Ordo amoris. Etica e metafisica: la necessità del Fondamento

L’esperienza morale è l’intuizione – previa ad ogni riflessione critica e sistematica e ad ogni dialettica – del dovere che il soggetto ha in relazione con l’esercizio della sua libertà nella situazione, storica e quindi sociale, nella quale si trova. La riflessione sulla coscienza morale, sulla propria libertà, sull’intuizione immediata di princìpi morali universalmente validi, sui valori eccetera, deve essere fatta all’interno di un più ampio quadro che dal “senso morale” porta al “senso religioso”. È lo stesso concetto di «ordo amoris» ad esigere tale passaggio. Vediamo perché.

Il punto di partenza della riflessione etica si trova in quelle verità che Tommaso d’Aquino definisce «non investigate» che concernono appunto l’agire:

«Ora, è chiaro – spiega l’Aquinate – che come l’intelletto speculativo ragiona sulle realtà speculative, così l’intelletto pratico tratta delle realtà operabili. È dunque necessario che siano insiti in noi per natura non solo i princìpi di ordine speculativo, ma anche quelli di ordine pratico. Ora, i primi princìpi della vita speculativa, insiti in noi per natura, non appartengono a una potenza speciale, ma a un particolare abito chiamato da Aristotele [Ethic. 6, 6] “intelletto dei princìpi”. Quindi neppure i princìpi della vita pratica, insiti in noi per natura, appartengono a una potenza speciale, ma a un abito speciale naturale chiamato “sinderesi”. Quindi si dice che la sinderesi spinge al bene e allontana dal male in quanto mediante i primi princìpi noi procediamo nell’indagine [del bene da compiere], e giudichiamo dei risultati».

Tommaso d’Aquino, Summa Theologiæ, I, q. 79, a. 12, resp.

Il riferimento ai princìpi, «naturaliter nobis esse indita», è fondamentale: essi fanno parte di quel “patrimonio comune dell’umanità” e, cosa ancora più importante, sono percepiti dall’intelletto umano non in modo, per così dire, separato, ma all’interno di una percezione più ampia: la percezione di un ordine di esistenze che fa capo ad una realtà ultima che – per usare ancora un’espressione tommasiana – «noi tutti chiamiamo Dio».

Faccio un esempio per spiegare meglio questo punto tanto importante: quando formulo il principio di non contraddizione – «ogni cosa, in quanto è, è se stessa e non altro», oppure «è impossibile affermare o negare, nello stesso senso e nel medesimo tempo, un predicato di un determinato soggetto» – formulo un giudizio elaborato a partire dall’esperienza della realtà e del suo ordine; allo stesso modo, quando formulo principi pratici, formulo giudizi a partire dalla percezione di un ordine in cui sono presenti libertà, beni, valori eccetera. La percezione dei primi principi non è mai sganciata dalla percezione della realtà e del suo ordine – sia speculativo che pratico; e se parliamo di ordine percepito dobbiamo, di necessità, parlare di un ordinatore: come nessun uomo, entrando in una camera in cui ogni cosa è al suo posto, può negare – se non a parole – la presenza di una domestica (o di qualcun’altro) che ha messo in ordine, così nessun uomo guardando le bellezze del cosmo e della libertà che tende al bene, può negare la presenza di Dio. Possiamo dire, dunque, che l’ordine delle cose è come un’impronta che ci permette di risalire al Creatore – piano speculativo – e al Legislatore – piano pratico. Lo spiega bene James Brent, in un recente studio sul concetto di ordine:

«In the order of things, God is near to us, showing himself to us (to some extent), and God has endowed human beings with a desire to know him by contemplating that order. These are profund metaphysical and anthropological statements about the ultimate final causes of creation and human existence, yet their truth comes to light only by considering deeply the existential order as an order».

James Brent, «God and Order in Thomas Aquinas», in Acta Philosophica. 1, 25 (2016), p. 18.

Il riferimento al Principio primo anche in ambito morale è, quindi, necessario ed è una necessità metafisica che deriva dalla constatazione della presenza dell’ordine stesso: come è necessario far riferimento ad una Causa intelligente ordinatrice osservando il mondo fisico, così è altrettanto necessario far riferimento ad un Legislatore osservando l’ordine morale (Quanto appena detto è riconosciuto da molti filosofi e tra questi il già citato Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Parte I, libro II, cap. II, § 5; 2005b, Parte II, sez. II, appendice, §§ 86-87), le cui argomentazioni sull’ordine morale – nella citata Critica della ragion pratica e nella Critica del Giudizio – sono estremamente suggestive).

L’impianto metafisico classico permette di cogliere la reale dipendenza delle cose da Dio, e nello specifico della legge morale naturale dalla legge eterna, sicché la percezione delle “cose morali” si presenta come un’altra via per (di-)mostrare l’esistenza di Dio, così come l’intelligibilità del mondo ci porta necessariamente all’intelletto divino come causa di questa intelligibilità. È in base a ciò che Tommaso può dire che la legge morale naturale è «partecipatio legis aeternae in rationali creatura» (cfr Summa Theologiæ, I-II, q. 91, a. 2, resp.; de Finance 2016, pp. 203-212).

In altri termini, come le leggi studiate dalle scienze naturali presentano all’uomo l’intenzione di Dio circa l’ordine della realtà fisica, allo stesso modo la lex naturalis è l’espressione delle intenzioni di Dio nell’ordine morale. È una legge – spiega Agostino – «scritta nel cuore degli uomini, tanto che neppure l’iniquità può cancellare» (Conf., II, 4) e qui il termine “cuore” è inteso in tutta la sua ampiezza semantica: la parte più profonda dell’uomo che è capace, con la sua intelligenza, di cogliere questa lex come «la ragione divina o volontà di Dio», il Quale «comanda di mantenere l’ordine naturale e proibisce di turbarlo» (Contra Faustum, XXII, 27).

Giovanni Covino

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