Marco Ivaldo, già professore ordinario di Filosofia morale e di Filosofia pratica presso l’Università degli studi “Federico II” di Napoli. Curatore delle “Fichte-Studien” (Leiden/Boston). Dirige assieme a Erich Fuchs e Carla De Pascale la collana “Fichtiana” (Vivarium Novum, Roma/Frascati), di cui è stato fondatore assieme a Reinhard Lauth. Membro della direzione della “Rivista di storia della filosofia” (Milano), della direzione di “Filosofia e teologia” (Milano), del comitato editoriale dell’“Archivio di filosofia” (Roma), del consiglio scientifico del “Philosophisches Jahrbuch” (München), del comitato scientifico di “Il cannocchiale” (Roma). Tra le sue ultime pubblicazioni ricordo: Ragione pratica. Kant, Reinhold, Fichte, Edizioni ETS, Pisa 2012, Fichte, La Scuola, Brescia; Filosofia e religione. Attraversando Fichte, La scuola di Pitagora, Napoli 2016.
Professore, Lei è uno studioso del pensiero moderno, in modo particolare del sistema filosofico di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814). So che è molto difficile, ma potrebbe dirci qual è la cifra che caratterizza questo periodo della storia della filosofia?
Posso rispondere soltanto operando una delimitazione del campo. Nel 1781 esce la prima edizione della Critica della ragione pura, nel 1854 muore Schelling. In questo arco temporale si svolge la storia variegata della cosiddetta filosofia classica tedesca. Contrariamente a molte interpretazioni fino a qualche tempo fa correnti della filosofia classica tedesca penso che la cifra che in definitiva la caratterizza sia il pensiero della libertà, intesa non soltanto come principio morale, ma anche, e radicalmente, come principio costituente dell’esperienza, ossia come principio ontologico. La libertà è principio della realtà essente e insieme è manifestazione dell’originario: questo pensiero della filosofia classica tedesca, questo nesso strutturale declinato in maniere molteplici e non univoche, non muore con la morte di Schelling, ma è vivo ancora oggi, perché ha a che fare con l’originario.
Tra i filosofi più importanti di questo periodo, Immanuel Kant (1724-1804) ha un posto particolare. Nella prima Kritik è lo stesso Kant a parlare di “rivoluzione”. Potrebbe spiegarci in cosa consiste questa rivoluzione?
Una maniera di interpretare la cosiddetta rivoluzione copernicana di Kant consiste nell’affermare che Kant avrebbe condotto l’oggetto dell’esperienza a ruotare intorno al soggetto, e non il soggetto intorno all’oggetto, come nella metafisica tradizionale. In realtà penso che la visione originale di Kant sia stata l’idea di una filosofia trascendentale, come filosofia che non verte direttamente sull’oggetto rappresentato, al modo dell’esperienza comune o delle scienze particolari, ma sul nostro modo di avere l’oggetto, per quanto ciò sia possibile in chiave apriorica. In realtà la kantiana Critica della ragione mira a stabilire le condizioni trascendentali di possibilità dell’esperienza oggettiva, cosa che implica per Kant enucleare le condizioni, o gli atti, costituenti della coscienza soggettiva, anzi richiede di investigare il fondamento della relazione soggetto/oggetto. Questo fondamento, declinato in varie espressioni da diversi filosofi della aetas kantiana, è il trascendentale.
Restiamo ancora su Kant. La metafisica è, secondo la classica definizione aristotelica, la filosofia prima. Con lo sviluppo delle scienze positive, sembra aver perso questo primato e Kant, se non sbaglio, lo certifica nelle sue opere. Com’è cambiata, secondo Lei, la metafisica dopo Kant?
Kant non nega affatto la metafisica. La Critica della ragione intende piuttosto determinare le condizioni di possibilità di una giustificata affermazione metafisica riguardo alla esistenza di Dio, alla immortalità dell’anima, e della realtà del mondo (e/o della libertà) . Kant ritiene che la conoscenza teoretica non consenta di concludere né in senso positivo né in senso negativo sulla realtà di queste tre idee della ragione, in particolare adesso della esistenza di Dio, a meno che non si adotti un approccio analogico, che tuttavia non assurge al piano di una conoscenza oggettiva. Decisivo per arrivare a una affermazione positiva in merito alle idee della ragione è l’approccio di una altra forma, o modalità di procedere, dell’una-ragione, cioè la ragione pratica, che è la ragione in quanto ha che fare con la nostra esistenza come esseri riflessivi, valutanti e decisori in senso morale.
Lei ha scritto un libro molto interessante sulla “ragione pratica”, indagando le posizioni di Immanuel Kant, Karl Leonhard Reinhold (1757-1823) e Johann G. Fichte. Potrebbe illustrarci brevemente il nucleo delle loro ricerche morali?
In questo libro, prendendo in considerazione Kant, Reinhold (che è un filosofo fondamentale dell’aetas kantiana) e Fichte, cerco di evidenziare che la ragione pratica, in quel momento della storia del pensiero, non viene compresa soltanto come ragione morale, ma come un principio architettonico dell’esperienza oggettiva e soggettiva. Nel nostro essere-al-mondo non siamo caratterizzati soltanto dal fatto di avere (un flusso di) rappresentazioni di stati di cose, ma troviamo noi stessi anche come esseri desideranti, volenti, progettanti scopi, attratti da valori, determinati da imperativi. Il principio dell’esperienza non è allora un principio soltanto teoretico, ma pratico-teoretico, non è l’io penso, ma l’io voglio, e più in profondità l’io devo. Anzi, penso e voglio perché devo (soll): questo esprime il senso della ‘svolta trascendentale’.
Jacobi è un altro filosofo che Lei conosce molto bene. Ci sono tanti aspetti interessanti del suo pensiero, io vorrei soffermarmi sul concetto di Glaube. Per Cornelio Fabro, questo concetto è fondamentale per comprendere la posizione di Jacobi nella storia della filosofia moderna. È d’accordo?
Sì, il Glauben è un concetto-chiave di Jacobi (almeno fino alla Lettera a Fichte del 1799). Nella decisiva controversia con Mendelssohn Jacobi oppone alla filosofia sistematica, che egli vedeva allora incarnata in maniera insuperabile nel sistema di Spinoza, un atteggiamento personale che si poteva acquisire soltanto con un salto fuori dal sistema (“salto morale”), e che egli chiama fede (Glaube). Solo attraverso la assunzione di questo punto di vista possono essere salvate per Jacobi la libertà e la persona, che non avrebbero spazio dentro le connessioni ‘logiche’ del sistema della ragione. Anzi solo attraverso la fede possiamo avere una coscienza immediata della realtà “fuori di noi”, cioè del fatto che abbiamo un corpo, che esistono corpi fuori di noi, e che esistono altri da noi. La fede (inglese. Belief) è allora una coscienza immediata della realtà, che deve essere posta alla base di ogni conoscenza mediata, o di seconda mano. Il razionalismo moderno, ma le premesse erano già in Aristotele!, ha smarrito o frainteso, o corrotto questa distinzione. Il gesto di Jacobi è significativo nella storia del pensiero perché evidenzia potentemente i rischi nichilistici di una concezione auto-assolutizzante della ratio. E’ interessante osservare che Jacobi non si limita ad affermare la necessità della fede, di una conoscenza di prima mano, come via di uscita dal nichilismo, ma si impegna a correlare la fede con una interessante comprensione della “ragione” come Wahr-nehmung, percezione del vero.
Ultima domanda. Che valore ha oggi la ricerca filosofica oggi? E che valore ha nelle scuole di ogni ordine e grado?
La ricerca filosofica ha ancora e sempre il valore di investigare la totalità della realtà muovendo da prospettive capaci di giustificare i propri atti. Questa è almeno l’idea di una filosofia trascendentale. Il grande scuotimento che oggi segna la vita del mondo rende questa ricerca di totalità – diciamo pure: di verità sul tutto – tanto più necessaria e urgente. Le scienze particolari, le discipline scientifiche sono punti di vista sul reale necessari. Ma non possono sostituire lo sguardo olistico che è oggi richiesto, e che è rappresentato nell’approccio filosofico. L’essere umano è, come ogni altro essente, parte integrante della natura, è espressione come le altre della natura naturans e modificazione come le altre della natura naturata, per riprendere il linguaggio di Spinoza. Nella natura tutto è connesso con tutto. Nel tempo della prova, come quello che viviamo, esperimentiamo vivamente questa appartenenza dell’umano alla natura. Ora, la filosofia esiste in quanto attesta che ‘esiste’, ovvero si pone nell’esserci, un altro sguardo rispetto a quello naturale, un ‘occhio’ capace di guardare se stesso. Questo ri-guardo (o ri-flesso) è impossibile in ogni natura. Questo riflesso è ciò che chiamiamo libertà. Essa dischiude l’accesso a un’altra lettura dell’universo, ovvero apre allo sguardo un altro universo, il cui principio è la libertà stessa. Per questo ho parlato della libertà come principio ontologico. In quanto luogo di apparizione della libertà nella natura l’essere umano è più che natura. La natura, i suoi ritmi, lo avvolgono e lo condizionano, ma non lo esauriscono. Tenere desto questo sguardo, che è il luogo genetico di tutto ciò che nel finito è più grande (maius et melius), coltivare e difendere questa libertà della riflessione da ogni restrizione naturalistica, è a mio giudizio il compito attuale, ma anche l’essenza insostituibile della filosofia.
Intervista a cura di Giovanni Covino