Ritratti di filosofi. Henri Bergson: l’«emozione creatrice». Alle fonti della morale e della religione

In Europa, il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento vide una decisa reazione al positivismo: moltissimi pensatori si resero conto che alcuni temi non potevano essere affrontati seguendo il metodo delle cosiddette scienze positive e che la razionalità non poteva essere rinchiusa negli angusti limiti della sola osservazione fisica. Questi pensatori – che la manualistica etichetta come “spiritualisti” – si accorsero, in definitiva, che temi quali l’interiorità, la libertà, la coscienza, l’anima fanno parte di una realtà che travalica lo spazio fisico.

Tra gli autori più importanti di questo periodo, troviamo senza alcun dubbio Henri Bergson (1859-1941) che, con opere quali Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Materia e memoria (1896), L’evoluzione creatrice (1907), Le due fonti della morale e della religione (1932), cerca di mostrare l’irriducibilità di cui sopra. Nell’ultima opera citata, Bergson pone la sua attenzione sulla “creatività” morale e religiosa dell’uomo cercando di andare alla radice di questo processo: si tratta – come sottolineato da Adriano Pessina – di un lavoro di sintesi e, allo stesso tempo, di prospettiva sul problema dei rapporti tra la morale e la religione. Ebbene, per l’Autore de L’evoluzione creatrice, le norme morali hanno due fonti:

(a) la pressione sociale;

(b) lo slancio d’amore.

Nel primo caso, «la vita sociale – scrive – ci appare come un sistema di abitudini, più o meno fortemente radicate, che rispondono ai bisogni della comunità». Questo tipo di morale, genera una «società chiusa», dove la persona vive come una parte di un ingranaggio: si tratta di una sorta di sistema meccanico in cui la persona si muove e vive senza cogliere la verità delle cose. Tuttavia – continua il filosofo –  non esiste solo questa fonte: esiste anche una “morale assoluta” come quella «del Cristianesimo, dei saggi della Grecia e dei profeti d’Israele». Di questa morale il fondamento è la persona: ciò che qui conta non è né l’istinto né l’abitudine, ma l’«emozione creatrice» che permette di cogliere nella vita qualcosa che altri non hanno intuito ed è – continua – capace «di cristallizzarsi in rappresentazioni e perfino in dottrina». Pensiamo all’«emozione» introdotta dal cristianesimo sotto il nome di carità:

«se essa conquista gli animi, – spiega Bergson ne Le due fonti – ne segue una certa condotta, e una certa dottrina si espande. Né questa metafisica ha imposto questa morale né questa morale fa preferire questa metafisica. Metafisica e morale esprimono la stessa cosa, una in termini di intelligenza, l’altra in termini di volontà; e le due espressioni sono accettate insieme non appena sia data la cosa da esprimere».

Analogamente a quanto detto circa la morale, Bergson distingue la «religione statica» dalla «religione dinamica», vale a dire la religione del mistico nella quale l’amore di Dio è al di sopra di ogni cosa, «una presa di contatto, e di conseguenza, una parziale coincidenza, con lo sforzo creatore che manifesta la vita. Questo sforzo è di Dio, se non Dio stesso».

Le due fonti conclude il suo percorso con un occhio verso il futuro e con l’auspicio di dare un’anima al progresso:

«L’umanità geme, semischiacciata dal peso del progresso compiuto. Ma sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei. A lei di vedere prima di tutto se vuole soltanto vivere, o fornire anche lo sforzo perché si compia, anche sul nostro pianeta refrattario, la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare degli dei».

In conclusione, il contributo di Bergson si presenta di notevole interesse, soprattutto perché ha richiamato, in un periodo segnato dal dogmatismo scientista, le menti ad una riflessioni più attenta sul senso ultimo della vita e invitando ad un “vissuto autentico”. In uno scritto del 1895, Le bon sens et les études classique, scriveva:

«Forse avrete notato davanti ai nostri monumenti e nei nostri musei, degli stranieri che tengono in mano un libro aperto, un libro in cui trovano descritte, senza dubbio, le meraviglie che li circondano. Assorbiti in questa lettura non sembrano talvolta dimenticare, per essa, le bellezze che erano venuti a vedere? È così che molti di noi viaggiano attraverso l’esistenza, gli occhi fissi su delle formule che leggono, come in una specie di guida interiore, trascurando di guardare la vita per regolarsi semplicemente su ciò che se ne dice, e pensando solitamente a delle parole piuttosto che alle cose».

Giovanni Covino


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