Senso comune e metafisica in Jacques Maritain. Con particolare attenzione alla “conoscenza per inclinazione”

Propongo ai lettori di Briciole filosofiche questo articolo di Matteo Andolfo che analizza con rigore e acume il mio ultimo lavoro su Jacques Maritain. Dopo un’esposizione generale, l’Autore approfondisce il tema della “conoscenza per connaturalità” nel filosofo francese.

Nel mio studio ho cercato di mettere in evidenza il carattere aporetico della posizione maritainiana, mentre Andolfo fornisce un’interpretazione diversa della stessa: pur ammettendo una certa oscillazione nel pensiero del filosofo francese (in accordo con la mia tesi), l’Autore propone «una certa rivalutazione positiva» capace di non cozzare con la dottrina del senso comune (distaccandosi così dalla mia tesi).

Non posso che ringraziare Andolfo per questo contributo che mi/ci permette di approfondire ulteriormente questa delicata questione [Giovanni Covino].


Come afferma Massimo Roncoroni nella prefazione, il saggio del filosofo e docente Giovanni Covino, Jacques Maritain nella tradizione del senso comune (Leonardo da Vinci, Roma 2019, pp. 240, euro 20) è finalizzato alla «verifica dell’incidenza», nel pensiero di Jacques Maritain, della «nozione di senso comune […]. D’altra parte la chiarificazione e la rigorizzazione intellettuale della nozione di senso comune, presupposto di ogni vera metafisica dell’esperienza umana, costituisce l’anima della ricerca di tale giovane pensatore» (pp. 7-8). Nel mettere in evidenza questa linea direttrice dello studio, rispettandone, nell’esposizione, l’articolazione, vorrei, tuttavia, intrecciarla con quello che scelgo come filo conduttore di questo articolo: esporre alcune riflessioni su quello che Covino considera l’aspetto problematico, se non aporetico, della concezione maritainiana del senso comune: la conoscenza per connaturalità o inclinazione affettiva dei valori morali, poiché Maritain la qualifica come aconcettuale. Il fine è di evidenziare alcuni aspetti che possano permettere una certa rivalutazione positiva di tale nozione, sempre in accordo con il senso comune.

Il primo capitolo (pp. 31-74) esamina la nozione di senso comune nella storia della filosofia, partendo dalle tre accezioni della stessa proposte da Antonio Livi:

1) l’accezione psicologica: indica la capacità generale di sentire, a cui Aristotele attribuisce sia di costituire la coscienza della sensazione (sentire di sentire) sia di percepire le determinazioni comuni a più sensi (movimento, quiete, figura, grandezza, numero ecc.), poiché, come afferma l’Aquinate, il senso proprio (per es. la vista) discerne e giudica l’oggetto proprio (i colori), ma per discernere tale oggetto (un colore) dall’oggetto proprio (il dolce) di un altro senso (il gusto) ci vuole un senso comune che conosca ambedue gli oggetti – poiché la vista non è in grado di cogliere il dolce come il gusto di sentire il colore –, ossia in cui confluiscano tutte le percezioni e il cui oggetto proprio sia il sensibile, che ricomprende tutti gli oggetti percepibili dai cinque sensi;

2) l’accezione sociologica: designa a) le «conoscenze popolari che le scoperte scientifiche contraddicono» (p. 33); b) in àmbito socio-politico, le ideologie, i pregiudizi correnti, la cultura dominante in senso gramsciano (i convincimenti radicati in un certo momento storico nel popolo e in una certa classe sociale); c) le pre-condizioni per i rapporti personali nella vita pratica, la saggezza popolare nel suo valore pragmatico; d) l’organo della percezione estetica (Kant), pre-condizione intersoggettiva della comunicabilità e della convergenza dei giudizi estetici;

3) l’accezione epistemica: sottolinea il valore aletico del senso comune e la sua centralità nella teoria della conoscenza. Sebbene in Maritain si ritrovi anche l’accezione sociologica, è quella epistemica la più rilevante nel suo pensiero, a cui Covino dedica la propria attenzione. Essa emerge esplicitamente solo nella filosofia moderna, ma se ne può individuare la presenza implicita anche nei pensatori antichi e medievali. Soffermandosi su Parmenide, 130 B-E, Covino nota che la teoria delle Idee, essendo introdotta per interpretare con verità l’esperienza della realtà sensibile, implica che il pensiero non possa creare il proprio oggetto, che è dato, e questa è proprio la consapevolezza costitutiva del senso comune. Ciò è più esplicito in Aristotele, che ammette il consenso di tutti gli uomini quale criterio di verità: «la scienza che è conoscenza della causa […] parte sempre dall’“assunzione acritica di determinati presupposti, i princìpi”» (p. 43), indotti dall’esperienza immediata. Il senso comune, quale piano della conoscenza irriflessa i cui contenuti sono verità immediate innegabili, è confermato dalla confutazione aristotelica dei negatori del principio di non-contraddizione (pdnc): l’elenchos porta sul piano della conoscenza riflessa quanto già si trova su quello della conoscenza irriflessa, per questo anche il negatore si trova costretto a rispettare il pdnc mentre lo nega. Tra le verità prime indubitabili Cicerone introduce l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Passando al pensiero cristiano, anche nelle lettere di san Paolo si riscontra l’inferenza spontanea che dall’ordine e bellezza del mondo conduce alla certezza dell’esistenza di Dio. La critica paolina della filosofia, pertanto, rileva Covino, è relativa solo a quelle correnti che negano le certezze che ogni uomo naturalmente ha. Riprendendo Aristotele, Tommaso afferma che i princìpi sono indotti dall’esperienza – l’ordine logico è preceduto dall’ordine esistenziale – e li considera l’oggetto dell’intelletto agente, perché tali princìpi non si conseguono col ragionamento, bensì si percepiscono istantaneamente allorché i sensi insieme agli aspetti materiali della realtà ce ne presentano quelli ontologici, a cominciare dall’essere delle cose.

La ricognizione del senso comune prosegue nella storia della filosofia moderna, richiamando Pascal, Buffier, Vico, Reid, Jacobi e Rosmini, e della filosofia contemporanea, da Moore a Wittgenstein, da Searle a Gadamer, da Pareyson a Livi, che ha «sistematizzato la preziosa eredità di molti autori del passato[1], dando vita a una vera e propria “filosofia del senso comune”» (p. 66), il quale non è inteso come una facoltà dell’uomo, ma come l’insieme delle cinque certezze o giudizi esistenziali (anche non formalizzati) incontrovertibili in quanto evidenze immediate, che ogni uomo possiede in ogni tempo e che rende possibile anche l’atto di fede. L’innovativa e originale concezione liviana fa riferimento anche a Gilson, Garrigou-Lagrange e Maritain. All’analisi del contenuto del concetto maritainiano di senso comune è dedicato il secondo capitolo (pp. 75-100) del saggio.

Nell’Introduction générale à la philosophie Maritain individua nella “conoscenza volgare”, formata da opinioni o credenze più o meno ben fondate, un nucleo di vere certezze costituite da dati dell’evidenza sensibile (es.: i corpi sono tridimensionalmente estesi), princìpi intelligibili per sé evidenti (es.: il tutto è maggiore della parte) e certe loro conseguenze immediate. Covino osserva che queste certezze convergono con il giudizio res sunt che per Gilson e per Livi è il punto di partenza di qualsiasi riflessione scientifica: l’evidenza della realtà nella sua concretezza e intelligibilità. Secondo Maritain, lo stato in cui questo nucleo è presente nella mente umana non ha la precisione concettuale delle nozioni metafisiche, ma mantiene intatto il suo valore di verità. In Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale, il Nostro ammette anche una conoscenza naturale e prefilosofica della libertà e dei valori morali (poiché gli uomini non hanno atteso la filosofia per avere una morale) e la definisce come il “preconscio” della vita dell’intelligenza e della ragione allorché essa ricavi dall’esperienza sensibile un’intuizione nuova, non ancora concettualizzata. Su questo punto Covino dissente da Maritain, ritenendo impossibile che l’aconcettuale possa fungere da fondamento aletico. Invece, io mi domando se l’aconcettualità non possa essere intesa positivamente come sovrarazionalità metaconcettuale connessa alla conoscenza intuitiva dell’intelletto (agente). In tal caso, il suo carattere “preconscio” potrebbe intendersi in un modo compatibile con la filosofia del senso comune, ossia con il fatto che questo è presente in ogni uomo anche se non ne è pienamente consapevole. Del resto, Maritain stesso definisce tale “preconscio” come una conoscenza per inclinazione naturale, innestata di ragione e in Creative Intuition in Art and Poetry lo distingue dall’inconscio freudiano quale inclinazione radicata nella natura animale dell’uomo. Sempre in Neuf leçons precisa che nella conoscenza per inclinazione l’intelligenza non giudica in virtù di concetti e ragionamenti, ma per conformità alle inclinazioni della natura razionale dell’uomo, senza saper esprimere le ragioni del proprio giudizio, che ha, nondimeno, un valore implicitamente razionale.

Dalla conoscenza per inclinazione (radicata nella ragione operante in maniera preconscia) dei valori morali l’uomo ricava spontaneamente altre due verità: l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. «Il fatto che Maritain richiami sia l’immortalità dell’anima che la certezza dell’esistenza di Dio […] è segno del rapporto strutturale, genetico presente tra le verità del senso comune. Insomma in questo modo si mostra che il senso comune riguarda la totalità dell’esistenza (ed è per questo che spesso Maritain parla di metafisica spontanea), riguarda ciò che andrà a costituire la materia della sistematica riflessione metafisica: mondo, anima e Dio» (p. 86).

I riti funebri degli uomini primitivi, afferma Maritain, attestano la “fede istintiva” dell’uomo nella propria immortalità, sia pure senza averne una conoscenza concettuale o filosofica; le loro concezioni sono mitologiche, soggiunge, in quanto sono regolate dall’immaginazione, nel cui àmbito “crepuscolare” opera la loro intelligenza, sicché la loro assurdità e irrazionalità è più apparente che reale; l’immortalità per loro è una certezza radicata in strati più profondi della ragione. Ogni atto di pensiero, in primis il giudizio, è accompagnato da una coscienza spontanea o concomitante, espressione della riflessività interiormente vissuta, ma non concettualizzata, che è ben distinta da quella consecutiva o esplicita, che presuppone l’atto di riflessione che produce i concetti e i giudizi. La prima coscienza a poco a poco raggiunge la radice di tutte le operazioni mentali, l’io soprafenomenico, esperito oscuramente, ma in modo certo, pur senza concettualizzarlo[2]. Quando la conoscenza filosofica elabora l’idea dell’io riconosce quella realtà che l’intelligenza pensava in modo vissuto e inespresso.

Anche l’esistenza di Dio per Maritain è colta attraverso una conoscenza doppiamente naturale: in quanto non è dell’ordine sovrannaturale della fede e in quanto è prefilosofica, così delineata in Approches de Dieu: allorché in un uomo sopraggiunge l’intuizione naturale dell’atto d’essere che è la forma di ogni forma e la perfezione di ogni perfezione, anche se lo coglie non concettualizzato nella nozione di actus essendi, ma come percezione della realtà della propria esistenza, quest’uomo si rende improvvisamente conto sia della solidità e inesorabilità dell’esistere proprio e delle altre realtà sia della morte e del nulla a cui tale esistenza è soggetta. E con l’intuizione coincidente con la presa di coscienza del valore intelligibile dell’essere diviene consapevole che questa salda esistenza percepita in ogni cosa implica un’esistenza assoluta, incorruttibile.

Nel terzo capitolo (pp. 101-124) Covino ricostruisce la “genesi logica” del realismo di Maritain attraverso la sua critica a certe rilevanti dottrine filosofiche contemporanee, accomunate dal rifiutare il senso comune, a cominciare dal distacco dal suo maestro, Bergson. Dell’opera La philosophie bergsonienne mi limito a richiamare quel tratto che supporta il filo conduttore del mio articolo: il fatto che Maritain critichi l’anti-intellettualismo del maestro, il rifiuto del concetto a favore di un’intuizione sovra-intellettiva che raggiunga il cuore delle cose, conferma, a mio parere, che la conoscenza per inclinazione “preconscia” e aconcettuale non può essere minimamente intesa come un’apertura all’irrazionalismo. Sulla stessa linea, in altre opere Maritain giudica il problema “critico”, che inizia con Cartesio, culmina in Kant e sfocia nell’idealismo, un abbassamento dell’intelligenza, che rifiutandone le potenzialità la chiude nelle angustie dello scetticismo. L’idealismo, che risolve il dualismo fenomeno-noumeno negando la realtà extramentale, prosegue nella riduzione della conoscenza della ragione alle sue sole costruzioni mentali, impedisce di riconoscere un ordine sovrannaturale che comunichi alla ragione umana vita e verità che eccedono i suoi limiti e rinchiude il pensiero nell’autosufficienza dell’individuo. Anche il riconoscimento husserliano di primi giudizi oggettivi massimamente evidenti e quindi certi condivisi da tutti viene vanificato dall’epoché delle certezze relative al mondo dell’esperienza, di fatto misconoscendole e finendo per ammettere quale assoluta evidenza solo l’apparire del mondo alla coscienza, ossia l’esistenza di quest’ultima. Invece, la filosofia dell’essere, il realismo tomista, salvaguardando il valore della conoscenza delle cose, permette di esplorare l’universo della riflessione ed è per eccellenza una filosofia dello spirito. A mio avviso, questo è un indizio che l’intuizione intellettiva aconcettuale possa essere intesa come metaconcettuale, ossia sovrarazionale-sovradiscorsiva, ma non irrazionale, e resti saldamente ancorata all’essere e al senso comune.

Il quarto capitolo (pp. 125-192) tratta dei rapporti tra il senso comune, la filosofia e la scienza in genere. Covino espone subito il principio ermeneutico che segue: tenere conto che Maritain considera il senso comune secondo due prospettive: come coacervo di giudizi che il filosofo non può accettare acriticamente, esso viene superato e rettificato dalla filosofia e dalla scienza, mentre come nucleo di certezze indubitabili il suo rapporto con la filosofia e la scienza si pone secondo la logica della presupposizione. È alla luce di tale principio ermeneutico che si comprende in che senso Maritain qualifichi il proprio realismo come “critico”: come si legge in Les degrés du savoir, del senso comune si può dire che sia “naturale” in due sensi opposti; nel significato di “esposto ai pericoli che minacciano l’intelligenza”, esso propende naturalmente verso l’ottusità e il materialismo e la filosofia deve correggerlo, mentre nel significato di “conforme alle inclinazioni naturali della natura razionale dell’uomo” esso è naturalmente retto e intuitivo, va verso l’essere e verso Dio per una sorta di “fototropismo” spirituale e la filosofia dev’esserne la continuazione, la formalizzazione. E Covino dimostra che tale è stata la metafisica maritainiana.

Se l’oggetto formale dell’intelligenza umana è l’essere, Maritain distingue due “momenti”: a) quello dell’essere incorporato nella quiddità sensibile, che è il primo oggetto percepito da ogni uomo quando inizi a pensare da essere ragionevole; b) l’essere in quanto essere, isolato dalla quiddità sensibile, che è l’oggetto del metafisico. A me sembra richiamare la distinzione tomista tra l’oggetto proprio, ossia immediato, dell’intelletto umano, che lo determina specificamente e che è l’essenza degli enti sensibili, ossia il concetto astratto dall’esperienza sensibile, nel cui àmbito si esaurisce la sua comprensione, e il suo oggetto adeguato, in quanto intelletto, che è l’ente, che coincide con il tutto, attestando l’estensione infinita del nostro pensare, poiché al di fuori dell’ente c’è solo il non ente, ossia niente. L’atto di pensiero dell’intelletto agente è aperto all’infinito, ma non ha una comprensione infinita e, siccome è fatto per la presentazione alla conoscenza di contenuti obiettivamente finiti, per essere se stesso non esige un contenuto obiettivamente infinito, sicché pur intenzionando l’essere non esige che gli si presenti immediatamente l’Essere assoluto, ossia Dio.

«Detto ciò Maritain mostra i due aspetti dell’essere: l’aspetto essenza che risponde alla prima operazione dello spirito (formazione del concetto) e l’aspetto esistenza, l’esse propriamente detto, che è il termine perfettivo delle cose» (p. 144). In Sept leçons sur l’être il Nostro distingue tre modi di intendere l’essere:

1) l’essere particolarizzato, considerato dalle singole scienze;

2) l’essere vago, oggetto del senso comune, ossia della conoscenza prefilosofica per inclinazione propria della ragione, sicché è una conoscenza infra-scientifica, poiché non è ancora quella scientifica della metafisica, ma è più universale di quella delle scienze particolari (punto 1) e ha già un certo valore metafisico, una sorta di “abbozzo” della conoscenza scientifica della metafisica, di cui condivide la certezza; l’essere è colto dal senso comune in un oggetto di pensiero che funge da “maschera” dell’essere in quanto essere; perciò, il senso comune si serve, senza conoscerla, della nozione metafisica dell’essere per pervenire a conclusioni prefilosofiche vere su problemi fondamentali, a cui la metafisica dà una soluzione scientifica;

3) l’ens rationis, oggetto della logica, l’essere in quanto esiste, de-realizzato, nella ragione umana.

Come quarto significato va aggiunto l’essere reale di cui si occupa la metafisica, l’ens sub ratione entitatis, l’esse quale atto[3] che rende esistenti gli enti ponendoli al di fuori del nulla, l’attualità di tutte le cose, forme comprese, l’essere in tutta l’ampiezza della propria intelligibilità, come trascendentale, oggetto dell’intuizione intellettiva del metafisico. Non lo si coglie né mediante il ragionamento, che lo presuppone, né mediante i sensi, che percepiscono i singoli enti. Nel contempo, l’intelligenza nel considerare la molteplicità degli enti intuisce sin dal principio il carattere analogico dell’essere cogliendo in ogni ente una relazione tipica tra ciò che esso è (l’essenza) e l’esse, l’esistenza del ciò. Allora la nozione dell’essere intuita dal metafisico implica in sé la polarità essenza-esistenza, realmente distinti sul piano metafisico, ma inseparabili fisicamente. Infatti, tutto ciò che conviene a un cosa, dice l’Aquinate, o è causato dalla natura di quest’ultima o da un principio estrinseco; se l’essenza fosse la causa efficiente dell’essere sarebbe causa di se stessa, il che è impossibile; allora l’essere è realmente distinto dall’essenza. «La pluralità degli esistenti non è spiegabile se non attraverso la […] reale compresenza di un atto d’essere e di una potenza correlativa, chiamata essenza, che coartando il carattere intrinsecamente unitario dell’actus essendi […] giustifica la reale partecipabilità dell’essere in più enti» (p. 152). E siccome, soggiunge Tommaso, tutto ciò che è in virtù di altro esige quale causa prima ciò che è per sé, deve esistere una causa prima dell’essere che sia soltanto essere. In Approches de Dieu Maritain ripercorre le cinque vie dell’Aquinate per dimostrare l’esistenza di Dio quale Ipsum Esse per se subsistens.

Queste riflessioni di Maritain, che riprendono e sviluppano quelle di Tommaso, confermano la mia convinzione di una convergenza (non coincidenza) tra la metafisica del neoplatonismo cristiano e il realismo tomista: “ente” è un participio, sicché indica qualcosa (un’essenza) che esercita l’attività d’essere; quest’ultima, allora, può essere considerata in sé e per sé, come puro agire, come “essere” nel senso di infinito verbale, rispetto al quale l’ente ne è la determinazione, la sostanzializzazione. Non è l’essenza a causare l’essere, ma questo come agire puro, ossia come atto, a causare quella sostanzializzandosi. Questa sostanzializzazione non va, però, intesa come se l’Essere assoluto (Dio) smettesse di essere puro agire per sostanzializzarsi nella molteplicità degli enti, poiché in tal caso verrebbe meno ciò di cui le essenze degli enti partecipano per essere-sussistere. Pertanto, l’Essere assoluto causa gli enti partecipando il proprio essere ed è quest’essere partecipato a sostanzializzarsi, a causare l’esistenza dell’essenza che lo finitizza. Porfirio dice che le essenze preesistono come preforme (sono preformate) nell’Essere coincidenti con il suo agire infinito e semplice e si manifestano come forme-essenze determinate “al di fuori” di esso, ossia mentre l’Essere permane trascendente ed è l’Idea dell’ente, ossia l’Archetipo metaformale. Con molto più rigore Cusano rielabora la metafisica porfiriana (tenendo presente anche quella dell’Aquinate) e afferma che Dio è il possest, l’attualità di tutte le forme-essenze (le possibili partecipazioni similitudinarie dell’essenza divina eternamente conosciute in essa) complicate nella semplicità dell’infinito essere divino come un unico Esemplare, di cui gli enti finiti creati sono l’esplicazione mediante partecipazione.

Nella seconda appendice del saggio Covino riprende la questione dell’intuizione semplicissima – che eccede ogni discorso e ogni dimostrazione, ma che costituisce la base della conoscenza metafisica e, per usare le parole di Roncoroni, il culmine del senso comune – mediante la quale per Maritain si accede all’essere. Questa intuizione intellettiva coglie l’atto d’essere che permette all’ente di affermarsi come esistente e come «ciò che ha l’essere»; è l’intuizione di ciò che fa della realtà una realtà che esiste fuori dalla mente o conoscenza del soggetto pensante (contrariamente al soggettivismo moderno che riduce la realtà a quella che «esiste solo alla coscienza del pensiero che di volta in volta la pensa» [p. 17]). Nell’istante in cui i sensi percepiscono un ente sensibile l’intelligenza prende coscienza dell’atto percettivo, si accorge della presenza («siamo, dice Maritain, ancora sul piano dell’essermi-dato-come-presente e non sul piano dell’esse, siamo sul piano del Dasein» [p. 209]) e intuisce l’esistere della cosa con tutta la pienezza di senso metafisico della parola «essere/esistere», ossia penetra nel cuore della realtà per cogliere l’atto di ogni atto.

Siccome Maritain qualifica tale intuizione come un atto giudicativo, poiché «si produce in e attraverso un giudizio affermativo dell’esistere»[4], essa non precede il giudizio di esistenza e pertanto, secondo Covino, non è in contrasto con la dottrina del senso comune, che attribuisce la priorità proprio ai giudizi esistenziali. Invece, il concetto di esistenza è successivo all’intuizione/giudizio esistenziale in quanto nasce dal ritorno dell’intelligenza come formatrice di idee su tale intuizione. Secondo Contat, citato da Covino a p. 150, per Maritain, a differenza di Gilson, l’intelletto umano è in grado di concettualizzare l’essere, ma il concetto ottenuto in questo caso non è apprensivo, bensì giudicativo: esprime riflessivamente il contenuto del giudizio di esistenza connesso all’intuizione.

In Approches de Dieu Maritain espone una “sesta via” per giungere a Dio fondata sull’intuizione che si riferisce alla spiritualità naturale dell’intelligenza umana, un’intuizione molto più particolare di quella primordiale dell’esistere, perché suppone l’esperienza della vita dell’intelletto; si tratta dell’intuizione che accade quando l’attività dello spirito sia tutta raccolta nel pensiero e al di sopra dei sensi e che riguarda la doppia certezza di essere nati (ossia essere stati un tempo puro niente) e dell’impossibilità che la propria esistenza di spiriti pensanti abbia avuto un inizio. A mio parere, questa seconda certezza si fonda sul fatto che l’intelletto agente è sempre in atto. Sono due certezze la cui apparente contraddizione per Maritain può essere tolta (e non può non essere solvibile, dato che sono due certezze reali, mentre i contraddittori si annullano, sono nulla) solo ammettendo che ogni uomo quale spirito pensante sia sempre esistito non nei limiti della propria personalità (soggetta al nascere) né di una vita o esistenza impersonale (senza personalità non v’è pensiero), ma di una vita o esistenza sovrapersonale, in un essere dotato di una personalità trascendente, in cui si trovi secondo eminenza tutta la perfezione del pensiero, dell’essere e della personalità umani, ossia in Dio, poiché tale esistenza prima atemporale, di cui quella temporale è partecipazione, dev’essere la pienezza infinita dell’essere separata in essenza da tutta la diversità degli esistenti, non l’esistere di qualcosa che abbia l’esistenza, ma l’atto stesso di esistere per sé sussistente[5]. «Avevo (ma senza poter dire io) un’esistenza eterna in Dio (che è essere, pensiero e personalità in atto puro) prima di ricevere un’esistenza temporale nella mia propria natura e la mia propria personalità»[6].

L’io esiste nel tempo, ma in quanto pensante, come intelletto, è al di sopra del tempo, poiché come centro di attività spirituale è in grado di vivere della sovraesistenza immateriale dell’atto d’intellezione sovratemporale. E deve trattarsi, aggiungo, dell’intelletto agente, poiché quello possibile non è pura attività e quando è operativo dipende dai sensi, dall’immaginazione e dall’intelletto agente nell’operare. Covino precisa che per Maritain la sovraesistenza dell’intelletto umano in Dio non significa che esso abbia esercitato in Dio l’atto del pensare o che collabori all’atto di pensiero divino, ma che esiste in Dio in quanto pensata da Lui, vive dell’atto eterno d’intellezione di Dio che pensa se stesso e perciò anche tutte le sue possibili partecipazioni similitudinarie.

Mi siano consentite due osservazioni sulla sesta via maritainiana. Il rigore con cui è condotta, che scaturisce dal non distaccarsi dalle verità del senso comune, base della riflessione filosofica, mi permette di evidenziare, di riflesso, l’errore in cui cadono quelle correnti filosofiche hindù (come il vedanta) che ammettono l’identità tra l’io essenziale di ogni uomo e l’Assoluto (il Brahma), che comporta la riduzione della molteplicità dei sé essenziali umani a un unico Io essenziale assolutamente identico all’Assoluto e contrapposto alla molteplicità dei sé empirici, individuali e dall’esistenza relativa[7]. Infatti, queste correnti non hanno colto che nell’Assoluto l’Io essenziale non è propriamente un Io, a causa della semplicità e dell’eminenza dell’Assoluto. Nel contempo, mischiato all’errore si trova anche la verità di cui hinduismo e buddhismo sono portatori, confermando il detto baconiano: citius emergit veritas ex errore quam ex confusione. Tuttavia, tale verità emerge solo ammettendo la distinzione reale tra essenza ed essere. Se poi si vuole cercare una possibile causa di questo errore la individuerei, nel caso del pensiero hindù, nel fatto che l’identità assoluta tra l’Assoluto (Brahma) e l’io essenziale umano (âtmâ) è recepita dai Veda, la “rivelazione” hindù. Infatti, in un mio studio[8] ho messo in evidenza che anche la speculazione hindù parte dagli enti mutevoli dell’esperienza, ossia dal senso comune, e per gran parte della sua riflessione filosofica si mantiene aderente al realismo metafisico. Se i Veda non avessero imposto di deviare da quest’ultimo, il pensiero hindù sarebbe probabilmente pervenuto al Brahma come al Principio di cui l’âtmâ partecipa senza coincidere, proprio come sostiene Maritain. Se v’è partecipazione non può esserci Identità assoluta, poiché, come ben spiegano Plotino e Proclo, il partecipante è perfezionato dal partecipato, che perciò è più perfetto di esso, e il partecipato, a sua volta, può essere solo un modo particolare di manifestarsi dell’impartecipato, che è più universale: l’uomo è sapiente perché partecipa della (è perfezionato dalla) perfezione della sapienza divina, ma recependola al modo creaturale; Dio è la sapienza per sé sussistente, ma la sua essenza non si riduce a quest’unico attributo o modalità di parteciparsi. Come ben chiarisce Cusano, la massima semplicità (Dio) è massima Unità e Uguaglianza, che in quanto tale non accoglie il più e il meno (che l’altererebbero mutandola in disuguaglianza), ossia è singolarità non moltiplicabile e allora si partecipa creando il simile, che è altro da ciò a cui assomiglia. La potenza infinita di Dio può manifestarsi nel finito solo come molteplici e varie similitudini del Principio stesso, e tale manifestazione è frutto della libera volontà divina. L’idea dell’immagine come consustanziale e perciò assolutamente identica all’archetipo è tipicamente orientale e affonda le proprie radici nelle due più antiche culture orientali, quella egizia e quella mesopotamica del III millennio a.C.[9]. La concezione dell’Identità suprema tra Assoluto e io umano sostenuta da certe espressioni del pensiero indiano risulta, così, essere un’altra forma di “devianza” della filosofia occidentale e orientale, oltre a quelle da me indicate nel contributo alla miscellanea in onore di Antonio Livi[10]. Inoltre, si conferma che il senso comune funge da criterio di valutazione teoretica delle dottrine filosofiche.

La seconda osservazione è più critica: Maritain parla di un’esistenza eterna in Dio prima di ricevere un’esistenza temporale nella propria natura creaturale. È ovvio che il termine “prima” sia accettabile solo a “scopo didattico”, poiché l’atto creatore divino, con cui Dio partecipa il proprio essere e rende esistenti gli enti creati, è eterno, coincidendo con la semplicissima essenza divina (che in Dio è il suo stesso essere). L’eternità non è prima del tempo (sennò sarebbe tempo), ma è il fondamento del tempo.

Poi Covino riassume la prova metafisica maritainiana dell’immortalità dell’anima: l’oggetto dell’intelligenza è universale e in quanto tale immateriale; identica dev’essere la condizione dell’atto intellettivo che coglie tale oggetto e della potenza che lo esercita; allora immateriale sarà anche la sostanza da cui l’intelligenza emana, ossia nell’uomo v’è una sostanza immateriale, l’anima quale radice sostanziale di un potere psichico immateriale[11]. Anche se il concetto metafisico di immaterialità è molto più “raffinato” rispetto a quello dell’uomo comune e del primitivo, il metafisico purifica pur sempre quella conoscenza vissuta di immortalità propria del senso comune di cui s’è detto in precedenza. E siccome la scienza morale non si costituisce senza la metafisica, è fondata anch’essa sul senso comune: l’esperienza morale, a cui l’uomo fa riferimento per compiere il bene e il cui nucleo è che l’uomo si rende immediatamente conto che i propri rapporti con gli altri uomini sono di natura diversa da quelli con animali e cose: sono rapporti morali. Esiste una forma “volgare” dell’esperienza morale che il filosofo purifica per individuare in essa il nucleo di vere certezze morali del senso comune. Il filosofo deve mettere in luce il carattere irriducibile e originario del fatto morale (e della coscienza morale) per distinguerlo dalle abitudini e dagli obblighi sociali che vi si mescolano. A tal fine egli deve valorizzare il sentimento dell’obbligazione morale, che è un fatto di esperienza[12].

La conoscenza naturale (prefilosofica) dei valori morali non è in grado di discernere quelli veri da quelli falsi perché non procede per via scientifica, per modum cognitionis, ma per modum inclinationis o per connaturalità, in modo non concettuale né razionale, bensì affettivo, come Maritain spiega in Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale e in The Range of Reason, perché il concetto è ciò mediante cui si conosce una cosa solo nella conoscenza per via di scienza. Invece, la conoscenza per inclinazione affettiva non è chiara grazie ai concetti e ai giudizi, bensì oscura, non-sistematica, vitale. In Raison et raisons Maritain ammette ben tre forme di conoscenza per connaturalità: quella morale; quella mistica del contemplativo che coglie le cose divine in virtù della propria unione d’amore con Dio anche senza aver studiato la filosofia e la teologia; la conoscenza poetica dell’artista, che nell’intuizione o emozione creatrice acquisisce una conoscenza non-concettuale delle cose del mondo attraverso la reazione che esse suscitano nel suo inconscio o nella profondità della sua soggettività. La conoscenza mistica, frutto della grazia, in quanto sovrannaturale è l’analogato principale delle altre due, che sono, invece, naturali e tra queste ultime, come si legge in Les degrés du savoir, l’àmbito dei giudizi pratici è per eccellenza quello della conoscenza per inclinazione: sono giudizi che hanno valore intellettuale, ma che sono connessi all’intellettualità pratica, compenetrata di volere e di appetizione, sicché restano estranei al modo speculativo della scienza e della filosofia.

Secondo Covino, Maritain sbaglia nel separare la conoscenza per scienza da quella per inclinazione affettiva dei valori morali, poiché così finisce per qualificare quest’ultima come aconcettuale. Tuttavia, come può essere conoscenza ciò che sia per sua natura aconcettuale? Come può la conoscenza per connaturalità formare giudizi privi di concetti? Così la conoscenza per inclinazione «manca di un preciso fondamento epistemico e difficilmente […] può dirsi appartenente a quell’àmbito di conoscenze prefilosofiche che sono il senso comune» (p. 185). Ciò che è vissuto può anche essere compreso in modo razionale e concettuale, rimarca Covino, sia pure senza la chiarezza dell’esposizione scientifico-filosofica. Il discernimento tra il bene e il male, rileva Covino, è opera dell’intelligenza e non dell’inclinazione affettiva. Pertanto, l’inclinazione affettiva è un aiuto nel giudicare razionalmente, l’aiuto in virtù del quale diviene connaturale all’uomo giudicare rettamente del fine. Invece, sembra quasi che per Maritain la conoscenza naturale dei valori morali, in quanto si attua senza la mediazione del concetto, preceda anche il prefilosofico, col rischio di «mettere fuori gioco il riferimento extramentale, essenziale per il sistema morale propugnato da Maritain, quello dell’etica cosmico-realistica.

Mi domando se non sia possibile individuare nei testi di Maritain qualche possibilità di un’interpretazione meno negativa della sua tesi.

Si ricordi che si era detto che per Maritain la conoscenza naturale e prefilosofica della libertà e dei valori morali è il “preconscio” della vita dell’intelligenza e della ragione inteso come una conoscenza per inclinazione naturale, innestata di ragione, sicché nella conoscenza per inclinazione l’intelligenza non giudica in virtù di concetti e ragionamenti, ma per conformità alle inclinazioni della natura razionale dell’uomo, elaborando giudizi che hanno un valore implicitamente razionale. Ogni atto di pensiero, in primis il giudizio, è accompagnato da una coscienza spontanea o concomitante, espressione della riflessività interiormente vissuta, ma non concettualizzata, che è ben distinta da quella consecutiva o esplicita, che presuppone l’atto di riflessione che produce i concetti e i giudizi. La prima coscienza a poco a poco raggiunge la radice di tutte le operazioni mentali, l’io soprafenomenico, esperito oscuramente, ma in modo certo, pur senza concettualizzarlo.

«Nell’esperienza del Sé, tipicamente metafilosofica», afferma Possenti[13], «si incontra una conoscenza per connaturalità intellettuale e per modo di nescienza (cioè mediante abolizione della conoscenza concettuale e delle determinazioni che le sono proprie), che è specificamente diversa dal conoscere quale accade nella teoresi filosofica, poiché la fruizione sperimentale e oscura di quell’esperienza si situa molto lontano da ogni intuizione eidetico-giudicativa, che costituisce il modo proprio con cui si elabora la metafisica». Il fatto che si tratti di una conoscenza per inclinazione intellettuale non contrasta con le osservazioni ora esposte. Per questo ho suggerito che l’intuizione intellettiva aconcettuale possa essere intesa come metaconcettuale, ossia sovrarazionale-sovradiscorsiva, ma non irrazionale, e resti saldamente ancorata all’essere e al senso comune.

Invece, ridurrei la sua “ampia distanza” dall’intuizione eidetico-giudicativa della metafisica alla luce del modo in cui Mariatain intende l’intuizione intellettiva con cui il metafisico coglie l’esse quale atto: è slegata dai sensi e precede il ragionamento (anzi, lo eccede al pari di ogni discorso e ogni dimostrazione) e anche il concetto; tuttavia, è simultanea al giudizio esistenziale e pertanto non è in contrasto con la dottrina del senso comune, come s’è detto.

Aggiungo ora la menzione di un passo di Creative Intuition in Art and Poetry citato da Covino a p. 184: «Bisogna ammettere che nell’inconscio spirituale dell’intelletto, alla radice delle potenze, c’è, indipendentemente dal processo che tende alla conoscenza per concetti o idee astratte, qualche cosa che è preconcettuale o non concettuale e nondimeno in uno stato di attuazione intellettuale definita: perciò, non è una semplice preparazione al concetto, come la “species impressa”, ma è un germe di altra specie, che non tende verso un concetto da formare, e che è già una forma o un atto intellettivo pienamente determinato, per quanto ancora avvolto nella notte dell’inconscio spirituale. In altre parole, si ha qui una conoscenza in atto, ma non concettuale» (i corsivi sono miei).

Se si connette il contenuto del passo all’intuizione che si riferisce alla spiritualità naturale dell’intelligenza umana, che accade quando l’attività dello spirito sia tutta raccolta nel pensiero e al di sopra dei sensi e che riguarda la doppia certezza di essere nati e dell’impossibilità che la propria esistenza di spiriti pensanti abbia avuto un inizio, certezza che avevo ritenuto fondarsi sul fatto che l’intelletto agente è sempre in atto, si potrebbe identificare l’inconscio spirituale dell’intelletto, alla radice delle potenze psichiche, con l’intelletto agente e diventerebbe più chiaro il fatto che vi sia in esso qualche cosa che è preconcettuale e nondimeno in uno stato di attuazione intellettuale definita, un atto intellettivo pienamente determinato, una conoscenza in atto, ma non concettuale. È l’attività permanente, metaconcettuale, sovrarazionale e sovradiscorsiva dell’intelletto agente. Ciò permette di connettere a quest’ultimo sia tutte le funzioni del “preconscio” intellettivo descritte sia l’intuizione intellettiva dell’atto d’essere del metafisico.

Resta il problema del fatto che a questo “preconscio” sia connessa la conoscenza naturale (prefilosofica) dei valori morali per inclinazione affettiva, che non è chiara grazie ai concetti e ai giudizi, bensì oscura, non-sistematica, vitale. Come ipotesi risolutiva di quest’ultimo aspetto critico mi richiamo al fatto che il “preconscio” intellettivo, che ho identificato con l’intelletto agente, sia definito da Maritain come “radice delle potenze psichiche”. Infatti, riecheggia l’henosis dionisiana, scaturente dalla rielaborazione con categorie neoplatoniche dell’antropologia di san Paolo, “tripartita” in corpo, anima e intelletto[14]. In Dionigi l’henosis designa il nucleo dell’anima come «unione» e in Nomi divini, VII 1,28-32, la concepisce come quella capacità per cui il nostro intelletto è in contatto con ciò che è al di sopra di sé, ossia al di sopra delle realtà intelligibili, suo specifico oggetto di pensiero. Dionigi denomina unione il nucleo essenziale dell’anima anche perché esso è l’unificazione o sintesi di tutte le facoltà afferenti alle sfere conoscitiva, volitiva, affettiva e teologale. L’unione, si legge in Mistica teologia, I 1, in colui che si è distaccato sia dalle sensazioni sia dagli atti intellettivi, si protende «con nescienza all’unificazione, nella misura del conseguibile, con ciò che è al di sopra di ogni essenza e conoscenza», ossia essendo estaticamente elevata alla conoscenza di Dio mediante la nescienza (nell’oscurità della densa nube divina) in virtù della sinergia con la grazia. Infatti, la teologia mistica apofatica dionisiana culmina in un’esperienza spirituale, «in un’intelligenza suprema che è conoscenza amorosa» in quanto coglie che Dio è inconoscibile nella trascendenza della sua essenza e nel contempo lo sperimenta affettivamente nella prossimità della sua esistenza colta nella sua presenza nell’interiorità dell’uomo[15].

In De sapientia, I 10-27, Cusano afferma che la sapienza è la vita spirituale dell’intelletto umano, che in Cusano ha l’ampio significato dell’unione dionisiana. Infatti, ogni intelletto desidera essere; il suo essere è vivere; il suo vivere è pensare intellettivamente, che è nutrirsi di sapienza. La sapienza è ciò che ha “sapore” (sulla base del significato del verbo latino sapere). Quanti parlano della sapienza con gusto sono coloro che sanno che non è nessuna di tutte le realtà finite e create. Il dirigersi verso la Sapienza (divina) mediante l’intelletto è anche un “assaporare”, o meglio “odorare con gusto” il “profumo” che essa emana, poiché non la si può effettivamente “gustare”. L’inaccessibilità della Sapienza divina infinita alla conoscenza e all’appagamento completo della creatura finita si traduce nella sua incomprensibilità. La visione di Dio da parte dell’uomo è dotta ignoranza – l’intelletto umano intende Dio senza comprenderlo (se conoscesse Dio e se stesso com’è nel pensiero di Dio, sarebbe Dio e non una creatura) –, ma tale nescienza è desiderabile, poiché è come se qualcuno possedesse il tesoro della propria vita e sapesse che è incalcolabile, inesauribile: non gioirebbe mai così tanto nell’amare come quando constatasse che l’amabilità della realtà amata non è quantificabile. In altri termini, Dio non è riducibile ai concetti finiti umani e se si rinuncia a comprenderlo concettualmente l’intelletto che è abituato a essere dotto coi concetti diventa ignorante; però si lascia inabitare per grazia dalla Sapienza divina, e quindi questa sua ignoranza concettuale è dotta.

Espandendo la concezione aristotelico-tomista dell’intelletto agente, che Maritain condivide, in direzione della concezione cusaniana dell’intelletto si conseguirebbe una nozione di conoscenza intellettiva metaconcettuale per inclinazione che unirebbe la sfera affettiva a quella intellettiva invece di considerarle come mutuamente escludentisi. Siccome la concezione maritainiana dell’intuizione intellettiva dell’esse rivela una certa affinità con l’intuizione intellettiva metaconcettuale dell’essere affermata dai neoplatonici cristiani (penso in particolare ancora a Cusano), a sua volta convergente con l’idea tomista dell’ente quale oggetto adeguato dell’intelletto umano, e alla luce del carattere esistenziale dell’unione dionisiana, si concilierebbe anche l’aspetto di intuizione metaconcettuale con il carattere di giudizio esistenziale tramite cui essa si produce e perciò con il senso comune.

Concludendo, ho cercato di proporre un’ipotesi interpretativa di alcuni aspetti qualificati da Covino come problematici nel pensiero di Maritain che possano, andando con Maritain oltre Maritain, sviscerare le potenzialità positive della sua speculazione. Nondimeno, non posso non concordare con Covino sulla presenza, nella concezione maritainiana della conoscenza per inclinazione, del preconscio spirituale e del loro nesso col senso comune, di alcune oscillazioni e ambiguità che rendono in parte aporetica la sua visione. Nell’ottica dell’espansione rivalutativa che ho proposto v’è un aspetto del suo pensiero che dovrebbe essere comunque “rettificato”: nel lungo passo tratto dall’opera De Bergson à Thomas d’Aquin citato da Covino a p. 96, relativo alla conoscenza naturale dell’immortalità dell’anima, il Nostro afferma che ci sono «cose che la nostra intelligenza conosce prima di pensarle». Al contrario, noi possiamo pensare infinite cose senza conoscerle, ossia comprenderle, poiché avendo l’essere come oggetto adeguato, l’atto di pensiero dell’intelletto agente ha un’estensione corrispondente alla totalità (la prospettiva dell’essere è quella dell’intero), ma non ha una comprensione infinita (non comprende-conosce tutto, ogni singolo ente nella sua fibra più intima). Nel caso di Dio, come dice Cusano, il nostro intelletto lo pensa-intende senza conoscerlo-comprenderlo. Il pensare-intendere può essere metaconcettuale in quanto antecede il comprendere, non viceversa. Il pensare in quanto intendere metaconcettuale è un “indicare” che, a mio parere, è conforme al realismo metafisico e alla dottrina del senso comune, costituito di giudizi “indicali”.

Quando si studiano con competenza e acribia filosofi degni di questo nome – come nel caso del presente saggio su Maritain – ogni pagina diviene una miniera di spunti di riflessione e di teoresi.

Matteo Andolfo


Note al testo

[1] «Possiamo dire, citando ancora una volta Antonio Livi, che è proprio il riconoscimento del senso comune come referente del discorso filosofico a spiegare “la perenne attualità delle proposte teoretiche giunte fino a noi dai grandi sistemi metafisici del passato”» (p. 38).

[2] Cfr. V. Possenti, Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Armando, Roma 2004, pp. 447-450: per Maritain l’esperienza intellettiva del Sé è una conoscenza sperimentale, ma oscura dell’esistere sostanziale dell’anima mediante lo spogliamento radicale da ogni oggetto e da ogni atto. Nell’esperienza mistico-naturale in cui entra, il soggetto non conosce l’essenza dell’anima (conoscibile solo indirettamente per riflessione sui propri atti), bensì la sua esistenza radicale, ma per via negativa, ossia procedendo in senso contrario all’inclinazione naturale delle facoltà verso l’esterno.

[3] E non quale proprietà predicamentale (le dieci categorie) o trascendentale (bontà unità, verità, bellezza).

[4] Dal passo di Approches sans entraves, vol. II, citato da Covino a p. 205.

[5] Dio è comunque colto in obliquo attraverso un suo effetto, l’io pensante creato, mentre l’uomo desidera naturalmente conoscere Dio nella sua essenza, ma non può soddisfarlo, perché è una conoscenza eccedente i suoi limiti naturali di creatura. Nondimeno, siccome è necessario che un desiderio che proviene dalla natura sia realizzabile, dev’essere possibile un ordine sovrannaturale che renda l’uomo capace di appagarlo. Qui s’innesta in Maritain il tema della fede e della visione beatifica. Al rapporto tra senso comune e fede cristiana è dedicata la prima delle due appendici con cui termina il saggio di Covino.

[6] J. Maritain, Approches de Dieu, p. 94 dell’edizione italiana, passo citato da Covino a p. 167.

[7] È un errore analogo a quello di certe scuole buddhiste. Per il buddhismo del grande veicolo (secc. I a.C. ss.) al di là dell’effimera apparenza illusoria di ogni individuo vi è quell’Identità assoluta che è il Buddha o la Buddhità. Nell’alveo di questo buddhismo nasce il veicolo di diamante(secc. V-VI d.C. ss.), secondo cui l’uomo la cui mente consegua la condizione di “pensiero del risveglio” si identifica all’essenza della coscienza e fonte di ogni realtà, l’Essere adamantino stesso, unità fondamentale e natura ultima eterna della molteplicità di tutto l’esistente in divenire. L’ascesa al risveglio coinvolge tutto l’uomo: gli stati di veglia, sogno, sonno profondo ecc.; le facoltà della psiche (sensazione, volizione ecc.) e le passioni (invidia, attaccamento ecc.); i costituenti materiali del corpo (i quattro elementi fisici e l’etere), compresi gli organi di senso e i loro oggetti (suono, sapore ecc.); tutte queste componenti umane si estinguono in quanto sono colte nel loro carattere relativo e pertanto non indipendente e lasciano trasparire l’Essere adamantino che ne è la natura ultima. L’inversione del divenire e il suo superamento realizzati interiormente con lo yoga anticipano ciò che accadrà realmente con la morte al corpo umano, ossia il riassorbimento degli elementi grossolani nelle loro matrici sottili e ultimativamente nell’Unità assoluta. In tal modo l’iniziato vive una morte iniziatica ed è già rinato alla vera vita prima di morire davvero.

[8] M. Andolfo, La moderna logica aletica tra realismo tomistico e interiorità neoplatonica. “Noocentrismo” occidentale e “verbocentrismo” orientale a confronto, postfazione di A. Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2018, pp. 15-43.

[9] Come ho documentato in M. Andolfo, L’Uno e il Tutto. La sapienza egizia presso i Greci, presentazione di M. Fattal, Edizioni Ares, Milano 2008, passim; Id., La moderna logica aletica tra realismo tomistico e interiorità neoplatonica, cit.

[10] M. Andolfo, Verità e contemplazione: la fecondità teoretica della logica aletica, in G. Covino-F. Renzi (ed.), Il sistema di Logica Aletica, Leonardo da Vinci, Roma 2020, pp. 85-109: pp. 98-100.

[11] A mio avviso, in questo ragionamento l’intelletto in questione è quello possibile, vera e propria facoltà o potenza dell’anima.

[12] Siccome per il tomismo gli atti sono specificati dagli oggetti, la bontà morale dell’atto dipende da quella dell’oggetto. Tommaso fonda la bontà morale su quella ontologica, sul bene metafisico, ma particolarizzato nella linea morale. Ciò implica che il bene morale non sia trascendentale, ma un analogato particolare del bene metafisico e la particolarizzazione, per Maritain, non è meramente logica, bensì suppone l’esperienza morale.

[13] V. Possenti, Nichilismo e metafisica, cit., p. 448.

[14] Cfr. M. Andolfo, Il contributo del neoplatonismo al quadro argomentativo anagogico in filosofia e teologia, in «Divus Thomas», 119/1 (2016), pp. 180-218: pp. 183-198.

[15] In proposito rinvio a M. Andolfo, La spiritualità «esicasta» dell’Oriente cristiano (Conversione all’interiorità), in «Studi cattolici», 698 (2019), pp. 252-259.


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