché bisogna a sua volta rispondere al quesito: in base a cosa faccio ipotesi di lavoro su un certo contesto? E qui si danno tre casi:

1) o in base a fonti già in mio possesso (testi di vario genere, dove la parola testo va preso in senso più ampio che quello di pagina/e scritte);

2) o arbitrariamente;

3) o, laddove è possibile, partendo dal presente storico.

Qui si apre anche l’ulteriore problematica della credibilità delle testimonianze essendo un teste solamente umano fallibile, anche se non sempre fallisce e non fallisce di per sé,a differenza del teste divino che è infallibile. Il circolo pertanto sembra restare ancora vizioso. La storia si presenta, dunque, come uno studio della verosimiglianza e probabilistico in molti casi.

Dobbiamo ricordare che la conoscenza storica non è né immediata né diretta. La stessa verifica delle fonti poi non spetta tanto allo storico, ma sembra più propriamente spettare ad altre figure professionali come filologi, archeologi, paleografi, papirologi, ecc.. Ancora: la stessa ipotesi filosofica che la ricerca storica parte da conoscenze previe del contesto che studia in un dato caso per formulare l’ipotesi di partenza suggerisce l’idea critica che la stessa ipotesi di partenza viene fuori essa stessa già da una interpretazione. E di cosa? Le conoscenze previe del contesto, supposte tali, ripropongono il problema dei rapporti circolari viziosi tra testi e contesti. Sembra, accettando il metodo storico-critico come fondamentale ed esclusivo, che non se ne esca. Ci tengo a ricordare qui, altresì, che questa critica richiama in un punto almeno quella di Husserl allo psicologismo (si vedano i Prolegomeni a una logica pura § 21 in Ricerche Logiche): per comprendere il teorema di Pitagora non è necessario sapere nulla della sua psicologia e della sua biografia, né tanto meno se sia stato una persona reale o no.

Seconda parte: un tentativo di risoluzione metodologica

Tuttavia, a mio modesto avviso, una soluzione può essere offerta dal guardare al presente come qualcosa che non nasce dal nulla almeno a partire dai minuti iniziali seguenti l’origine del mondo stesso, ma la ricostruzione resta comunque verosimile e non arriva a conclusioni apoditticamente vere.

Nessuno storico può pretendere di sostituirsi al filosofo. Le stesse scienze naturali e i sistemi formali chiusi, detto per inciso, non sono esatti e/o completi e coerenti insieme (i secondi). La mia disamina non vuole condurre ad un radicale e totale scetticismo storiografico ma ad un ridimensionamento delle pretese epistemiche “storiologiche”. È un modo più realistico, che può benissimo accogliere uno scetticismo parziale non totale, che cerca di migliorare dal punto di vista epistemologico la metodologia stessa della ricerca storica. Si avverte, allora, la necessità di porre come un primo e vero e proprio punto di partenza metodico la critica formalistica dei testi dove il testo è preso prima di tutto in sé e analizzato nelle sue funzionalità che per ora chiameremo poietiche (struttura narrativa, stile, funzione comunicativa ed espressiva, genere, ecc.). Solo dopo si può tentare l’approccio storico-critico con maggiore esattezza.

La tesi che espongo è che quoad nos i testi e le fonti vengono prima dei contesti, epistemologicamente parlando. L’approccio formalistico come primo passo per l’indagine in questione offre il vantaggio di una fenomenologia ed una ermeneutica di base di qualcosa di immediatamente evidente perché parte da un dato innegabile: il fatto del testo[1]. In altri termini concentrarsi primariamente, ma non esclusivamente sulla forma letteraria, sulla struttura retorica, sulla narrazione interna permette di estrapolare un significato di partenza in modo oggettivo seppur in molti casi minimale prima ancora di porsi domande sul contesto esterno in cui tale testo è stato prodotto. La proposta metodologica è, dunque, quella di andare oltre il metodo storico-critico recuperando la lezione formalistica considerata come point de départ nella ricerca storica.

Tuttavia ciò non basta: è necessario un quadro filosofico a più livelli che faccia da fondazione ultima (una corretta metafisica, una corretta logica, una corretta epistemologia, una corretta filosofia dell’uomo, e così via). E questo perché altrimenti nemmeno in questo caso si supererebbero le assurdità e i paradossi dell’autoreferenzialità e dei circoli viziosi (in questo caso nel rapporto tra testo e contesto). Va precisato che se il testo ha un primato logico-epistemologico quoad nos, il contesto lo avrebbe dal punto di vista esistenziale.

In definitiva pur essendo la ricerca storica una disciplina autonoma con i suoi metodi specifici, ha bisogno di essere in qualche modo “ancorata” a principi filosofici più ampi e radicali. Ma ciò vale per ogni disciplina settoriale che studia onticamente (per usare una terminologia heideggeriana, ma in un senso molto diverso da quello del filosofo tedesco) nemmeno l’essenza di un ente (altrimenti staremmo nel campo delle filosofie seconde), ma addirittura le operatività degli enti  (circa l’ente in quanto ente il relativo studio è proprio l’ontologia). Da qui anche una osservazione critica della ossimoricità di qualsiasi ontologia regionale compresa una supposta “metafisica della realtà storica”.

Mario Padovano, OP


Note al testo

[1]Si propone una possibilità metodologica che si sviluppa in tre momenti: 1) analisi formale del testo; 2) generazione di ipotesi di contesto; 3) verifica e aggiustamento incrociato in altre fonti. Bisogna chiarire che non necessariamente i concetti previ utilizzati sorgono per astrazione universalizzatrice in questo caso, ma essendo artefatti umani possono essere anche il risultato di una ideazione che presuppone ragionamenti, quindi la terza operazione della mente che però a sua volta presuppone la seconda (affermare o negare) ossia il giudicare, e la prima (l’intuizione astrattiva universalizzatrice). Tuttavia questo punto andrebbe discusso ed elaborato in altra sede, portando a smentite o conferme sull’origine logica di queste nozioni tecniche come “epistola”, “trattato”, ecc. Difatti, l’inventore, poniamo dell’epistola, può averla ideata in base a ragionamenti, giudizi e nozioni previe ma uno studioso, sempre per ipotesi, che non abbia mai visto una epistola prima potrebbe benissimo astrarne il concetto la prima volta che la vede per intuizione astrattiva universalizzatrice.

Le immagini sono generate tramite IA.

Risposta

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Giovanni Covino, autore e curatore del blog.