Propongo ai lettori questa riflessione di M. Padovano sul rapporto tra fede e ragione nell’opera di Kierkegaard (1813-1855), filosofo che ha ispirato il titolo di questo blog. L’Autore analizza le pagine del pensatore danese alla luce dell’interpretazione di Cornelio Fabro, uno, se non il maggior traduttore di Kierkegaard [Giovanni Covino].
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Credere è il massimo atto di libertà, massimo sacrificio oggettivo di libertà. Se per credere occorresse capire, il credere non sarebbe credere, ma c’è un capire anche nel credere; il capire del credere non riguarda l’oggetto, ma l’atto: io capisco che devo credere in Qualcuno, per cui Scio cui credidi.
Cornelio Fabro
Soren Kierkegaard si è definito senza riserve «uno scrittore religioso»[1] e ha sempre affermato con decisione l’importanza che riveste nella sua opera il problema della fede: «È chiaro che nei miei scritti» – egli dice – «ho dato una ulteriore determinazione del concetto di Fede»[2].
Tutto questo non è sfuggito ovviamente al grande filosofo italiano Cornelio Fabro, il quale, infatti, ha saputo ravvisare sin dall’inizio come, per tutta la tematica esistenziale del danese, il punto capitale, lo snodo centrale, sia stato proprio il problema della fede, che anche per Kierkegaard così come per Tommaso d’Aquino presenta due aspetti essenziali dai quali non si può prescindere: uno riguardante la sua natura intrinseca di atto razionale, di atto del pensiero che dà il suo assenso a verità non intrinsecamente evidenti ma fatte tali da segni estrinseci di credibilità del testimonio[3], aspetto sul quale Tommaso stesso si esprime con chiarezza estrema dicendo: «Non enim crederet, nisi videret ea esse credenda vel propter evidentiam signorum, vel propter aliquid huiusmodi»[4]; l’altro invece di atto del soggetto (del singolo, secondo la terminologia kierkegaardiana) che si configura, possiamo dire, come la “scelta radicale” e ultima in virtù della quale tutti gli uomini potranno effettivamente, realmente, darsi la svolta decisiva verso il possesso ultimo del Sommo Bene, in quanto per essa «ordinatur homo ad perfectam Dei cognitionem»[5]. E così si esprime a riguardo il padre stimmatino:
«Si sa che per Kierkegaard, come per ogni cristiano, il problema della fede s’identifica con il problema dell’esistenza cioè con quello del senso e della dialettica del nostro destino: il problema della fede perciò è la prova del fuoco del pensiero di Kierkegaard»[6].
Se la domanda più importante della vita dell’uomo è quella relativa al suo bene ultimo che per natura è l’Assoluto, allora non è problema accessorio, di seconda mano, ma essenziale e radicale quello della scelta che egli stesso fa di questo bene, per cui non si dà piena definizione di uomo se non lo si presenta anche come «singolo davanti a Dio». Pertanto visto che la fede (in una divina rivelazione) è la reazione (intellettuale e vitale) che il Singolo medesimo è chiamato ad avere di fronte a Dio (l’Assoluto) dal momento che Questi rivela, in qualche modo, di Sé, per ordinarlo, indirizzarlo, concretamente verso l’ultimo fine, la beatitudine, essa per ciò stesso coincide con l’ultima forma che per noi assume la situazione suddetta della scelta radicale ovverosia del punto nevralgico del problema esistenziale: «Unde ad hoc quod homo perveniat ad perfectam visionem beatitudinis praeexigitur quod credat Deo tanquam discipulus magistro docenti»[7] – ha detto Tommaso. Chiarirne gli aspetti, pertanto, è compito a cui non può sottrarsi il filosofo che appunto su tale dialettica si interroga facendo del «Singolo» uno dei suoi temi di fondo. Per Kierkegaard, cioè, come per Fabro del resto e già prima per l’Aquinate, «solo la scelta assoluta dell’Assoluto libera l’uomo e lo realizza nella sua infinita dignità di uomo come “singolo davanti a Dio”» – come commenta P. Elvio Celestino Fontana. E il discorso di Kierkegaard, come dice lo stesso Fabro, «diventa sempre più stringente e tende a raggiungere l’ultima concretezza esistenziale che è quella che fa capo all’Io in atto come rapporto a se stesso mediante il rapportarsi del rapporto al suo fondamento che è l’Assoluto secondo la prima formula che permette, specialmente nella Malattia mortale, di vincere la disperazione: «Mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’Io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto» (La malattia mortale, p. 217). […] E questo Io metafisico… diventa Io teologico mediante il rapportarsi a Dio […] Infine – ed è la risposta definitiva al problema delle Briciole e della Postilla – viene la potenziazione ultima dell’Io mediante l’Incarnazione ossia l’Io di fronte a Cristo: un Io cristologico (l’espressione è mia ma il concetto di Kierkegaard)»[8].
La questione del rapporto tra fede e ragione pertanto non può mai considerarsi secondaria ma fa un tutt’uno col problema centrale del valore medesimo della fede per l’esistenza del Singolo, corrispondendo in sostanza a un momento della determinazione della verità, perché è in questo rapporto che si esprime in ultima istanza la definizione della natura intrinseca dell’atto di fede stesso, quell’atto che per Kierkegaard è «il più arduo che possa compiere un uomo, l’atto per il quale egli diviene proprio una “creatura nuova”; ma è anche un atto alla portata di tutti, offerto a tutti e che non fa alcuna eccezione nelle sue esigenze: riguarda egualmente l’esistenza di tutti e di ciascuno»[9].
La disamina di Kierkegaard sul punto in questione, inserendosi nel più ampio discorso sul singolo, parte, come nota Fabro, sempre dalla sua polemica antihegeliana e contro la falsa teologia della destra hegeliana «che difendevano una certa forma di unità di fede e scienza e vedevano la scienza in continuità diretta con la fede ed anzi come un certo qual suo perfezionamento»[10]. Visione gnostica dunque in cui spariva la fede come atto razionale e momento esistenziale di passaggio verso il possesso vero e proprio dell’oggetto riservato alla ultraterrena visione beatifica per divenire invece un velleitario stadio e transitorio della dialettica interna ad una scienza tutta terrena e naturale. In una visione del genere Kierkegaard si rese ben conto che lungi dall’aver trovato il rapporto autentico tra ragione e fede, in realtà veniva ad essere negata dall’hegelismo la validità stessa di una divina rivelazione. A partire da queste premesse, pertanto, si può meglio comprendere il significato di quei termini usati dal danese che non spiccano per la verità, come sottolinea lo stesso Fabro, per precisione terminologica così come l’intera sua opera di un solido metodo speculativo[11]. Così, nonostante sia impossibile disambiguare il linguaggio di Kierkegaard in ogni luogo della sua opera, è nondimeno alla nostra portata, secondo Fabro, coglierne, in relazione con altri suoi spunti e in virtù della sua polemica anti-razionalistica, la trama fondamentale indubitabile, almeno per la questione della fede:
«Cercheremo – scrive il padre stimmatino – di indicare qual è “questa determinazione più precisa” della fede… per non smarrirci anche noi e per seguire un cammino sincero, ci serviremo delle stesse formule di Kierkegaard, limitandoci a indicarne la trama fondamentale. Questa, del resto, non può a nostro parere essere posta in dubbio»[12].
Stabilito, pertanto, che per Kierkegaard «soggettività» nient’altro significa se non l’io concreto che compie l’atto di fede, indicando poi anche lo sforzo personale, la necessità delle opere (degli atti) affinché la fede sia realmente esistenza viva, sia fede vissuta, ben si vede come il «principio della soggettività» di Kierkegaard «si trova agli antipodi sia della soggettività creatrice della filosofia moderna come anche della soggettività protestante e luterana nella comune accezione della sola fides, comunque la si intenda come una professione di fede nei riguardi di una certa realtà ecclesiastica riconosciuta o come semplice interiorità della fede fiduciale»[13].
Il concetto da chiarire in primis diventa allora proprio quello più notoriamente usato dal danese in rapporto al tema della fede: quello, cioè, di «assurdo», di «paradosso».
Dal confronto dei testi fatto da Fabro specialmente nel saggio Foi et raison dans l’oeuvre de Kierkegaard, in Revue des sciences philosophiques et théologiques, t. XXXII (1948), emerge con chiarezza che ciò che Kierkegaard espressamente combatte è l’assorbimento idealista della Fede nella ragione e che quel che chiama assurdo non va inteso nel senso di contraddizione logica ma in quello di salto esistenziale dovuto ad un contrasto, o meglio ad una sproporzione, tra l’inafferrabilità dell’oggetto di fede in se stesso e le sole forze della finita ragione umana, soprattutto nel caso in cui questa si illude addirittura di essere la misura stessa della verità: «un contrasto che intacca la sufficienza stessa della ragione finita che della sua finitezza aveva fatto il criterio e la sostanza della verità»[14].
La critica, pertanto, come si vede, è particolarmente indirizzata a quella sorta di gnosticismo moderno che coincide con la visione idealistico-razionalista, fondata sul cosiddetto «principio d’immanenza», che sfociò poi – e non accidentalmente – nell’ateismo di Feuerbach e del marxismo. In generale invece l’oggetto di fede più che essere coincidente con l’assurdo sembra, qui, sia piuttosto da intendersi come causa dell’assurdo, se con questo termine significhiamo quella situazione esistenziale offerta alla ragione umana dall’evidenza che in questo caso deve «comprendere che non si può comprendere». «Ora – scrive Fabro – la terminologia è chiara: l’oggetto della fede è per così dire un “assurdo volontario”, è l’assurdo solo per chi non vuol accettare la fede; chi accetta la fede come da Dio vede nell’ oggetto della fede la verità stessa che salva e la “tentazione dell’assurdo è vinta e sparita»[15].
A questo punto possiamo, sulla scia di Fabro, vedere altresì la funzione positiva che Kierkegaard assegna alla ragione, funzione che riguarda sia la preparazione alla Fede sia poi, sotto la guida della Fede stessa, la sua esplicazione[16]. Egli infatti intende soltanto difendere la trascendenza dell’oggetto di fede contro la presunzione di una ragione illuminista e idealista la quale nega appunto la fede quale “forma di sapere” accanto e non in sostituzione a quello della conoscenza diretta (immediata e mediata). Perciò Kierkegaard non ha difeso la fede contro la ragione in quanto tale ma contro un concetto di ragione mendace che pretendeva fosse questa da sé sola capace di penetrare la stessa vita intima di Dio. Di contro in Kierkegaard, nota Fabro, la ragione ha un vasto campo di lavoro a partire da quel che si dice «giudizio di credibilità» che «per lui, come per San Tommaso,… è opera della ragione che si accosta alla fede…»[17]. È con questo giudizio infatti che riconosciamo i segni di autorità, fondamento della stessa credibilità[18], ottenendo così il presupposto logico per compiere l’atto di fede: «Quando si dice» – afferma Kierkegaard – «che la Fede si appoggia sull’autorità, e con ciò si crede di aver escluso il momento dialettico, si è in errore. La dialettica della Fede comincia con la questione: “Come ora avviene che ci si affida a questa autorità? C’è una ragione per sceglierla o è per puro caso?”. In quest’ipotesi l’autorità non è autorità neppure per il credente, se egli sa che si tratta di un puro caso»[19]. Pertanto ha ragione Fabro nel ritenere che anche per il danese va assolutamente affermata la possibilità e necessità dell’apologetica, di quella che si definisce «ratio ante fidem et ad fidem». Tuttavia c’è apologetica e apologetica. Il millantato fine apologetico della filosofia idealistica a partire da Cartesio, infatti, come già abbiamo visto, è tradito ab origine in virtù del razionalismo di base e del principio d’immanenza su cui detta filosofia si fonda, in quanto in essa la nozione stessa di «rivelazione divina» risulta a conti fatti invalidata. Kierkegaard segue invece la strada del realismo metafisico e conclude pertanto che esiste certamente una risoluzione dell’atto di fede, «che questa porta sull’ autorità e che l’autorità è garantita da segni esteriori: p.e. da miracoli»[20]. E padre Fabro non manca di citare un passo dei Papirer dove il «Socrate del Nord», commentando il testo evangelico «Se non vedete segni e miracoli, voi non volete credere» (Gv 4,48), esplicitamente afferma che il «quasi credere si illude di credere; coi miracoli e simili cose non se la può intendere; crede, come si dice, in Dio o in Cristo, ma lascia da parte i miracoli. – Cristo però dispone la cosa in modo diverso. Prima viene quella Fede che crede nei miracoli perché li vede; poi viene la seconda che crede anche se non ne vede più alcuno»[21]. E questo è il momento propedeutico all’atto di fede in cui «hanno la loro funzione i miracoli, mentre una fede già solida può farne anche a meno ed ha perciò più merito»[22]. Come dice A. Livi, «la razionalità dell’atto di fede nella rivelazione divina implica la funzione critica della ragione umana, ossia il vaglio razionale della credibilità dell’enunciato… e prima ancora il vaglio razionale della credibilità del teste» e si chiamano “motivi di credibilità (motiva credibilitatis) «quegli eventi e quelle circostanze [interpretati alla luce dei praeambula fidei] di fatto capaci di motivare, in coloro che sono chiamati a credere nella Rivelazione, una fondata certezza che si tratti proprio di una rivelazione divina»[23].
In Kierkegaard abbiamo così anche l’accettazione della possibilità della teologia (Sacra Doctrina) e della teologia come scienza. Come ci fa notare Fabro a riguardo, la dichiarazione del danese a favore della cosiddetta «ratio post fidem et pro fide» si trova nel Diario del 1850 «e segue a un testo di forte critica contro le pretese della teologia hegeliana di voler dimostrare con la ragione il dogma trinitario» e dice ad un certo punto: «Inoltre la speculazione può controllare la fede, cioè sorvegliare su quel che si crede… per vigilare onde a furia di chiacchiere non s’insinuino nella fede determinazioni che non sono oggetto di fede, ma invece p. es. di speculazione. Tutto questo comporta un lavoro molto lungo» (Diario, tr. it., Brescia 1949, t. II, p. 330). È pertanto evidente che anche per Kierkegaard la distinzione tra i due campi della scienza connaturale alla sola ratio e della fede non è una ricaduta nella dicotomia kantiana “sapere/credere” in cui ogni atto di fede è meramente “soggettivo” nel senso della filosofia moderna come qualcosa di prodotto dal soggetto e non razionalmente giustificabile e tanto meno comunicabile, in quanto non l’atto ma l’oggetto vien fatto coincidere con una qualità della coscienza. E così come il danese ha combattuto la distorta unità di scienza e fede nell’hegelismo col concetto dell’assurdo della fede quale paradosso solo per la ragione autarchica, così ha decisamente rifiutato il fideismo protestante che pure sulla dottrina kantiana faceva leva, criticando la nozione di “interiorità segreta” e di sola fides. Piuttosto Kierkegaard sta sulla scia di Tommaso e della più ortodossa dottrina cattolica che opportunamente in questo punto distingue due tipi di assenso, quello che procede dall’evidenza intrinseca dell’oggetto (assenso della scienza, o meglio della conoscenza diretta immediata e mediata) e quello che procede dall’evidenza estrinseca dei segni a conferma della credibilità di un teste (assenso della fede); e così facendo non ha alcuna difficoltà nel ritenere la fede stessa una forma di sapere, di conoscenza, quale essa appunto è, una «funzione della verità»[24]. Ed è lo stesso Socrate del Nord che ci fa sapere che su tal punto egli ha accettato in pieno quella formula di Ugo di San Vittore che ha ispirato la migliore Scolastica e in particolare l’Aquinate stesso, la quale dice: «In his quae supra rationem sunt non adiuvatur fides ratione ulla; quoniam non capit ea ratio quae fides credit, et tamen est, aliquid quo admonetur venerari fidem quam non comprehendit»[25]. E se Kierkegaard commenta «Questo è ciò che io ho svolto (per es. nella Postilla conclusiva), cioè che non ogni assurdo è l’assurdo o il paradosso della fede. L’attività della ragione consiste proprio nel riconoscere in modo negativo il paradosso»[26], l’Aquinate più volte la cita a sostegno delle sue tesi e ne risulta essenzialmente influenzato, come in De Veritate, q. XIV, a. 2 e Summa theologiae, II-II, q. 4, a. 1. Del resto il valore indubitabile che anche per Kierkegaard aveva la razionalità della fede nella rivelazione è anche de facto dimostrato dall’uso reale e convinto che della ragione ha fatto in tutte le sue opere e nello stesso Diario scritto proprio con intenti chiarificatori del suo itinerario speculativo. Eppure, se anche Fabro ha mostrato senza tentennamenti questa convergenza di Kierkegaard con la dottrina cattolica e in particolar modo col realismo metafisico di Tommaso, sottolineando d’altra parte anche il sapore decisamente esistenziale di molte pagine tommasiane, non per questo non ne ha visti e indicato pure i limiti e le ambiguità in altri luoghi. Spicca soprattutto la mancanza da parte di Kierkegaard di una profonda dottrina ecclesiologica che lo portò a non cogliere il significato profondo che ha la Chiesa come «Corpo mistico» nel Cattolicesimo e nella dottrina tomista, pur negando la nozione di «chiesa di stato» appartenente a quella che egli stesso definisce con disgusto la «cristianità stabilita» del protestantesimo (rappresentata, ad esempio, dal vescovo Martensen), una cristianità de-sacralizzata, de-sovrannaturalizzata e pertanto non solo vivente nel mondo ma anche appartenente al mondo. Manca altresì nel pensatore danese una precisa individuazione degli stessi segni di credibilità nella loro realizzazione concreta, ossia non vi si trova nelle pagine kierkegaardiane l’analisi delle caratteristiche reali delle varie religioni in modo tale da poter discernere quale sia la vera e quale la falsa. Manca in sostanza quel lavoro di apologetica che tanto ebbero a cuore i vari Sant’Agostino che scrisse un’opera come il De Moribus Ecclesiae et de Moribus Manichaeorum libri duo, San Tommaso d’Aquino con le sue Summae, San Roberto Bellarmino con il Catechismo maggiore, e, proprio nel secolo dei cosiddetti lumi (quando con maggior vigoria ha cominciato ad imperversare l’opera di scristianizzazione e non a caso di de-teocentrizzazione della società condotta in special modo dalla setta massonica), Sant’Alfonso Maria de’ Liguori col suo Verità della fede dove con eccellente rigore argomentativo non disgiunto dallo stile armonioso e agile del buon pastore grazie alle analisi dei preambula fidei e dei motiva credibilitatis offriva ai sacerdoti e ai cristiani futuri uno dei mezzi più convincenti di difesa dialettica della propria fede, con un atto di somma e fondamentale carità, di carità della verità, in cui fanno, appunto da perno le enunciazioni di principio poste all’inizio di ciascuna delle tre parti in cui si divide l’ opera e dove è proprio la terza a raccogliere, a mo’ di conclusione logica, il valore, anzitutto logico e teoretico, delle prime due:
«Trattandosi di dogmi superiori alla mente umana in quanto alla credenza e di precetti opposti agli appetiti disordinati dell’uomo in quanto a’ costumi, era necessaria una scuola sicura di verità, ove si conservassero incorrotte tutte le verità rivelate da Dio sin dal principio del mondo; sì che da quella potessero intendere gli uomini, senza pericolo di errare, tutte le cose che debbono credere, e tutte le altre che debbono osservare; e così il corpo de’ fedeli si fosse guardato sempre dal guasto che gli empj avesser potuto dare alla fede o alla morale cristiana. La chiesa appunto di Gesù Cristo è questa scuola e maestra insieme di verità, visibile a tutto il mondo, che ha conservati e conserverà sino alla fine de’ secoli uniti i fedeli a ben camminare nella via della salute. Onde disse il Salvatore che chi non ubbidisce alla chiesa, non dee tenersi più per cristiano, ma per infedele: Si autem ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus et publicanus (Matth. 18. 17). Sicché tutti coloro che saran fuori di quest’arca di salute, tutti saranno perduti in eterno. Ora fra tutte le chiese non si ritrova, né potrà mai ritrovarsi altra chiesa che abbia quei caratteri e contrassegni di esser vera, che ha la chiesa cattolica romana».
Alfonso Maria de’ Liguori, Verità della fede, III, 1,1.
Mario Padovano
Note
[1]Il punto di vista della mia attività di scrittore, in S.V. XIII, p. 559.
[2]Papirer, n. 2412, tr. it., t. II, p. 172 , Morcelliana, Brescia 1963.
[3] O meglio come si esprime Antonio Livi in La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Casa Ed. Leonardo da Vinci, Roma 2005, p. 261: «In effetti si dà il fenomeno della fede allorché la testimonianza altrui porta un soggetto alla certezza di sapere qualcosa circa un oggetto che gli è in – evidente, cioè che è (per lui) non- visibile, un mistero».
[4] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q.1, a.4 (tr. it.:« infatti costui non le crederebbe [le cose da credere] se non vedesse che sono da credere o per l’ evidenza dei segni o per qualcos’ altro di analogo»).
[5] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 1, a. 4.
[6] Cornelio Fabro, Fede e ragione nella dialettica di Kierkegaard, in Dall’essere all’esistente, Marietti Genova-Milano 2004, p. 122.
[7] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 2, a. 3 (tr. it.:«Affinché dunque l’ uomo raggiunga la visione perfetta della beatitudine si richiede che prima creda a Dio, come fa un discepolo col suo maestro»).
[8] Cornelio Fabro, Rivendicazione della contestazione antihegeliana di Kierkegaard: la libertà come indipendenza del Singolo per l’impegno della scelta dell’ Assoluto, in Appunti di un itinerario, Editrice del Verbo Incarnato Segni (RM), 2011, pp. 183-184.
[9] Cornelio Fabro, Fede e ragione nella dialettica di Kierkegaard, in Idem, Dall’essere all’esistente, pp. 130-131.
[10] Cornelio Fabro, La dialettica della libertà e l’ Assoluto, in Idem, L’Assoluto nell’Esistenzialismo.
[11] Cornelio Fabro, Fede e ragione nella dialettica di Kierkegaard, in Idem, Dall’essere all’esistente, p. 142.
[12]Ibid., p. 128.
[13]Ibid., p. 130. Si veda anche La dialettica della libertà e l’Assoluto, in Idem, L’Assoluto nell’esistenzialismo, dove la distinzione tra la dottrina del singolo kierkegaardiana e il soggettivismo idealistico e l’interiorità luterana è connessa con l’esaltazione da parte del danese della vita monastica medievale e il tema dell’ ascesi come “incarnazione” della fede nella vita di tutti i giorni. Da qui la rivalutazione dell’esteriorità da parte di Kierkegaard, vista come la sede dove si esprime concretamente l’interiorità stessa della fede ricevuta, ovvero come luogo dato dagli atti in cui necessariamente è esplicata, esercitata, vissuta la fede da parte del soggetto, dell’ uomo interiore. In questo senso anche l’atto di contemplare, l’atto di pregare nel segreto della propria stanza, ecc., è definibile come esteriorità. Dice Kierkegaard.: «lo sbaglio della religiosità dei nostri tempi è che si fa della fede una interiorità tale ch’essa svanisce completamente: si lascia che la vita si arrangi, in un modo del tutto terrestre ed al posto della fede si sostituisce un’assicurazione sulla fede» (Papirer, tr. it., n. 2042, t. I, p. 978); oppure: «Una canaglia si tratta, apostrofandola molto alla semplice: posso io vedere le tue azioni? Se costui si fa avanti assicurando che nella “interiorità segreta” egli sente nostalgia di cantare inni e digiunare nel silenzio di un chiostro, mentre, nella vita esteriore va a caccia del profitto e ha il posto d’ onore nelle assemblee: ditegli pure ( e qui sta la semplicità): “No, caro amico mio, tu devi scusarci […] noi vogliamo vedere gli atti. Ah, se sapessi quanto è importante questo per noi uomini”» (Ibid., n. 3253, t. I, p. 725). E si potrebbero citare altri testi in questo senso. Tuttavia in questa sede basta dire che l’ opera in cui Kierkegaard meglio fissa questo concetto è L’esercizio del Cristianesimo.
[14] Cornelio Fabro, La dialettica della libertà e l’Assoluto, in Idem, L’Assoluto nell’ Esistenzialismo, Edivi, Segni 2009, p. 50.
[15] Cornelio Fabro, Ibid.
[16] Si veda a tal proposito Cornelio Fabro, L’uomo di fronte a Dio in Soren Kierkegaard, in Tra Kierkegaard e Marx, EDIVI, pp. 94-95.
[17] Cornelio Fabro, La dialettica della libertà e l’Assoluto, in Idem, L’Assoluto nell’Esistenzialismo, Edivi, Segni 2009, p. 52.
[18] Anche su questo punto Kierkegaard è perfettamente in accordo con la dottrina tradizionale già esplicitata tra gli altri da un S. Agostino e un S. Tommaso. Il primo soprattutto nel suo De utilitate credendi (XII, 25) afferma: «Quod credimus debemus auctoritati; quod autem intelligimus debemus rationi» («ciò che crediamo lo dobbiamo all’ autorità del testimone; ciò che capiamo alla ragione»). E capire che un testimone ha autorità e quale sia questa sua autorità è atto di ragione. Per un maggior approfondimento del tema si veda anche, di Antonio Livi, Razionalità della fede nella Rivelazione (Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005, pp. 51-52), e La ricerca della verità, cit., pp. 265-272.
[19] S. Kierkegaard, Papirer, tr. it., n.787, t. I, p. 411.
[20] Cornelio Fabro, Fede e ragione nella dialettica di Kierkegaard, in Idem, Dall’essere all’ esistente, Marietti, p. 152.
[21] S. Kierkegaard, Papirer, n.1408, tr. it, t. I, p. 666.
[22] C. Fabro, La dialettica della libertà, in Idem, L’Assoluto nell’Esistenzialismo, Edivi, Segni 2009, p. 52.
[23] A. Livi, Razionalità della fede nella Rivelazione, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005, p. 107.
[24]Ibid., p. 45.
[25] Ugo di San Vittore, De Sacramentis, I, III, 30; P.L. 176, col. 232 (tr. it.: «Le cose che sorpassano la ragione non sostengono la Fede con qualche ragione, perché la fede non comprende ciò che tuttavia essa crede. Ma c’è anche qui qualcosa che determina la ragione o da cui essa è determinata a tenere in onore la Fede, che però essa non riesce a comprendere completamente»).
[26] S. Kierkegaard, Papirer, n. 836, tr. it., t. I, p. 426.