“Ipsum desiderium tuum, oratio tua est”. I filosofi e la preghiera

«Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un “perché”. Perché io respiro? Perché altrimenti muoio. Così con la preghiera»

Søren Kierkegaard

Il tema della preghiera potrebbe apparire a molti un tema “poco filosofico”. In realtà, è stata oggetto di riflessione di numerosi filosofi dall’antichità ad oggi. Nel ‘900, ne hanno parlato pensatori cristiani come Jacques Maritain (1882-1973), Cornelio Fabro (1911-1995) ed Étienne Gilson (1884-1978), filosofi di tradizione ebraica come Emmanuel Lévinas (1906-1995) e Franz Rosenzweig (1886-1926), ma anche autori come Ludwig Wittgenstein (1889-1951), a cui si deve la bella espressione «pregare è pensare al senso della vita» o Martin Heidegger (1889-1976), per il quale «denken ist danken», cioè “pensare è ringraziare”, un gioco di parole – in tedesco – che, nonostante le ambiguità della filosofia dell’autore di Sein und Zeit, propone una suggestiva immagine dell’uomo che si rivolge all’Altro anche con il pensiero, ringraziandoLo del proprio essere.

In base a quanto detto, si potrebbe parlare di un intreccio o – persino – di una fusione di preghiera e pensiero, come si evince – e facciamo un bel salto indietro – dalle Enneadi (VI, 9, 3-8) di Plotino (204-270): l’anima tende all’Uno e alla sua contemplazione, al luogo della sua vera libertà (per un approfondimento si veda l’intervista a M. Andolfo). Questo profondo desiderio dell’animo umano emerge chiaramente nell’opera di Agostino (354-430): è una sorta di «ginnastica del desiderio» questo tendere a Dio e alla “patria celeste”, nella consapevolezza dei propri limiti, della propria miseria e dell’imperfezione di questa vita. Nell’Epistola a Proba (16, 30) leggiamo:

Ecco perché ogni anima che comprenda di essere, in questo mondo, abbandonata e desolata, finché è pellegrina lontana dal Signore affida quella che possiamo chiamare vedovanza a Dio difensore con continua e ferventissima preghiera. Prega dunque come vedova di Cristo poiché non godi ancora della vista di lui, del quale invochi l’aiuto. Benché inoltre tu possieda grandi ricchezze, prega come se fossi povera: poiché non possiedi ancora la vera ricchezza della vita futura, solo nella quale non avrai da temere perdita alcuna.

Sulla scia dell’Ipponate, Anselmo d’Aosta che – nel Proslogion (I) – riprende il concetto di oratio come desiderium e presenta l’intreccio di cuore e mente, di preghiera e pensiero. La preghiera, infatti, è un atto che coinvolge l’uomo nella sua totalità: cuore e mente, affetto e pensiero.

Secondo Tommaso d’Aquino (cfr. S. th. II-II, q. 83, a. 3), la preghiera è un atto che appartiene alla virtù della religione, virtù che «inclina l’uomo a rendere a Dio la riverenza e l’onore che gli sono dovuti». Quanto detto, porta naturalmente a parlare del rapporto Dio-uomo-storia, alla questione della provvidenza – che troviamo anche in Cicerone (106-43 a. C.) o Seneca (4 a. C. – 65 d. C.) – e di come “interviene” Dio nella storia. Tommaso d’Aquino (1225-1274), a chi obietta che non si può costringere Dio a cambiare i suoi piani, replica – con grande acume – che l’uomo prega «non per mutare le disposizione divine, ma per impetrare quanto Dio ha disposto di compiere mediante la preghiera dei santi» (S. th. II-II, q. 83, a. 2).

In altri termini, nella tradizione filosofica cristiana – che trova in Tommaso uno dei maggiori esponenti – non viene messa in discussione la libertà dell’uomo che sceglie di rivolgersi a Dio con questo atto, evitando gli estremi della superstizione e dell’indifferenza divina.

Giovanni Covino


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