Matteo Andolfo (Milano, 1971), dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano, è uno studioso del pensiero antico, con particolare interesse per il Neoplatonismo e per l’Atomismo, e delle lingue, religioni e filosofie orientali antiche, àmbiti sui quali ha pubblicato alcuni libri e vari articoli. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’ipostasi della “Psyche” in Plotino. Struttura e fondamenti, introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1996; Plotino. Struttura e fondamenti dell’ipostasi del «Nous», introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 2002; Atomisti antichi, Testimonianze e frammenti secondo la raccolta di H. Diels e W. Kranz, introduzione, traduzione, note, parole chiave e appendice bibliografica a cura di M. Andolfo, testo greco a fronte, Rusconi, Santarcangelo di Romagna 1999 (II ed. Bompiani, Milano 2001); Giovanni Damasceno, Esposizione della fede (De fide orthodoxa), introduzione, commento filosofico, bibliografia, traduzione e note a cura di M. Andolfo, testo greco a fronte, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2013; La moderna logica aletica tra realismo tomistico e interiorità neoplatonica, Leonardo da Vinci, Roma 2018.
Dott. Andolfo, Lei è uno studioso del pensiero antico, dedicandosi in modo particolare al Neoplatonismo. Può parlarci dei protagonisti di questa corrente di pensiero?
Sul piano storico-filosofico, il Neoplatonismo, quale ultima grande scuola del pensiero greco pagano, costituisce una sorta di “punto di fuga” in cui convergono tutte le correnti filosofiche precedenti, non solo il platonismo, ma anche aristotelismo, stoicismo ecc.
Sul piano teoretico, la sintesi della filosofia antica che il Neoplatonismo realizza non è mero sincretismo: se i “materiali” sono preesistenti, il “disegno” secondo cui sono rielaborati è originale e innovativo. Proprio per questo il Neoplatonismo è stato anche il “punto di fuga” da cui si è irradiato un profondo e persistente influsso sul pensiero filosofico di diverse culture. In Oriente sono esistiti un Neoplatonismo giudaico (medievale) e un Neoplatonismo islamico (medievale e moderno). In Occidente vi è stato il Neoplatonismo cristiano, la cui rilevanza è immediatamente evidente se si pensa che ad esso appartengono tutti i Padri della Chiesa sia greca sia latina, molti filosofi e teologi medievali e rinascimentali e gran parte di quelli bizantino-ortodossi.
Un aspetto fondamentale di tale “disegno” originale in Plotino, il fondatore del Neoplatonismo (III sec. d.C.), è di aver concepito il Principio unico di tutte le realtà, l’Uno, come metafisicamente infinito, introducendo per la prima volta nella mentalità greca l’idea che la forma, fonte di definizione e perfezione ontologica, intelligibilità gnoseologica e valore assiologico (bene), non sia il massimamente perfetto in quanto è finita e che non esista solo l’informe come l’indefinito privo dei caratteri della forma e pertanto imperfetto, ma anche l’Informe come infinito che eccede in perfezione la forma stessa in quanto non ha limiti che lo condizionino. Un secondo aspetto altrettanto centrale è l’idea che nella contemplazione siano “ambietate” ogni realtà e ogni altra attività, poiché tutto scaturisce dalla contemplazione del Principio originante (genitivo soggettivo) e tutto l’originato anela – consapevolmente o meno – alla contemplazione del Principio (genitivo oggettivo).
L’elemento innovativo del suo discepolo Porfirio consiste nell’effettuare un “rivolgimento di prospettiva”: se per Plotino l’Uno, il Principio, è al di sopra dell’essere, poiché eccede in perfezione tutto l’àmbito dell’altro-dall’-Uno, che ricomprende tutti i piani dell’essere, dall’intelligibile al sensibile, Porfirio osserva che commisurata alla perfezione assoluta dell’Uno è semmai tutto il principiato a non essere in senso forte e perciò egli identifica l’Uno con l’Essere come puro agire infinito presostanziale. Questa innovazione agevola la recezione dei filosofemi neoplatonici da parte del pensiero cristiano, che non può non attenersi all’autodesignazione di Dio come Essere in Es 3,14.
Giamblico (IV sec. d.C.), ha impresso al Neoplatonismo una “svolta religiosa”, rileggendo teoreticamente secondo la metafisica neoplatonica la tradizione religiosa greca e quella orientale ed elaborandone una sintesi (in funzione anti-cristiana), basata specialmente sugli Oracoli caldiaci e sull’ermetismo, che con la loro mediazione introduce nel Neoplatonismo il retaggio delle antiche religioni orientali (soprattutto egizia e mesopotamica) che sono “alle spalle” delle dottrine caldaiche ed ermetiche, come ho argomentato nel mio libro L’Uno e il Tutto. La sapienza egizia presso i Greci (Ares, Milano 2008).
Proclo (V sec. d.C.), infine, è considerato, a ragione, il “sistematizzatore” della metafisica neoplatonica, ma è stato anche un innovatore, introducendo nel “disegno” suddetto alcuni elementi di novità di una certa rilevanza filosofica. Per es., non identifica più la materia (e il corpo) con il male-in-sé, ponendo fine a una convinzione portante che, per l’influsso orfico, da Platone si era conservata sino a Plotino e oltre. Inoltre, ai due momenti dialettici dell’analogia e della negazione aggiunge quello della “negazione della negazione”: sono i tre momenti dialettici che lo pseudo-Dionigi l’Areopagita trasformerà compiutamente nelle vie, rispettivamente, affermativa, negativa e di eminenza della teologia cristiana, come ho esposto nel volume da me curato Dionigi l’Areopagita. La mistica teologia e Epistole I-V, ESD, Bologna 2011.
Qual è – secondo Lei – l’elemento distintivo del Neoplatonismo?
Il “disegno” è un insieme di linee che determinano una struttura e che è coordinato rispetto a un punto focale prospettico. Nel Neoplatonismo, anche cristiano, quest’ultimo è lo “sguardo di Dio, del Principio” (che autocontemplandosi pensa tutte le proprie possibilità di partecipazione similitudinaria), mentre la seconda è una struttura di partecipazione metafisica, che ho esaminato nel volume Niccolò Cusano. L’occhio mistico della metafisica (ESD, Bologna 2017).
In questo modo Plotino può far scaturire tutto dalla meta-autocontemplazione dell’Uno (che viene ammesso come Principio di tutto poiché quanto più un ente ha unità tanto più ha consistenza e perfezione) mediante la partecipazione della sua unità a ciò che direttamente e mediatamente procede da esso; nel contempo, siccome solo l’Uno è assolutamente uno, scevro di qualsiasi alterità e molteplicità anche solo potenziale, esso permane altro da tutto il principiato, trascendente e impartecipato-impartecipabile nella propria unità assoluta. Infatti, l’unità che esso partecipa al principiato – dalle Idee nell’Intelletto ipostatico all’Anima e alle forme nella materia sensibile – è una similitudine dell’unità, la forma; il principiato è sintesi di alterità (dall’Uno da cui è proceduto, si è differenziato) e dell’unità come forma, sicché ogni principiato non è assolutamente in sé uno, ma “uni-forme”. Piccola postilla: in Plotino l’Uno ha una conoscenza intuitiva di sé che eccede la stessa autocontemplazione intellettiva, poiché non è possibile nemmeno distinguere logicamente in esso il sé-pensante dal sé-pensato. Ecco perché è una meta-autocontemplazione. Diverso è il discorso per i neoplatonici cristiani, per i quali Dio è Essere e Intelletto.
Porfirio applica questa struttura metafisica partecipativa alla sua concezione innovativa dell’Uno come identico all’Essere quale puro agire infinito presostanziale e così esso come agire puro permane impartecipato, mentre si partecipa come atto d’essere che si sostanzializza come forma, facendo di ogni principiato un ente-sostanza, differente dall’Essere, di cui pure partecipa. A mio parere, questa concezione rivela una certa convergenza con la dottrina dell’actus essendi meta-formale dell’Aquinate, pur senza esserle identica.
Oltre al Neoplatonismo, Lei si è interessato degli Atomisti antichi. Cosa ci può dire di questi pensatori?
Definisco la dottrina atomistica parafrasando il titolo che ho dato alla mia Introduzione alla traduzione dei loro testi (Bompiani 2001): un “sillabario” ontologico ideato per risolvere – pur entro i limiti teoretici della “prima navigazione” – le aporie dell’eleatismo, mantenendo la concezione eleatica dell’essere, ma salvando l’esperienza (la molteplicità e il divenire delle cose che appaiono).
Infatti, ogni atomo, in quanto “forma indivisibile” (atomos idea), è come l’Uno-Essere dell’eleatismo, ma gli atomi sono molti, salvando la realtà del molteplice, anche se invisibili, non percepibili sensibilmente. Sono anche l’originario quantitativo, avendo svariate forme geometriche, ma essendo privi di qualità. A comporsi, mutare e dissolversi sono gli aggregati atomici, percepibili dai sensi, non gli atomi, e così sono salvate la realtà degli enti divenienti e l’indivisibilità e immutabilità dell’atomo-essere.
Ho parlato di “sillabario” perché ogni atomo è dotato originariamente e per natura di un movimento secondo una propria traiettoria (rhysmos) e di una propria modalità di conversione (trope) nel vuoto e di congiunzione (diathige) con alcuni atomi, ma non con altri. Questo carattere li rende affini ai segni cuneiformi, soprattutto come sono usati nella lingua babilonese: in virtù della scrittura sillabica che la caratterizza, essa scrive le parole combinando tra loro solo i segni cuneiformi che possono costruire la “catena” sillabica della parola. Per es., “cane” si dice kalbum, ma si scrive giustapponendo solo i segni cuneiformi corrispondenti alle sillabe ka-al-bu-um. Ho argomentato la tesi secondo cui Democrito concepisce le forme atomiche quali “ideogrammi” che, componendosi tra loro in svariate maniere, originano serie di “parole” (gli aggregati), le sole a essere manifeste (phainomena) ai sensi e che perciò ogni senziente è in grado di “udire” il significato, mentre la conoscenza razionale corrisponderebbe a “decodificare e leggere” le “catene di atomi” (i significanti) soggiacenti agli aggregati. Sono numerose le testimonianze su probabili viaggi di Democrito in Oriente, dove potrebbe aver appreso qualche nozione di scrittura cuneiforme.
Infine, l’ontologia atomista salva anche la realtà delle qualità sensibili, che appartengono al piano degli aggregati atomici, sebbene Democrito le definisca fenomeni opinabili e convenzionali in quanto diversi soggetti possono percepire la stessa realtà (per es. un cibo) come avente qualità opposte (dolce per alcuni, amaro per altri), mentre il piano della verità è quello degli atomi-essere in sé immutabili. I fenomeni non sono pure illusioni in quanto le qualità sono la manifestazione di ben precise catene di figure atomiche, che come aggregati sussistono indipendentemente dall’esistenza di chi li percepisce. Nondimeno, sono una manifestazione diretta agli organi di senso del soggetto senziente: Democrito riconduce tutte le sensazioni a contatti (diretti o mediati dagli eidôla) tra gli aggregati atomici del sentito e del senziente, che è dotato di atomi psichici, in grado di renderlo vivente e pensante. Perciò, è la struttura atomica dei sensi a “leggere” le catene atomiche del “testo” del sentito, sicché nell’espletazione della sensazione svolge un ruolo determinante anche la “disposizione” del senziente: eventuali “deformazioni” e “corruzioni” parziali subite sia dalla struttura atomica dei sensi sia da quella degli eidôla del sentito (proporzionalmente alla distanza dal senziente e alla condizione del mezzo in cui si trasmettono) impediscono di assicurare la verità della “lettura”-senzazione.
In uno dei Suoi ultimi lavori, La moderna logica aletica tra realismo tomistico e interiorità neoplatonica, ha dedicato un capitolo al tema “Logica aletica e ‘via dell’interiorità’ neoplatonica”. Ci può spiegare questo rapporto?
Per la logica aletica, nell’accezione di mons. Antonio Livi, con la formulazione della prima verità del senso comune, res sunt, si esclude che la conoscenza ordinaria e la filosofia abbiano inizio dal cogito e/o da un’“intuizione dell’essere”, pena il cadere nell’ontologismo. Sembra, così, sottratta ogni legittimità alla via interius-superius a Dio del Neoplatonismo rispetto a quella exterius-superius, che parte dagli enti extramentali per pervenire a Dio, che è predominante nel tomismo e che in Livi trova la propria giustificazione epistemica nel nesso tra la prima e le altre quattro verità del senso comune, l’ultima delle quali è un’inferenza spontanea dell’esistenza di Dio basata prevalentemente sull’esistenza extramentale degli enti contingenti. Infatti, la metafisica dell’interiorità,che inizia con Plotino e prosegue con i neoplatonici cristiani, è incentrata sulla mente o intelligenza quale apice o fondo dell’anima in cui individuare la presenza di Dio (la trascendenza immanente all’autocoscienza), che conduce alla Trascendenza propriamente detta, ossia a Dio in sé, nella sua Realtà assoluta e nel suo Mistero impenetrabile.
Uno dei principali obiettivi del mio libro da Lei citato è consistito nel mostrare che la metafisica neoplatonica dell’interiorità, che ho analizzato per come si declina in Plotino, Agostino e Cusano, in realtà è un itinerario exterius-interius-superius: essa parte dall’esperienza degli enti extramentali, dalla prima verità del senso comune, e non dal cogito, ossia ha una base realistica e non gnoseologistica o idealistica.
Inoltre, ho mostrato che tale metafisica dell’interiorità è compatibile con i risultati della metalogica liviana e in modo ad essa complementare valorizza al massimo la seconda verità del senso comune: tra gli enti esistenti «ci sono io, che conosco il mondo» ed è seconda in quanto emergenza del soggetto autocosciente in opposizione ai suoi oggetti di conoscenza. Infatti, la coscienza intellettiva è lo “scenario” della conoscenza del vero, che, come afferma Aristotele, consiste nella corrispondenza del pensiero con l’essere extramentale (il vero è l’affermazione di ciò che è congiunto nella realtà e la negazione di ciò che è diviso nella realtà, ma la congiunzione e la divisione sono nel pensiero e non nelle realtà).
Ancora, ho argomentato che per il Neoplatonismo la mediazione dell’interiorità tra l’exterius e il superius è necessaria, poiché, come dice Cusano, l’archetipo viene conosciuto in quanto riflesso-partecipato nell’immagine, che viene veramente conosciuta nell’archetipo quale sua verità. Ne segue che conosciamo Dio (massimo assoluto) nell’universo (massimo contratto), che conosciamo veramente a partire da Dio. L’Uno assoluto (Dio) si esplica nell’Uno contratto dalla pluralità (universo). Analogamente, l’intelletto umano si esplica nella ragione, nell’immaginazione e nel senso e la verità del cosmo è colta nelle congetture corrispondenti alle diverse facoltà dell’uomo, ma la precisione congetturale massima è nelle congetture intellettive. Per risalire dalla conoscenza sensibile degli enti corporei, oggetto di esperienza, all’intellezione della verità l’intelletto deve discendere nel senso e ascendere di nuovo a sé, ossia per attuarsi deve percorrere la via dell’interiorità.
Infine, ho messo in rilievo che il cogliere la presenza di Dio nell’apice della mente umana non è un cadere nell’ontologismo perché la sua intellezione è dotta ignoranza, nescienza, fermata dalla “densa nube” o dalle “mura” della coincidenza degli opposti nell’infinito, oltre le quali è Dio. Inoltre, l’Uguaglianza divina come entità di tutto ciò che è e sussiste, ossia complicante ogni modo d’essere, è intuita incomprensibilmente nel suo trasparire nella propria similitudine intellettiva, ossia nell’intelletto umano quale sua immagine creata, e solo al termine del processo exterius-interius, che parte dalla percezione degli enti mutevoli extramentali, sicché non può neanche fungere da intuizione a priori dell’essere da cui principierebbero la conoscenza ordinaria e la filosofia.
Tra i filosofi antichi citati in questa nostra chiacchierata, quale preferisce e perché?
I miei due neoplatonici preferiti sono Plotino e Cusano. Il primo in quanto è il “genio creatore” del Neoplatonismo: è stato lui a elaborare la metafisica neoplatonica conferendole sia la fecondità teoretica che è stata la conditio sine qua non di tutto il Neoplatonismo successivo sia quel “fascino” speculativo che mi ha “avvinto” sin dalla mia prima lettura delle sue Enneadi.
Tuttavia, essendo un pagano, la mia può essere per lui solo ammirazione e non condivisione del suo “sistema” metafisico. Invece, è con il neoplatonismo cristiano di Cusano che mi sento davvero in sintonia teoretica. Nel libro Niccolò Cusano. L’occhio mistico della metafisica (ESD, Bologna 2017) l’ho definito il neoplatonicus maximus, vale a dire il pensatore che ha perfezionato il paradigma metafisico neoplatonico (rigorizzandone l’articolazione partecipativa di cui ho parlato nella risposta alla seconda domanda), con la mistica speculativa ad esso connessa, elevandolo a paradigma eminente, permanentemente valido sul piano teoretico. Infatti, ritengo che Cusano sia uno dei pensatori più rigorosi nel trattare dell’infinità metafisica dell’Assoluto senza ridurla al pensare finito e discorsivo, soggetto al tempo, dell’uomo. Cusano offre anche gli strumenti speculativi per vivere una fede molto meno soggetta ai rischi connessi all’irrazionalismo sentimentale (la fede come mera opzione senza riflessione) e ai devozionismi, evitando nel contempo sia l’hybris della gnosi che eguaglia l’uomo a Dio sia l’agnosticismo e lo scetticismo (un non-sapere sterile e vuoto) sia le derive razionalistiche di certo pensiero contemporaneo, che finiscono per considerare superflua la fede e per sacrificare la domanda di senso della vita umana in quanto eccedente il ristretto àmbito ontico degli interrogativi a cui le scienze positive sanno dare risposta.
Aggiungerei un terzo nome, Nicola Cabàsilas, un laico con formazione teologica, palamita, che vive la spiritualità esicasta, la quale nella Tessalonica del XIV sec. è ormai vissuta nel mondo, proseguendo la vita e le attività professionali quotidiane. L’esicasmo patristico e bizantino e il palamismo bizantino sono ambedue influenzati nettamente dal Neoplatonismo e in particolare dalla metafisica neoplatonica dell’interiorità. In un mio recente articolo (La spiritualità “esicasta” dell’Oriente cristiano, in «Studi Cattolici», 698 [2019]), ho considerato la spiritualità esicasta idonea anche ai laici della nostra epoca, a motivo della prevalenza accentuata in essa della dimensione interiore.
Se la filosofia dev’essere “arte del vivere”, la stessa teoresi meditativa e contemplativa del vero e del bene deve far sì che l’ordine contemplato plasmi l’operare in modo da coinvolgere anche l’agire quotidiano nella speculazione, che diviene così fonte di alta moralità. Cabàsilas pratica l’esicasmo declinando la metafisica neoplatonica dell’interiorità nella forma di una vita in Cristo (che è anche il titolo del suo capolavoro, un trattato di cristologia a partire dai sacramenti fondamentali dell’iniziazione cristiana, soprattutto l’Eucaristia) incentrata sulla Comunione con Lui, sulla meditazione e sulla contemplazione dell’amore di Dio per noi, accompagnate dall’impegno morale di vivere in coerenza con tale Comunione: non opporsi alla volontà di Cristo e anzi volere ciò che Egli vuole. Un modo profondamente cristiano per tradurre nel vivere e nell’agire la teoresi neoplatonico-cristiana.
Intervista a cura di Giovanni Covino
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