Di seguito un “ritratto” di Zenone, a cura di Mario Padovano. L’articolo si sofferma sull’effetto Zenone: individuare la metodologia argomentativa propria della metafisica, senza con ciò togliere nulla alla possibilità anche in filosofia di avere delle dimostrazioni lineari. Effetto Zenone, effetto paradossale!» [Giovanni Covino]
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In Introduzione alla metafisica (UTET, Torino 1993, pp.111-116), Enrico Berti mette in evidenza, come ultima analisi del suo discorso sullo statuto epistemologico della metafisica quale scienza prima, la stessa «dialetticità del discorso metafisico», intendendo dire che se è vero che in metafisica si giunge di volta in volta a verità irrefutabili, ciononostante tale procedimento non è portato avanti in maniera arbitraria e se detta scienza (o metascienza, sarebbe il caso di dire, cercando di distinguerla dalle scienza particolari) si presenta con una certa unità, garantita dal tema non necessariamente essa non è problematica.
Ogni scienza umana è problematica nel senso che ogni oggetto di esperienza, che è lo stesso “soggetto” di una scienza presenta quei caratteri metafisici, appunto, di rimando a fondamenti. In metafisica non si tratta per di più di rimandare a fondamenti particolari, ma addirittura di risalire al Fondamento ultimo: il Fondamento di tutti gli altri (relativi) fondamenti, peraltro scopribili dalle stesse “scienze seconde”. Tuttavia l’oggetto determina anche il metodo. E il metodo della metafisica è essenzialmente dialettico.
Se pensiamo alle aporie della Metafisica di Aristotele, ai Dialoghi di Platone, agli scritti di Agostino, Anselmo d’Aosta, Pietro Abelardo, ecc., o alla struttura stessa delle opere sistematiche di Tommaso d’Aquino come le Summae, il Commento alle Sentenze o alle Quaestiones disputatae dove il ritmo del testo è dato non dal respondeo solo ma dai sed contra e dalle stesse risposte alle obiezioni, ci sarà più facile renderci conto che la nostra scienza non è un monologo, ma già un dialogo innanzitutto tra sé e se stesso in quantum aliud. E questo perché, a partire da evidenze primarie, l’intelletto umano deve necessariamente giungere al maggiore adeguamento alla realtà per passaggi:
«Il discorso metafisico pur essendo unitario…non per questo è un atto immediato…perché se fosse tale sarebbe infondato, arbitrario, gratuito…Esso, al contrario, è mediazione…e cioè dal punto di vista della struttura logica, argomentazione, anzi vera e propria dimostrazione».
E. Berti, op. cit., p. 113
Eppure la filosofia prima, proprio perché prima e dunque senza possibilità di presupporre un’altra scienza ad essa precedente che ne fondi meta-scientificamente i suoi stessi principi proprio in quanto primi, ha come sua dimostrazione propria quella di ridurre all’assurdo la tesi opposta alle stesse evidenze primarie che pur deve ammettere e da cui pur deve partire se non vuole arenarsi nell’impossibilità di un regresso all’infinito nello stesso processo dimostrativo. È questo che si intende precisamente con terminologia aristotelica per metodo elenctico.
[Dimostrazione propria in senso stretto della filosofia è ] «come ha mostrato Aristotele, la dimostrazione elenctica, o per confutazione, o dialettica (nel senso antico di questo termine, cioè la dimostrazione consistente nella prospettazione del tentativo di negare una determinata tesi e nella sua riduzione a contraddizione, in modo da far risultare l’innegabilità della tesi in questione».
E. Berti, op. cit., p. 113
E se Aristotele è stato il grande sistematizzatore e perfezionatore del metodo specifico della dimostrazione filosofica, è a Zenone di Elea che dobbiamo attribuirne scoperta. È a questo allievo di Parmenide che dobbiamo il primo utilizzo della dialettica. Ed è ancora il filosofo aristotelico, Enrico Berti (op. cit. p.115), a chiarire come intendere davvero questo termine “dialettico”:
«Non si tratta della dialettica nel senso moderno, per esempio della dialettica di cui parla Kant che è “logica dell’apparenza”…bensì piuttosto di quella che Kant chiama “critica dell’apparenza”, o anche “metodo zetetico”, o “metodo scettico”, cioè della tecnica inaugurata da Zenone di Elea, e perfezionata da Socrate, Platone, Aristotele, di dimostrare una tesi mediante la riduzione ad autocontraddizione di quella ad essa opposta (opposta come sua contraddittoria, non semplicemente come sua contraria[…] Il discorso metafisico è un discorso dialettico nel senso antico, perché è necessariamente un dialogo…; ma non dialogo inteso come semplice conversazione, bensì come discussione…scontro fra tesi opposte, e decisione, soluzione della controversia a favore dell’una o dell’altra parte. E ciò non toglie che essa sia anche dimostrazione in senso forte»
Se in meccanica quantistica, così, hanno il loro “Quantum Zeno effect”, anche in filosofia possiamo parlare di uno specifico “effetto Zenone”, consistente appunto nell’individuazione della metodologia argomentativa propria della metafisica, senza con ciò togliere nulla alla possibilità anche in filosofia di avere delle dimostrazioni lineari. Ed è a Zenone che in questo articolo ci dedichiamo: a Zenone e alla sua importanza per lo sviluppo dello stesso pensiero filosifco in età antica e specialmente per quanto riguarda la grande “sintesi” aristotelica.
Zenone di Elea nacque verso la fine del VI secolo a. C. o all’inizio del V. Come già detto in precedenza fu allievo di Parmenide e certamente suo successore alla Scuola. Sappiamo che fu anche un uomo dal coraggio impressionante: Diogene Laerzio (IX,26 =Diels-Kranz 29 A1) ci informa che imprigionato dopo un tentativo fallito di rovesciare il governo di un tiranno (Nearco), imprigionato e sottoposto ad interrogatorio con la scusa di dire al tiranno stesso alcune cose all’orecchio, glielo addentò e non lo lasciò fino a quando venne trafitto. Il nome di Zenone è però ricordato per i suoi paradossi contro gli avversari del suo maestro Parmenide; paradossi che, davvero, come il morso dato all’orecchio del tiranno, afferrano l’intelletto umano, ma forse più come un “dedalico canto di sirena”. Zenone sembra comporre in sé tanti miti: il dedalo delle argomentazioni suona come una modulazione sirenica scaturente dalle fauci di un gorgonico Argo dai cento occhi. Effetto Zenone, effetto paradossale!
Zenone doveva fronteggiare gli avversari dell’eleatismo. Il discepolo di Parmenide così escogita i suoi argomenti dialettici contro il movimento e la molteplicità. Il primo che ci presenta la caratterizzazione del metodo zenoniano è Platone nel suo Parmenide (128 B =29 A 12 Diels –Kranz). E lo stesso Filosofo ateniese ci dice:
«[Zenone] parlava con un’arte da far sembrare agli uditori le medesime cose nello stesso tempo simili e dissimili, una e molte, immobili e mobili (tà autà kai anòmoia, kai en kai pollà, ménonta te au pheròmena)».
Platone, Fedro, 261 D = 29A 13 Diels –Kranz
L’arte zenoniana si espresse, come detto nei suoi paradossi: quattro argomenti contro il divenire: (1) della dicotomia; (2) di “Achille e la tartaruga”; (3) della freccia (a cui più espressamente si richiama la meccanica quantistica nel summenzionato “Quantum Zeno effect”; (4) dello stadio; e quattro contro la molteplicità.
Gli argomenti zenoniani hanno fatto faticare grandemente i filosofi, tra cui lo stesso Aristotele, il quale, se Platone è stato il primo a riportarci la caratterizzazione del metodo di Zenone, è colui che ci ha riferito detti argomenti uno ad uno, anche criticandoli e risolvendoli. Tali argomenti portarono, per giunta, la filosofia ad interessarsi di altre questioni relative all’essere delle cose, come la tematica del continuo. Essi, in questo caso particolare, non sollevavano infatti tanto una questione di matematica del continuo, ma di metafsica del continuo, e dunque è a questo livello che bisognava darne la soluzione. È stato così anche grazie alla questione del continuo, sollevata appunto da Zenone, e allo stesso tempo del suo darsi, che Aristotele poté sviluppare e affinare il suo concetto di potenza e risolvere una questione gravosa che altri prima di lui, intendendo ancora l’essere in maniera univoca, non erano riusciti a risolvere proprio dialetticamente. Sarà proprio Aristotele, ancora una volta, a sventare il pericolo di una gorgonica paralisi della filosofia medesima, e non tanto del divenire e della molteplicità, e, in questo caso più particolare, del continuo e del discreto, che sono evidenze immediate (anche qualora, come detto nell’articolo su Parmenide, venissero considerate come “realtà illusorie”), introducendo le nozioni di atto e potenza , di infinito in atto e infinito in potenza, divisibile in atto e divisibile in potenza e così via, come farà appunto nella Fisica (che è filosofia della natura e non fisica nel senso moderno, e per questo valida a prescindere dai risultati della scienza empirica) e nella Metafisica.
L’importanza di Zenone, per concludere, se quella di Parmende sta soprattutto nel far emergere la questione “essere/non-essere”, sta, come dice Giovanni Reale, nel far «emergere la questione “uno-molti” dialetticamente» (G.Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol.1, Bompiani 2008, p. 198), e nella scoperta della dimostrazione filosofica appunto come dimostrazione per assurdo o elenctica, per dirla con Aristotele.
È in tutto questo che consiste il vero e proprio effetto Zenone in filosofia o, se vogliamo usare l’espressione inglese corrispondente, lo Zeno philosophical effect.
Mario Padovano o.p.