La vita, il dono e la ragione filosofica: una postilla necessaria

Ricevo e pubblico volentieri un articolo su uno dei temi più significativi del dibattito pubblico contemporaneo. Sul tema dell’eutanasia si gioca, difatti, una partita decisiva: il significato stesso del vivere umano. Quando si parla della vita come “dono di Dio” – come fatto da un noto scrittore recentemente – non si tratta di un vezzo linguistico o di una specie di caricatura teologica. È, al contrario, un’affermazione che porta con sé un “peso esistenziale” notevole: se c’è un Donatore, allora il suo dono non è mai neutro. Questo intervento di Mario Padovano nasce dall’esigenza di precisare alcuni punti della precedente risposta a Umberto Galimberti (per leggere l’articolo precedente: clicca qui), intervenuto al Festival della Salute 2025, e di ristabilire con rigore la coerenza logica implicita in quelle stesse parole che il filosofo ha scelto. La serietà di un confronto non si misura sul rumore che produce, ma sulla fedeltà alla verità che pretende di investigare. Se vogliamo discutere di vita e di morte, dobbiamo farlo senza ambiguità: chiamando le cose con il loro nome e riportando ogni argomento al suo fondamento ontologico.

Buona lettura [Giovanni Covino].


Per una questione di onestà intellettuale, fatta salva la correttezza argomentativa generale dell’impianto della mia precedente risposta al filosofo Umberto Galimberti circa il suo intervento al Festival della Salute 2025, devo però rilevare da parte mia alcuni punti di imprecisione. Sottolineo che l’onestà intellettuale è una virtù fondamentale per condurre un dibattito serio su una questione di tale rilevanza come il tema dell’eutanasia, perché in radice riguarda il senso e il fine della nostra stessa esistenza di persone di natura razionale.

Ebbene possiamo rilevare dei punti di apparente “forzatura” minori a cui però cerchiamo di rispondere.

1)La prima obiezione che si può fare riguarderebbe l’assunzione da parte mia della bontà teleologica del Donatore. Qui chiariamo subito e risolviamo l’obiezione evidenziando il fatto (et contra facta non valet argumentum) che l’assunzione di Dio nella stessa espressione usata (“dono di Dio”) nella premessa dell’argomentazione l’ha fatta Galimberti stesso. È Galimberti che ha parlato per primo di “dono di Dio”, il che significa che una volta che si ammette il Donatore divino non si può non ammettere la sua bontà e perfezione con quello che consegue ossia la bontà teleologica di ogni suo dono. E questo è argomento metafisico e teologico-razionale a cui un filosofo dovrebbe prestare maggior attenzione, altrimenti le fallacie di ambiguità semantica in tal caso ne conseguono logicamente e saranno ineliminabili. Del resto non si può mai eludere il tema teologico-razionale stesso in una seria ricerca filosofica.

2) Sembra che io stesso sia finito in una fallacia da non sequitur quando distinguo le tipologie di dono e ne conseguo che esse sono, posta la bontà del donatore, finalizzate intrinsecamente alla perfezione del ricevente. Qui qualcuno potrebbe obiettare ad esempio che anche il “Cavallo di Troia” rientrerebbe nella categoria del “dono” ma non era finalizzato alla perfezione dei troiani ma alla loro distruzione. Siamo in un caso di lettura frammentata del testo: infatti ho specificato “posta la bontà del donatore allora ne consegue la finalizzazione alla perfezione del ricevente”. E ripeto che la posizione del Donatore divino necessariamente buono per essenza la fa Galimberti. Ora è chiaro che ci può essere una tipologia di “dono”, chiamiamolo così, non finalizzato al bene di chi lo riceve (l’esempio del Cavallo di Troia appunto) ma in questo caso: a) non è posta la bontà per essenza del donatore; b) siamo in un caso dove, a quanto pare, si prende in considerazione solo la definizione nominale di “dono” per cui esso semplicemente è “quanto viene dato gratuitamente”. Qui bisogna affermare che questo non contraddice la mia distinzione tra dono come cessione e dono come affidamento, casomai la allargherebbe, se non fosse che dovremmo definire ora il concetto di “liberalità” e vedere se Ulisse sia stato liberale (nel senso classico e medievale del termine) oppure abbia soltanto usato un espediente. Nell’esempio fatto, Ulisse ha sicuramente “dato gratuitamente” (senza pagamento) il Cavallo di Troia alla città ma la domanda è se si tratterebbe di dono autentico – e sottolineo questo aggettivo – mancando il fine buono. Ora o distinguiamo tra dono autentico e inautentico o distinguiamo tra dono e trappola. Siamo qui dinanzi ad una ambiguità, ad una vaghezza, a mio modesto parere, nel contenuto stesso della definizione di dono semplicemente come “quanto viene dato gratuitamente”. Occorre passare a distinzioni (metafisiche più precise). Tuttavia questo non inficia il mio ragionamento dell’articolo precedente, perché si suppone la bontà del donatore. E comunque sia, resta il fatto che quello di Galimberti rimane un non sequitur potendosi ammettere una finalità intrinsecamente buona e orientata alla perfezione del ricevente di un dono qualsiasi. Sembra poi che per passare alla definizione reale e scientifica di dono non basta dire che è dato con liberalità e gratuità ma bisogna necessariamente stabilirne il fine con cui e per cui si dà. Nessuno infatti chiamerebbe “vero dono” fatto ai troiani il Cavallo dell’inganno. Tuttavia posto Dio e quindi la necessaria bontà del Donatore divino il problema di determinare la bontà teleologica del dono non si pone affatto: è consequenziale che il Donatore divino non può donare per un fine che non concorra e non sia ordinato al bene di chi lo riceve. Specie nel caso della “vita” che dal punto di vista filosofico è, ripetiamolo, l’atto stesso immanente del ricevente in quanto vivente. E questo apre le porte alla reductio ad fundamentum meta-etica, del piano della filosofia della natura e di quello della filosofia prima. E anzi richiama la necessità di condurre il dibattito prima di tutto a questo livello di ricerca e di studio. Perché la pars destruens da sola non basta!

Mario Padovano op

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Giovanni Covino, autore e curatore del blog.