Di seguito un “ritratto” di Parmenide, a cura di Mario Padovano. L’articolo mostra l’importanza e, allo stesso tempo i limiti del filosofo di Elea. Vale, per il padre della metafisica, il paragone stabilito da Guido Calogero nei suoi Studi sull’eleatismo tra lo sguardo della Medusa e quello di Parmenide, per cui: «lo sguardo eleatico non può non impietrare le cose come quello della Gorgone. Ma il reale si ribella a questa immobilizzazione medusea, e si trasforma e diviene. E allora – dicono gli Eleati – non è!» [Giovanni Covino].
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Nel Teeteto Platone fa dire a Socrate: «Parmenide mi sembra che sia, per dirla con Omero, venerando e terribile».
E difatti il terrore che suscita l’Eleate è tutto nel nuovo sguardo con cui egli comincia a fare filosofia contrapponendosi nettamente alle scuole filosofiche precedenti, in particolare a quella naturalistica degli Ionici, iniziata con Talete di Mileto. A tal proposito vale il paragone stabilito da Guido Calogero nei suoi Studi sull’eleatismo (La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 99-100) tra lo sguardo della Medusa e quello di Parmenide, per cui:
«lo sguardo eleatico non può non impietrare le cose come quello della Gorgone. Ma il reale si ribella a questa immobilizzazione medusea, e si trasforma e diviene. E allora – dicono gli Eleati – non è!»
È questa, si può dire, la sintesi migliore della visione / non-visione filosofica della scuola parmenidea che ad un tempo mentre riconduce all’unità dell’essere ogni ente ne afferma la stessa impossibilità reale della propria singolarità e specificità, così come della molteplicità e del divenire.

Parmenide nato ad Elea (oggi Velia, in provincia di Salerno), è vissuto, stando alle fonti, dalla seconda metà del VI secolo a.C. fino alla prima metà del V secolo a, C.. Egli è stato oltre che filosofo anche un brillante uomo politico. Ci è tramandato, infatti, che fu lui a dotare Elea del suo primo codice legislativo (cfr. Diogene Laerzio, IX 23, in Diels –Kranz, 28 A 1; nonché la testimonianza di Strabone e Plutarco, in Diels – Kranz 28 A12).
Il nome di Parmenide, però, è legato alla scoperta grandiosa di quella che può essere chiamata «ragione metafisica»: la scoperta cioè dell’essere in quanto tale, in quanto aspetto il più universale (si direbbe trascendentale ma Parmenide stesso è ancora lontano da questo modo di intendere l’essere) delle cose, e della metafisica. Parmenide mise per iscritto il suo pensiero in un’opera poetica intitolata, come si usava a quei tempi, Sulla Natura (Περί Φύσεως), la quale, purtroppo ci è pervenuta in frammenti e grazie alle citazioni di Simplicio nel De coelo e nei suoi Commenti alla “Fisica” di Aristotele, di Sesto Empirico in Adversus mathematicos, e di altri scrittori antichi.
Il poema parmenideo si divide in tre parti per un ntotale di 154 versi. Il Proemio ci è pervenuto integralmente, la prima parte in larga misura, mentre della seconda abbiamo solo alcuni brevi frammenti. In queste parti abbiamo però pienamente espressa la dottrina delle «tre Vie».
La prima parte si occupa della via della Verità (alétheia) e quindi dell’essere. È qui che viene enunciato il principio cardine della filosofia dell’Eleate: «l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere».
L’essere è dunque e va affermato, il non – essere non è e va negato.
L’essere e il non-essere sono però presi in senso univoco e integrale come ben avverte anche Giovanni Reale ( Storia della filosofia greca e romana, vol. 1, Bompiani, p. 177). L’essere è la sola cosa pensabile e dicibile (frammento 8) ed è per questo che il nostro filosofo viene giustamente considerato non solo come il primo che ha scoperto il tema centrale della metafisica ma anche il primo a formulare, in un modo ancora troppo vago però, il principio medesimo di non-contraddizione. Dal senso univoco e dalla non-contraddittorietà, Parmenide deriva, deduce, tutti o quasi gli attributi dell’essere: a) l’essere è ingenerato (aghéneton) e incorruttibile (anòletron) perché se non lo fosse dovrebbe derivare dal non-essere o dall’essere stesso. Dal secondo non è possibile perché, argomenta Parmenide, esso già sarebbe, dal primo nemmeno perché dal nulla, nulla viene; b) l’essere è immutabile e assolutamente immobile. Infatti, se fosse diveniente si dovrebbe ammettere l’essere e il non-essere insieme, che è come ammettere la possibilità stessa del non-essere; c) l’essere è compiuto (tetelesmenon): carattere questo che in verità Parmenide non sembra dedurre in maniera consequenziale ma che sembra l’abbia assunto dalla visione che della compiutezza intesa come perfezione aveva i pitagorici.; e) l’essere è uno (én).
Ci rendiamo così conto che stiamo qui parlando di un essere e di un non-essere assoluti e ritenuti in modo univoco. Questo aspetto non è trascurabile, perché è su di esso che si basa l’individuazione stessa delle altre due «vie» nel poema di Parmenide: la via dell’errore e la via dell’opinione (Doxa).
Inoltre per Parmenide sembra che l’essere debba essere ancora inteso nel senso della Φύσις naturalistica, cioè come la realtà ultima di ogni cosa. Ed è qui che sorgono i problemi e le aporie! Infatti più che di riduzione del tutto all’unità dell’essere bisognerebbe parlare di riduzione di tutto all’essere, intendendo dire che che ogni cosa ormai non può essere più se stessa ma puro essere: per stare all’esempio preferito di Parmenide, la luce come le tenebre vengono così ad identificarsi essenzialmente. Ma l’aporia strutturale del parmendismo, per concludere, è nell’ammissione della stessa esistenza della Doxa, dell’apparenza dei fenomeni insieme con l’univocità della sostanza/essere, perché se vale l’uno allora non vale l’altro e viceversa. Infatti, se si dà apparenza dei fenomeni tale apparenza esiste, ma siccome si da’ ecco che non si può ammettere che l’essere possa intelligibilmente essere predicato in senso univoco. Ora come nota Aristotele il divenire e la molteplicità sono dati di fatto originari e dunque innegabile. Ed è assurdo definirli anche “apparenza illusoria” perché quand’anche fosse illusione, tale illusione si darebbe e dunque sarebbe reale. E’ così che la filosofia, dopo Parmenide, fu chiamata a compiere quel salto di qualità che la portò alla scoperta della multivocità dell’ «ente» con Aristotele, fino a pervenire nel Medioevo alla scoperta del significato più profondo dell’essere come atto di ogni atto e perfezione di ogni perfezione: l’esse ut actus di Tommaso d’Aquino.
Mario Padovano, o. p.