Ordo amoris. La persona: “quanto di più nobile c’è in tutto l’universo”

Quando si usa l’espressione “rapporto morale” si suole indicare una relazione o un legame che vede protagonisti non due cose o due animali, ma due soggetti liberi.

Sul piano fisico, per esempio, le relazioni sono contraddistinte dalla mera necessità, dalla determinazione; al contrario il piano morale vede al suo centro la libertà del soggetto che sceglie di fare o non fare una determinata azione, con la conseguente responsabilità che accompagna l’atto, responsabilità nei confronti di sé, degli altri e di Dio.

Come dirò nei prossimi articoli, libertà e responsabilità, con alterità e obbligazione morale, sono i concetti fondamentali dell’etica filosofica che fanno capo ad un altro concetto cardine: la persona. Non ha senso, infatti, parlare delle “cose morali” se non facendo riferimento a questo particolare ente.

Dunque: che cos’è la persona?

Quando usiamo questo termine ci si riferisce – per usare le parole di Tommaso d’Aquino – a quanto di «più nobile si trova in tutto l’universo» (Summa theologiæ, I, q. 29, a. 3, resp.); ci si riferisce ad un individuo di natura razionale e che, per tale ragione, si pone in relazione a se stesso e agli altri in modo del tutto diverso rispetto a tutti gli altri enti. L’attuale concetto di persona non coincide con l’utilizzo antico del termine. La sua etimologia è incerta: per alcuni deriva da phersu che, nella pittura etrusca, indicava un personaggio mascherato; per altri deriva dal latino per-sonàre che vuol dire far passare la voce, un termine che – in quel contesto – indicava le maschere che usavano gli attori di teatro (cfr N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 2001, pp. 812-814).

L’utilizzo corrente del vocabolo risente delle controversie teologiche sulla Trinità e sulla natura di Gesù Cristo, con le quali si è giunto ad indicare – come accennavo – la persona quale sostanza che possiede una determinata natura, la natura razionale. In questo modo, la persona ha assunto un valore ontologico tanto importante da distinguerlo da ogni altro ente, traducendo così concettualmente un dato di cui tutti siamo consapevoli: si tratta, infatti, di una constatazione che ha importanti conseguenze in ambito morale, in quanto ci porta a valutare i comportamenti e i rapporti in modo del tutto diverso.

Un esempio per comprendere questo punto importante: quando un cane morde un bambino (come molti fatti di cronaca hanno, ahimè, raccontato) e iniziamo ad analizzare la situazione, non facciamo certamente un processo al cane; di certo proviamo dispiacere per la situazione e attueremo quanto necessario per risolvere la questione e rendere quel cane inoffensivo, ma non diamo al cane una colpa nel senso etico e giuridico del termine. Ciò accade per un fatto semplicissimo: la colpa di una determinata azione è legata alla responsabilità e, quindi, alla libertà del soggetto che agisce, qualità che non troviamo in un essere come il cane.

Sono qualità che contraddistinguono l’agire della persona che, nel caso in cui dovesse compiere un atto come quello appena descritto, verrebbe appunto condannato come colpevole. La valutazione di una determinata azione come giusta o sbagliata ha il suo presupposto, quindi, nell’intuizione immediata di uno scarto ontologico tra l’ente-uomo e l’ente-cane.

In base a quanto detto, la persona è una sostanza particolare che si distingue per la sua costituzione ontologica da tutti gli altri enti della realtà. La persona, inoltre, proprio per questa peculiarità è contraddistinta da alcune operazioni che procedono dal suo essere: si tratta delle capacità spirituali dell’intendere e del volere. È bene tener presente, però, che la dignità della persona non viene meno anche nel caso in cui queste capacità non dovessero essere espresse pienamente, sia provvisoriamente (come nel caso di un embrione, di un neonato o di un bambino) sia in modo permanente (come nel caso di gravi patologie psichiche e/o fisiche). Questo perché è l’essere personale ad avere una speciale dignità nell’ordine della realtà che percepiamo, un essere personale che solo accidentalmente (per una malattia, per esempio) può non esplicare tutte le sue potenzialità: ciò spiega anche perché quando una persona si ammala, noi continuiamo ad accudirla e rivolgerci a lei utilizzando il “tu”, non rompendo, anzi rendendo più forte – proprio perché comprendiamo la sua situazione di sofferenza – la relazione personale.

Ogni uomo riconosce questa peculiarità metafisica da cui deriva appunto la sua alta dignità. Pur non utilizzando un linguaggio preciso e tecnico ogni essere umano sa di non appartenere solo al mondo sensibile, di essere un “qualcuno” e non una mera “cosa”.

Il rilievo dato alla qualità metafisica della persona non è un semplice “gioco filosofico”, ma è di estrema importanza poiché è proprio l’adeguata percezione della persona che sta alla base della qualità del sistema etico stesso: infatti, una visione parziale dell’uomo conduce necessariamente all’elaborazione di un’etica monca, ad un’etica in cui la correttezza della forma si scontra fatalmente con l’incoerenza materiale. L’incoerenza di cui parlo è dovuta proprio al mancato riferimento esperienziale che ci mostra un essere – l’uomo – dotato di particolari qualità che sono il segno della sua grandezza. Inoltre – anche questo è bene sottolinearlo – facendo riferimento all’essere personale non si tralascia nulla di questo essere: né la parte spirituale né quella materiale, evitando, in tal modo, gli estremi che sono spesso emersi nella storia del pensiero e non solo. In questo senso, la persona umana è un essere in cui convergono le caratteristiche del mondo corporeo e di quello spirituale.

Riepilogando, possiamo dire che la particolarità della persona umana consiste in uno specifico modo d’essere che è unico, singolare e quindi irripetibile. Un modo d’essere che la pone fuori dalla numerabilità della serie: la persona non è definibile per l’appartenenza ad un gruppo, per la funzione sociale che svolge o per la sua utilità: la persona ha un valore proprio. È in questo quadro metafisico che è possibile comprendere anche quanto diceva il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855), nella sua accesa polemica contro Georg W. F. Hegel (1770-1831), circa l’unicità del Singolo che è sempre superiore al genere, libero dal processo assoluto dello Spirito hegeliano, come mostrano queste pagine:

«L’etica isola momentaneamente il singolo, esigendo da lui che egli esista eticamente. Non fanfaroneggia di milioni di generazioni, non prende l’umanità a casaccio, così come la polizia non arresta la pura umanità. L’etica ha a che fare con l’uomo singolo; e, beninteso, con ogni singolo […]. L’etica afferra il singolo e richiede da lui che si astenga da ogni contemplazione (specialmente dalla contemplazione del mondo e degli uomini). L’etica, infatti, ossia il mondo interiore, non può essere contemplata da nessuno che stia al di fuori; può essere solo realizzata dal soggetto singolo il quale può sapere che cosa abita dentro di lui.  La categoria del “singolo” è così legata con il mio nome, che io vorrei desiderare che sulla mia tomba si scrivesse: “Quel singolo”.  “Il singolo” è la categoria attraverso la quale […] l’epoca, la storia, la umanità, devono passare».

Giovanni Covino

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