Al Festival della Salute 2025 il noto scrittore Umberto Galimberti ha ritenuto bene portare un argomento a favore dell’eutanasia tale che funzionasse anche come principio di esplosione delle posizioni anti-eutanasiche, proprie dei filosofi del realismo metafisico, del senso comune e del Magistero della Chiesa Cattolica.
In sintesi lo scrittore vorrebbe far esplodere la dottrina circa l’inammissibilità morale della pratica eutanasica a partire proprio da una premessa che i “pro-life” – uso per comodità l’etichetta di uso comune – considerano la più importante: “la vita è dono di Dio”. Ebbene concentrandoci sull’argomento di Galimberti andiamo a riportarlo testualmente. Dice lo scrittore:
«La vita è un dono di Dio. Benissimo. Se uno mi fa un dono non è che questo dono io lo posso usare solo se il donatore mi dà il permesso oppure no. Il dono è mio, me lo gestisco io»
Ora cerchiamo di analizzare metodicamente i passaggi:
- la vita è un dono
- il dono è mio
dunque
- il dono me lo gestisco con puro arbitrio
La prima fallacia che possiamo notare è quella per cui si deduce dalle premesse più di quanto esse consentono. Un non sequitur ed un eccesso deduttivo. Infatti come si dimostra la necessità che un dono solo perché dono si deve usare con puro arbitrio? E se il donatore lo fa per uno scopo particolare? In sostanza non segue uno ius abutendi.
A quest’ultima domanda rispondiamo già che posto il dono e la bontà del donatore, quest’ultimo lo elargisce necessariamente a fin di bene, cioè lo ordina già alla perfezione del ricevente e, dunque, per uno scopo che esclude proprio la distruzione volontaria del dono.
Seconda fallacia: fallacia di ambiguità semantica. Galimberti gioca proprio sulla mancata definizione del dono. Non vi è nulla nel suo discorso che spieghi, premettendolo al sillogismo, cosa sia, in cosa consista questo dono.
Ora questo è importante per capire appunto se il dono ha in sé un fine ben preciso, che non toglie la gratuità del dono. La sua premessa “la vita è un dono di Dio” più che una definizione di “vita” è una determinazione dello statuto ontologico della vita. E questo genera una ambiguità semantica aggravata dall’assunzione di principio per cui un dono necessariamente andrebbe usato in maniera meramente arbitraria. Come se mio padre mi regalasse una macchina e io la usassi per investire mia sorella. Come si può evincere dall’esempio l’uso meramente arbitrario del dono ne contraddice il fine che pure è importante per determinare ancor più precisamente proprio lo statuto ontologico del dono. Dunque – ripetiamo – c’è una fallacia di ambiguità semantica. Ma portiamo un altro argomento basato sul principio di coerente estensione logica: lo stesso argomento galimbertiano possiamo applicarlo alla libertà (e si sottolinea che la dottrina del puro arbitrio e il filo conduttore dell’argomentazione in questione). Orbene:
- anche la libertà è un dono di Dio
- un dono lo gestisco come voglio io
dunque
- la libertà la gestisco come voglio io
pertanto
- è legittimo e moralmente valido che io sia libero di essere un tiranno
dunque
- di limitare se non annullare del tutto la mia e altrui libertà
e dunque
- è legittimo e moralmente valido che io, con la mia sovrana libertà (perché qui la libertà è intesa auto-referenzialmente come unico criterio di normazione morale il che è a sua volta paradossale perché si auto-negherebbe per auto-contraddizione performativa) impedisca de facto e de iure a chiunque di praticare l’eutanasia.
Ecco la fondamentale reductio ad absurdum, la pars destruens di tutto l’impianto galimbertiano.
Come pars costruens da quanto emerge dagli argomenti di cui sopra siamo difronte alla necessità di definire “dono” prima che “vita” e di distinguere tra almeno due tipologie di “dono” differenti: il dono come assoluta cessione e un dono che ha anche carattere di affidamento.
Ebbene in entrambi i casi posta la bontà del donatore non si può non ammettere che necessariamente ogni tipologia di dono concorre al bene, alla perfezione del ricevente. Però nella seconda delle due tipologie da noi individuate è ancor più evidente l’indissolubilità del legame che il dono stesso instaura tra il donatore e il ricevente. Per giunta, la vita non è un dono estrinseco al ricevente stesso, ma è atto del ricevente appunto in quanto vivente.
Concludendo, per analogia con l’astrofisica l’argomentazione di Galimberti implode e collassa su se stessa lasciando solo un enorme buco nero logico-filosofico che non conclude affatto e non produce nuove tesi vere ma semplicemente rivela un vuoto concettuale di una tesi che è talmente debole da annullarsi da sé.
Rimando, infine, all’articolo scritto con l’amico filosofo Giovanni Covino (clicca qui per leggere), dove ci siamo occupati dello stesso tema concentrandoci particolarmente sul senso della sofferenza e la dignità della vita umana.
Mario Padovano op



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