Ibn Sinā, conosciuto in Occidente con il nome di Avicenna, nacque nel 980 ad Afshana e morì, nei pressi di Hamadan, nel 1037. Scrisse moltissime opere, tra cui l’imponente testo Il libro delle guarigioni che spazia dalla logica alla fisica, dalla metafisica alla retorica, dalla poetica alla medicina. Nel testo appena citato, Avicenna espone anche le opere di Aristotele, ma con molta libertà e tenendo conto del progresso della conoscenza: non si tratta di un commento letterale, come quello di Averroè, ma di una «riscrittura aggiornata detta [appunto] “parafrasi avicenniana”» (M. Vegetti, Filosofia: autori, testi, temi, Le Monnier, Firenze 2012, p. 529).
Si narra che lesse quaranta volte la Metafisica di Aristotele senza comprenderla, finché non trovò, casualmente, un trattato di Fārābī (872-950) e – come lui stesso dice – «finalmente gli si aprirono gli occhi». Nonostante la confessione di questa difficoltà, Avicenna fu «straordinariamente precoce», un uomo dalla cultura sterminata: «a diciotto anni aveva saggiato tutte le scienze; non gli restava che approfondirle» (H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1964, p. 173).
La riflessione filosofica di Avicenna integra elementi di platonismo, aristotelismo e neoplatonismo, elementi che poi s’intrecciano con la religione islamica. Tra le tesi più importanti del filosofo persiano, merita senza dubbio un breve approfondimento la distinzione – accolta e approfondita anche da Tommaso d’Aquino (1225-1274) – tra essenza ed esistenza.
Quando si parla di qualcosa, come per esempio di un tavolo, distinguiamo l’essenza – ciò che si afferma rispondendo alla domanda “che cosa è ciò?” – dall’esistenza effettiva del tavolo. Questa distinzione logica ha un rilievo metafisico notevole: l’esistenza dell’ente-tavolo (ma vale per qualsiasi ente: un sasso, un albero, un uomo ecc.) non è legata alla sua essenza necessariamente. La realtà di cui facciamo esperienza è composta, quindi, da enti possibili: di fatto l’ente-tavolo esiste, ma potrebbe anche non esistere. Non ha in sé la sua ragion d’essere: la realtà di questo ente è legata, quindi, a quella di un altro ente che è l’Ente necessario. L’Ente necessario ha, invece, in sé la sua ragion d’essere.
A tal proposito l’importante storico francese, Étienne Gilson, commenta:
A questo titolo egli (Dio) possiede l’esistenza in virtù della sua sola essenza, o come anche si dice, in lui essenza ed esistenza sono una cosa sola. È per questo, d’altra parte, che Dio è indefinibile ed ineffabile. Egli è, ma se si chiede che cosa è non c’è risposta, perché in lui non c’è un quid al quale possa rivolgersi la domanda quid sit. Il caso di Dio è unico. Tutto ciò che non è che possibile ha invece un’essenza, e poiché, per definizione, questa essenza non ha in sé la ragione della sua esistenza, bisogna dire che l’esistenza di ogni possibile è, in certo modo, un accompagnamento accidentale della sua essenza. Notiamo bene che questo accidente può, infatti, accompagnarla necessariamente in virtù della necessità della sua causa, ma non ne risulta necessariamente di diritto, perché non deriva dall’essenza come tale. C’è quindi distinzione di essenza e di esistenza in tutto ciò che non è Dio.
La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia, Firenze, p. 427
Giovanni Covino