Giulia Bovassi è una bioeticista e filosofa italiana. Si è formata in filosofia presso l’Università di Padova e specializzazioni in bioetica, neurobioetica e transumanesimo presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma. È ricercatrice associata per la Cattedra UNESCO in Bioetica e Diritti Umani, docente e ricercatrice presso la Universidad Anáhuac in Messico, oltre a essere cultore della materia in Filosofia del Diritto presso l’Università Europea di Roma. Autrice di saggi scientifici, si occupa di questioni etiche centrali come eutanasia, maternità surrogata, nuove tecnologie, transumanesimo, sessualità e famiglia, sostenendo una visione centrata sulla dignità della vita e dei diritti umani fondamentali. Briciole filosofiche ha avuto il piacere di intervistarLa [Giovanni Covino].
Gentile professoressa, innanzitutto La ringrazio per il tempo e per la disponibilità mostrata. Lei è una bioeticista. Partiamo dalle basi: che cos’è la bioetica e perché oggigiorno dovrebbe avere spazio nel dibattito pubblico e politico?
Bioetica è un neologismo etimologicamente composto da “bìos” ed “éthos”, da cui il significato letterale “etica della vita”. Si tratta di una disciplina recente, di natura pluralista e interdisciplinare, che indaga in modo sistematico la condotta umana nel contesto delle scienze della vita e della salute. Nasce come esigenza forte, alla luce dell’enorme progresso tecnologico, di mantenere ancorate tra loro materie scientifiche e scienze umanistiche affinché la persona, i suoi diritti fondamentali, la sua integrità, dignità e libertà vengano protetti da possibili abusi, dai quali purtroppo ha avuto origine l’esigenza stessa della bioetica. Centrale è il problema antropologico che non può, in questo contesto, restare indifferente a come le nuove tecnologie, la tecnica, abbiano radicalmente inciso, finanche cercato di determinare, il significato e la natura dell’essere umano nei processi biologici che maggiormente lo identificano, come il nascere e il morire.
Essendo la tutela della persona con i suoi diritti fondamentali al centro dell’interesse bioetico, è evidente che la pretesa di una regolamentazione giuridica delle applicazioni tecno-scientifiche interroga necessariamente la politica e il dibattito internazionale. Biodiritto e biogiuridica sono parte della triangolazione che definisce la bioetica: etica, medicina, diritto e nel mezzo l’antropologia. Malgrado alcune forze politiche o esponenti politici sentano, debolmente, l’urgenza dettata da queste sfide, resta silente la consapevolezza del ruolo della bioetica, della formazione per ogni singolo dilemma e la convinzione (evidentemente debole a causa anche dell’assenza di formazione specifica) che etica e politica oppure, peggio ancora, etica e diritto siano due linguaggi distinti, quando, in realtà, il diritto non fonda il bene, ma lo riconosce e riconoscerlo implica una visione di ciò che è giusto e ciò che non lo è. Un altro fattore sconveniente sotto il profilo politico viene riassunto nell’accezione “valori non negoziabili”, il che significa che quanto difendono non può essere oggetto di negoziazioni, compromessi o strategie che abbiano come priorità il consenso o altri interessi secondari. Un male morale resa un male anche se la maggior parte del popolo lo considera un “diritto” o un bene. Pertanto opporsi a certune derive contrarie alla dignità umana, ad esempio, diventa politicamente compromettente obbligando il legislatore ad uscire dalle logiche della politica per restare fedele a ben più alti doveri. La riflessione etica fornisce nutrimento al diritto, quindi alla politica, illuminandolo nel confronto col reale in un tempo storico in cui ogni desiderio avanza la pretesa di convertirsi in diritto. Il limite nella “convenienza” dell’etica è posto dalla necessità politica del consenso, che in una società fortemente segnata dalla piaga del relativismo e dell’indifferentismo, si frammenta con facilità quando deve confrontarsi con i valori umani e sociali in gioco. In tal senso, allora, molti sostengono che la bioetica sia scomoda e non convenga alla politica. È altresì vero, però, che scopo primario della vocazione politica sono la persona e il bene comune, ambedue inscindibili da una visione sull’uomo e dalla verità del bene perseguito. Alle spalle della risposta politica vi è sempre una coscienza etica e tanto maggiore è il potere di dominio/manipolazione della vita umana o di rivoluzione antropologica e tanto più grande sarà il dovere di conservarne identità e integrità. La bioetica ha un potenziale pro-attivo in grado di orientare le valutazioni politiche, occorre acquisirne consapevolezza. Il tempo delle sbavature e della tiepidezza è giunto clamorosamente al termine: occorre l’umiltà di formare in maniera critica (in ambito politico, universitario, culturale) sulle materie bioetiche e agire coerentemente con la responsabilità che questa conoscenza genera. C’è bisogno di una presenza politica per-l’uomo e non contro-l’uomo, che sappia farsi garante di questi valori e contribuisca con integrità e fermezza alla rinascita culturale e valoriale del nostro Paese rinunciando ad una ideologica cultura dello scarto.
Una parte centrale del suo lavoro riguarda le questioni di fine vita. Quali sono, a suo avviso, i rischi più gravi legati alla diffusione di pratiche come eutanasia e suicidio medicalmente assistito?
Il primo e fondamentale rischio insito in tali pratiche, quindi giocoforza nella loro legalizzazione sia essa minimale o estensiva, consiste nell’attentato diretto alla dignità, oltre che alla vita, dell’essere umano, del quale la libertà è valore secondario che mai può rivolgersi contro ciò che consente il suo esercizio: la vita. Per questo un presunto “diritto a morire” viene laicamente definito la morte del diritto stesso. Ormai siamo assuefatti da azioni contro l’indisponibilità della vita e da altrettante concezioni falsate della dignità intrinseca, sulla quale si fonda il principio di uguaglianza sostanziale, e che nell’uccisione del paziente o nell’aiuto al suicidio dello stesso assolutizzano l’autodeterminazione creando discriminazioni fra esistenze degne o indegne basate sulle condizioni psico-fisiche nelle quali vertono. A ciò consegue che il valore di anziani, malati, disabili, fragili, uomini e donne, talvolta anche minori, esausti della vita saranno considerati, se lo vorranno, un disvalore sociale sulla base di criteri stabili da autorità terze in modo del tutto arbitrario. Come e chi potrà arrestare le derive di questa visione? Chi potrà, coerentemente, definire un perimetro (pur sempre discriminatorio) dividendo la società in base a criteri di inclusione/esclusione alla richiesta di suicidio e/o eutanasica? Nessuno. Per questo la deriva estensiva di qualunque iniziativa legislativa restrittiva non rappresenta una mera ipotesi speculativa, bensì la realtà, questa sì, fattuale e giuridica prospettata per il nostro Paese (qualora dovesse essere legalizzato il suicidio assistito) e di tutti quei paesi che hanno già attraversato il medesimo crinale proprio a partire da perimetri circoscritti.
Chiunque sostenga o promuova iniziative legislative di questo genere deve fare i conti con una domanda fondamentale: il suicidio, non necessariamente assistito dal momento che non costituisce un atto medico, e con esso l’omicidio del consenziente sono atti buoni eticamente? Rappresentano un valore individuale, giuridico, sociale, morale? La risposta proviene dal nostro ordinamento che persegue penalmente simili condotte a ragione del valore etico negativo riconosciuto in chi le compie. Un secondo rischio grave consiste nella “pressione sociale indiretta”, associato a tentativi di legiferazione nel merito, ben evidenziato dalla sentenza n. 135/2024 della Corte Costituzionale. Un fenomeno per il quale chiunque, dietro alla “scelta libera”, potrebbe subire in modo diretto o indiretto pressioni da parte della famiglia o della società a congedarsi anzitempo dalla vita per smettere di essere un costo sociale inutile e un peso a causa della propria autonomia ridotta. È uno scenario realistico, purtroppo. Ogni suicidio/atto eutanasico è una sconfitta sociale, spirituale, politica, culturale e valoriale. Sarà una sconfitta anche per l’ars curandi, l’arte medica, considerando quanto andrà a implementare un disinteresse verso la gestione del dolore e della sofferenza: se vi saranno vie di fuga eutanasiche verrà considerato un investimento di poco conto con l’effetto diretto di ridurre l’impatto già debole che socialmente hanno le cure palliative quando, al contrario, andrebbero promosse e sostenute. Non ultimo l’obbligo in capo al medico, farmacologo, operatore sanitario di farsi esecutore delle richieste auto-omicide del paziente, in piena contravvenzione del Codice Deontologico e al Giuramento ippocratico.
Infine, come sarà possibile, con quale credibilità e coerenza, affrontare ancora la piaga del suicidio (non assistito, dal momento che il suicidio in sé non è un atto medico) e agire in senso preventivo a seguito della legalizzazione del suicidio medicalmente assistito? La legge crea cultura, ha un valore pedagogico e antropologico: pochissimi conoscono le sentenze della Corte; molti, invece, conoscono le leggi del proprio Paese e nella mentalità comune quando una condotta viene legalizzata, significa che è moralmente lecita. Malgrado i due aspetti non siano consequenziali, questo è il valore educativo della norma, soprattutto quando penale.
Ha espresso posizioni critiche verso la maternità surrogata. Quali sono i punti più problematici di questa pratica e quali alternative eticamente sostenibili intravede?
Esatto, in particolare ho espresso una posizione critica presso la sede di New York delle Nazioni Unite dove, lo scorso anno a marzo 2024, sono stata invitata ad un convegno dedicato al tema organizzato dall’Osservatorio permanente della Santa Sede presso l’ONU e ADF International. Come spiegato lì, la pratica della cosiddetta maternità surrogata, anche se del materno non preserva nulla, in qualunque sua forma sia essa commerciale o altruistica rappresenta una violenza nei confronti della donna, del concepito, della famiglia. Violenza perpetrata per ragioni individualiste, di mercato, ed egoistiche le quali vengono lette come diritti ai quali dover corrispondere doveri e servizi, in realtà reificano la persona umana e decostruiscono l’identità della famiglia naturale.
Mater semper certa est, principio classico e cardine del diritto, diventa una locuzione anacronistica. La pratica della maternità surrogata è connotata da un altissimo valore simbolico con ricadute sul senso della generazione, che viene totalmente riscritto. “Maternità surrogata”, “utero in affitto”, “gestazione per altri” sono diverse ma non dissimili espressioni normalmente utilizzate e diffuse nella vulgata comune per intendere la pratica con cui una donna accetta, sottoscrivendo un contratto, di portare a termine la gravidanza per conto di due acquirenti (cosiddetti “genitori sociali”) ai quali consegnerà il neonato subito dopo il parto. La donna può acconsentire alla gestazione per altri a fine lucrativo dove il servizio, dal concepimento al parto, prevede una retribuzione per la gestante oppure a fine oblativo, cioè “donando” il proprio utero spinta da motivazioni solidaristiche e altruistiche. La scelta a fine lucrativo è quella più perseguita sia da coppie committenti eterosessuali sia omosessuali. Alle Nazioni Unite ho chiesto provocatoriamente: “dov’è la madre nell’era tecnologica?”. Nel tempo storico attuale il linguaggio appartiene a dinamiche di potere molto forti: ad esempio, tenendo a mente quel principio che ho definito in diverse pubblicazioni di “igienizzazione”, i tentativi di destituire termini come “donna”, “madre” e “padre” dalla loro dimensione semantica per sostituirli con generalizzazione neutre, fanno appello alla medesima logica per cui “l’utero in affitto” diviene “maternità surrogata”, che a sua volta deve diventare “gestazione per altri”. La ragione consiste nell’attuare strategici cambiamenti su più fronti e simultanei al fine di predisporre un’attitudine mentale sociale in grado di accogliere come moralmente buono un atto moralmente deprecabile per la natura dell’atto in sé, per ciò che comporta. Analogamente capita nell’assimilazione e/o sostituzione dei termini “procreare” (o “generare”) e “riproduzione” dove i primi sono dotate di un’alta connotazione umana, mentre il terzo appartiene propriamente al mondo animale. La riproduzione in medicina è un linguaggio biologico-naturalista, il problema è quando un significato viene espropriato dal suo orizzonte semantico per essere trasferito in un altro orizzonte semantico. Quando il concetto di “riproduzione”, cioè produrre qualcosa di nuovo ma non unico né eccezionale, viene utilizzato per parlare della generazione o procreazione umana il passaggio compiuto è antropologico: il fatto del nascere e del principio del nascere, cioè il concepimento, escono dal piano dell’agire per entrare in quello del puro fare e i frutti dell’agire (l’essere umano) assieme ai loro tratti specifici (unicità, irrepetibilità, eccezionalità) divengono i prodotti del fare (ripetibili, omologati, scelti). Sotto questo profilo già percepiamo lo stravolgimento della maternità e dell’identità filiale innescato dal possibilismo tecnologico e dal potere linguistico. Nella surrogazione assistiamo allo svuotamento della genitorialità, della relazionalità, della persona e, va da sé, dei suoi diritti. Oltre ad alimentare una “filiera procreatica”, un mercato di uteri e bambini spesso gestito da apposite agenzie che sfruttano la vulnerabilità economica di alcune donne alimentando una divisione classista della società, la surrogata priva la donna di qualunque autodeterminazione su di sé e il proprio corpo: le gestanti non sono donne libere; sono donne che sottoscrivono un contratto con il quale stipulano l’abbandono di un bambino geneticamente estraneo a loro per un compenso. Questo accordo pone un controllo serrato sul loro stile di vita, sulle scelte di vita, sul rapporto con il proprio partner. Impone un’indifferenza emotiva durante la gestazione per evitare ripensamenti o conflittualità alla nascita. Impone ciò che definiscono “riduzione”, ovvero l’aborto selettivo qualora i contraenti dovessero cambiare idea e/o esigente oppure il bambino rivelasse malformazioni, patologie, ecc. A questo la gestante non ha il potere di opporsi. Non è libera, ma dipende dai dettami del mercato e degli acquirenti. Esserne indifferenti, pretenderne indifferenza, è una forma di violenza totale. È violenza sterilizzare questo rapporto. È violenza annichilire la statura valoriale della donna in un mezzo per soddisfare dei bisogni non propri. Una cultura per la donna di fronte alla spinta dettata dalla necessità, sofferta, che porta a diventare “vettori”, dovrebbe lottare per garantire loro un’alternativa eticamente buona. Dovrebbe garantirla anche ai figli, che subiscono un atto di prevaricazione sul diritto a conoscere le proprie origini, il diritto a nascere (non scontato sebbene sia l’obiettivo della surrogata!) e il diritto all’integrità psico-fisica, considerando i rischi clinici che la pratica di fecondazione assistita comporta, in aggiunta a quelli legati allo sviluppo post-natale. Alternativa che c’è ed esiste: l’adozione, la quale nulla ha a che vedere con il mercato della surrogazione, dal momento che la prima dà una famiglia ad un figlio abbandonato, prendendo atto di un male al quale non ha contributo né voluto; la seconda, la surrogata, avviene per dare un figlio ad una famiglia mettendo in secondo piano il primario interesse del minore, dando un prezzo alla sua esistenza, pretendendo che egli sia in un modo anziché in un altro e stipulando a sue spese senza che egli possa opporsi la sua condizione di abbandono.
Oltre a questo ho posto al Palazzo di Vetro, e ripropongo ogniqualvolta capita di affrontare il tema, una questione taciuta: la verità ontologica sul concepito. Questo ignobile mercato di donne e figli coinvolge i minori prima della loro esistenza. Non prima della loro nascita, ma prima che esistano: il contratto si basa sull’acquisto del figlio progettato (baby-design) e idealizzato, che verrà concepito in funzione dell’accordo tra contraenti. Il figlio, dunque, è riconosciuto tale, malgrado l’assenza di tutele e diritti, fin da prima del suo concepimento. Questo dovrebbe riaprire un dibattito serio sui diritti del nascituro.
La bioetica è un campo segnato da una forte pluralità di approcci e visioni. Come si può favorire un dialogo costruttivo tra prospettive spesso in conflitto senza cadere nel relativismo etico?
Risposta: Il dialogo è sempre uno strumento prezioso e da applicare, cosa non scontata nemmeno fra bioeticisti con il medesimo orientamento, ma è evidente che se la bioetica, ed è così, tocca i diritti fondamentali della persona ed è chiamata a compiere un discernimento su ciò che è giusto o meno compiere su di essa, trovare una convergenza allo stato attuale segnato da una feroce “dittatura del relativismo” risulta difficile. Alcuni bioeticisti parlano di “etica minima”, che su determinate tematiche di pertinenza bioetica è necessaria, eppure sono convinta che quest’ultima sia possibile quanto indispensabile se torneremo a stabilire una visione comune su chi è la persona e i criteri del bene.
Infine, nuove tecnologie e intelligenza artificiale promettono trasformazioni radicali dell’umano. Quali pericoli individua nel transumanesimo? Crede che la bioetica possa offrire un criterio di discernimento per il futuro?
Risposta: Tratto della tematica nella mia recente pubblicazione “Attrazione digitale. Il lato oscuro del transumano e dell’intelligenza artificiale” edito da Il Timone e l’idea di trattare il “lato oscuro” nasce proprio nella consapevolezza che i benefici siano concreti, attuali, condivisi ed evidenti, ma non possiamo dire altrettanto per i rischi. Quest’ultimi, infatti, dividono esperti ed opinione pubblica, un po’ perché intimidiscono e un po’ perché creano scetticismo, eppure è fondamentale creare spazi di approfondimento, azione e dibattito proprio a partire dagli scenari meno ottimisti, positivi, benefici delle nuove tecnologie, con attenzione particolare all’IA e alla digitalizzazione sociale.
Spesso si tende a pensare che il Transumanesimo sia una distopia futuristica: per certi aspetti, in determinate applicazioni tecno-scientifiche lo è, poiché ancora sono oggetto di ricerca e sperimentazione; d’altro canto credo sia un errore considerarlo “lontano” dal presente in quanto il pensiero transumanista, la forma mentis che guida questa corrente filosofico-scientifica, è pienamente integrata nell’atteggiamento odierno rivolto alla tecnica. Non a caso, “condizione tecno-umana” identifica esattamente un passaggio dall’avere tecnologia all’essere (o diventare) tecnologia. Se quest’ultima rappresenta un mezzo, ingegneristico, di rispondere ai bisogni dell’uomo; con il transumanesimo il mezzo tecnico diviene un luogo di senso e di salvezza. Diventa ciò che fa dell’essere umano ciò che è. L’individuo, nel transumanesimo, ambisce all’immortalità; alla fusione uomo-macchina; alla datificazione dell’individuo; alla sconfitta del dolore, dell’invecchiamento, delle malattie e all’espansione indefinita delle proprie capacità cognitive, biologiche. Nulla di nuovo; la novità risiede nel rovesciamento antropologico a cui aspira: l’evoluzione autodiretta della specie a favore della conservazione dell’umano solo nella misura in cui diventerà trans-umano, oltre i limiti dettati dalle sue origini.
In questo scenario la bioetica sta intervento e, a mio avviso, tornerà a coprire quel ruolo prezioso che l’ha vista nascere: una scienza della sopravvivenza e un ponte verso il futuro.
Intervista a cura di Giovanni Covino



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