Il nostro viaggio nell’ordo amoris continua con le virtù della fortezza e della temperanza.
La fortezza è la fermezza d’animo, è la capacità di sopportare i mali e le avversità della vita presente (cfr Agostino, De Civitate Dei, XIX, 4). Essa ci permette di reprimere il timore ed evitare l’audacia: è la virtù che ci permette di essere saldi nel bene scelto e di perseguire, nonostante le difficoltà, il fine che abbiamo scelto. L’esempio più luminoso di fortezza è senza alcun dubbio il martire cristiano, il quale, sostenuto anche dalle virtù teologali, non rinnega la propria fede anche dinanzi al pericolo della morte.
«Per rendere forte l’animo sono necessari il sacrificio, la rinuncia, la privazione, il dolore. La fortezza, infatti, è precisamente quella virtù grazie alla quale la persona affronta le tribolazioni, le sofferenze, la morte stessa, vincendo l’angoscia e la disperazione».
B. Mondin, Etica, ESD, Bologna 2000, p. 128
La temperanza è la virtù che consiste «nel regolare le passioni che tendono ai beni sensibili, e cioè le concupiscenze e i piaceri, e indirettamente a regolare le tristezze e i dolori che derivano dall’assenza di questi piaceri» (Summa theologiæ, II-II, q. 141, a. 3, resp.). Ovviamente, questa virtù non tende ad annullare i piaceri, ma a disciplinarli, a vivere non da schiavi ma da persone libere:
«I beni sensibili e corporali, considerati in se stessi, non ripugnano alla ragione, ma piuttosto sono al suo servizio, come strumenti di cui la ragione si serve per raggiungere il proprio fine. Sono invece incompatibili con essa soprattutto quando l’appetito sensitivo vi tende senza seguire la norma della ragione. È quindi compito proprio della virtù morale regolare queste passioni che sono volte al conseguimento del bene. Invece i moti dell’appetito sensitivo che rifugge dal male di ordine sensitivo sono in contrasto con la ragione principalmente non per la loro esagerazione, ma per i loro effetti: in quanto cioè uno, per fuggire i mali sensibili e materiali che talora accompagnano il bene di ordine razionale, è indotto ad abbandonarlo. In questi casi dunque è compito della virtù morale dare fermezza nel bene. Come dunque la virtù della fortezza, che garantisce tale fermezza, ha principalmente il compito di regolare la passione interessata alla fuga dei mali corporali, cioè il timore, e indirettamente quello di regolare l’audacia, che affronta i pericoli in vista di un bene, così la temperanza, che implica moderazione, ha principalmente il compito di regolare le passioni che tendono ai beni sensibili, cioè le concupiscenze e i piaceri, e indirettamente quello di regolare le tristezze, o dolori, che derivano dall’assenza di questi piaceri».
Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ, II-II, q. 141, a. 3, resp.
Desiderare un piacere, infatti, è cosa del tutto naturale, ma il desiderare deve essere sempre un atto disciplinato dalla ragione: il desiderio, infatti, cresce a dismisura se non obbedisce a qualcosa di superiore come spiega con grande precisione Aristotele (cfr Etica Nicomachea, III, 12, 1119 b 5-18).
Giovanni Covino