Alessandro Beghini è laureato in Economia e docente di Discipline giuridiche ed economiche. Ha ottenuto la specializzazione in Economia e Politiche dell’Unione europea presso l’Università di Lovanio e di Padova ed ha svolto un’esperienza lavorativa presso le Istituzioni comunitarie a Bruxelles. Ha frequentato i Corsi Istituzionali in Filosofia e Teologia presso la Pontificia Università Lateranense a Roma e si è specializzato in Teologia spirituale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli – Sez. San Luigi. Il suo principale interesse è relativo alla ricerca su temi teologico-spirituali, supportati e confortati da una solida base logico-epistemica grazie alla filosofia del senso comune, i cui riferimenti principali sono alla filosofia ed alla teologia di Tommaso d’Aquino nei confronti del quale nutre una sintonia profonda per la ricerca della verità. Ha partecipato attivamente a seminari e convegni sulla Teologia spirituale e mistica tra cui tutte le edizioni del Convegno internazionale di mistica cristiana svoltesi ad Assisi fin dal 2013. Al momento è impegnato nella ricerca su San Tommaso d’Aquino quale maestro spirituale e mistico. È membro di ISCA –International science and commonsense association – e collabora con la rivista Sensus communis. Nel 2015 ha pubblicato un saggio intitolato Contemplazione e conoscenza mistica. La dottrina di Tommaso d’Aquino nella Summa contra Gentiles (Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma) in cui mette in evidenza, in una singolare ottica epistemica, un percorso ben delineato di Teologia mistica all’interno di una delle opere più significative, per sapienza filosofica e teologica, di Tommaso d’Aquino. Scrive, inoltre, per la Collana di Spiritualità e Formazione Monastica (Mamma Editori) ed è Fondatore e attuale Presidente di Doctor Humanitatis – sezione di Verona della Società Internazionale Tommaso d’Aquino (www.doctorhumanitatis.eu).
Caro professor Beghini, nei nostri incontri precedenti abbiamo affrontato diversi temi filosofici e teologici, tutti di estremo interesse. Oggi vorrei affrontare un tema a Lei – studioso di scienze economiche – molto caro: il tema della proprietà dei beni. Può introdurci questo argomento e la linea che Lei segue?
Nell’ambito della teoria economica, il tema della proprietà dei beni e del loro uso rappresenta sicuramente da sempre una delle questioni più discusse. Esso, infatti, per l’economia, definita la “triste scienza”, pone una serie di interrogativi non solo dal punto di vista meramente economico, ma anche da quello di altre discipline, in primis il diritto e l’etica.
Ora, come spiega Tommaso d’Aquino, il possesso (proprietà) dei beni materiali è un’esigenza primaria della natura umana. L’uomo ha bisogno di un numero cospicuo di beni materiali per vivere e sostentarsi; ha quindi bisogno di cibo, indumenti, di una casa, di un territorio. Mentre, su questo punto, c’è unanime consenso, rispetto a come si dovesse intendere la proprietà dei beni storicamente si sono registrate numerose divergenze; ovvero, sinteticamente, se la proprietà dei beni possa essere privata o meno.
Da un punto di vista della dottrina teologica cristiana è fin dal Libro della Genesi (1, 28) dell’A.T. che troviamo l’importanza della proprietà dei beni allorquando Dio affida all’uomo la creazione e, in particolare, il dominio della terra col compito di assoggettarla e popolarla. La mancata proprietà di beni, perlomeno quelli strettamente necessari alla sopravvivenza, è vista così, sempre nell’A.T., come una sorta di maledizione, di sterilità improduttiva originata da condanna divina per una qualche condizione peccaminosa. Venendo al N.T. quando Gesù pronuncia parole di condanna nei confronti dei ricchi, ciò che egli vuole colpire non è tanto la ricchezza quanto l’egoismo, la cupidigia, l’avaria, l’assenza di amore verso il prossimo; e intende d’altro canto ribadire l’importanza dell’amore che porta alla condivisione e alla solidarietà.
Ciò vuol dire che non è tanto da evitare la proprietà dei beni, quanto quella ricchezza, smisurata o minima che sia, che fa perdere di vista la vera ricchezza, ovvero la salvezza della propria anima e il raggiungimento della vita eterna, e che fa richiudere l’uomo in se stesso alla ricerca spasmodica di altra ricchezza materiale e peritura.
Proprio a partire da questi aspetti e basandosi principalmente su vari passaggi biblici, numerosi autorevoli autori e anche Padri della Chiesa, si sono cimentati nell’offrire riflessioni e approfondimenti di carattere economico relativi, in particolar modo, alla proprietà dei beni e all’uso di questi. Il discorso economico allora diventa, per così dire, una metafora della vita dell’uomo e del suo destino, in quanto l’uomo scopre fin dai primi momenti della sua esistenza di trovarsi in uno stato di bisogno a cui deve corrispondere dei beni per trovare soddisfazione. Beni innanzitutto materiali per la propria sopravvivenza fisica e, successivamente, beni spirituali per la propria felicità interiore.
Alla luce della dottrina tommasiana, come bisogna intendere la proprietà e come bisogna usare i beni che si possiedono?
Tommaso d’Aquino è considerato uno dei pensatori più influenti nel mondo medievale, ma come noto, non è un economista. Egli è piuttosto uno dei più importanti teologi e filosofi della tradizione scolastica e del pensiero cattolico. Non ha mai pubblicato un testo di economia, ma è stato comunque importante per lo sviluppo del pensiero economico, specialmente sui temi del giusto prezzo e dell’usura.
Ciò che occorre sottolineare è che si è interessato di temi economici, potremmo dire, in “maniera incidentale” trattando di temi morali e politici e, in senso più ampio, antropologici. In particolare, per comprendere bene l’Aquinate occorre sempre avere sullo sfondo quel sottile filo rosso che lega i contenuti delle sue opere: la ricerca della vera felicità o beatitudine di cui solo in parte si può godere in questa vita e di cui solo nell’altra vita si potrà godere in pienezza. Per questo – come dice Langholm – «per introdurre nel migliore dei modi e in poche parole alla filosofia economica di Tommaso si può forse dire che egli spiegò e valutò i fenomeni sociali nel grande piano divino del mondo e dell’uomo. Questo è vero per l’attività economica e le sue istituzioni, tra cui l’istituzione base della proprietà privata, ed è vero per il soggetto fondamentale dell’economia, cioè la ricchezza materiale».
In quest’ottica, potrebbe sembrare che la ricchezza materiale non sia importante in quanto ciò che conta davvero è solamente la beatitudine spirituale. Tuttavia – spiega ancora l’autore che ho appena citato – «esiste una beatitudine meno perfetta ottenibile dall’uomo nella sua esistenza temporale quale ricompensa della virtù (…) e poiché l’uomo dipende per la propria preservazione da cose materiali, la ricchezza materiale è in certa misura necessaria e desiderabile in senso strumentale».
Tuttavia, la ricchezza materiale senza un diritto alla proprietà privata non può esistere: per tale ragione, la proprietà privata, come diritto positivo aggiunto, senza contrapporsi alla legge naturale, è stata introdotta dalla ragione a vantaggio della società umana». Questo perché, diversamente da piante ed animali, soggette alle ferree regole di natura imposte dal Creatore, all’uomo è stato dato il dominio sulle cose create, ma per uno scopo ben preciso: che servano per la ricerca delle virtù e della beatitudine.
Il principale problema che l’uomo deve fronteggiare riguardo alla proprietà dei beni è che una ricchezza eccessiva potrebbe ostacolare le opere di virtù. La ricchezza potrebbe condurre facilmente all’avarizia.
Ecco dunque il rischio sottolineato dall’Aquinate: porre il proprio fine in una ricerca smodata di ricchezze terrene perdendo di vista il vero Bene e la beatitudine perfetta.
Come evitare questa situazione?
Potremmo suddividere la risposta di Tommaso d’Aquino in due parti: una risposta fornita ai religiosi, per i quali è richiesta povertà volontaria, cui abbiamo accennato in un precedente intervento ed una relativa alla proprietà e all’uso dei beni per i non religiosi. Mi concentrerò su questa seconda parte, tenendo presente che l’obiettivo finale è la perfezione cristiana per giungere alla salvezza eterna.
Economia che nel suo significato più elevato non è un puro esercizio d’affari, bensì un’attività che ha a che fare con la sottomissione del creato all’uomo e, nel far questo, lo carica di un forte significato morale, sia filosofico che teologico. Per cogliere e capire meglio questo va detto che il tema della proprietà e dell’uso dei beni è paradigmatico, in quanto i beni e le ricchezze che sono necessari per l’uomo, per il bene della virtù e per raggiungere il fine della sopravvivenza, e per aiutare gli altri, derivano la loro bontà dal fine stesso. Perciò – spiega Tommaso – è necessario che le ricchezze siano un bene per l’uomo; ma non principale, bensì quasi secondario: perché il fine è un bene per se stesso, mentre le altre cose lo sono in quanto sono ordinate al fine».
Da queste parole, l’Aquinate mostra quale sia la risposta alla domanda “se i beni siano mezzi o fine”: «le virtù – dice il Nostro nella Summa contra Gentiles – sono i beni supremi dell’uomo, mentre le ricchezze sono dei beni minimi. Ora, le cose ordinate al fine ricevono la loro misura di bontà secondo la connessione col fine. Le ricchezze quindi in tanto sono buone, in quanto giovano all’esercizio della virtù: ma se eccedono questa norma, così da impedire tale esercizio, non possono più considerarsi tra le cose buone, bensì tra quelle cattive». Ecco dunque spiegato anche l’importanza di possedere i beni o di non possederli: potremmo affermare che non esiste una regola univoca perché «capita che per alcuni è bene avere le ricchezze, perché essi se ne servono per la virtù; per altri è un male possederle, perché da esse sono distolti dalla virtù, o per la troppa sollecitudine, o per il troppo affetto per esse, ovvero per la superbia che da esse deriva».
La questione 66 della Somma teologica, Secunda Secundae, in particolare gli articoli 1 e 2, affrontano il tema di cui ha appena parlato. Potrebbe approfondire questo testo della Summa?
In estrema sintesi ho affrontato il tema della proprietà dei beni facendo riferimento ad un capitolo della Summa contra Gentiles. Esistono, in realtà, altri testi come il De regimine principum, il Commento all’Etica nicomachea e la Lettera alla Duchessa di Brabante in cui l’Aquinate affronta la questione economica e della proprietà dei beni, ma quello che Lei ha citato – la questione 66 della Somma teologica, Secunda Secundae – è uno dei luoghi più importanti.
In questi due articoli della questione 66, se è pur vero che Tommaso tratta del tema della proprietà in maniera abbastanza significativa e completa, egli non lo fa perché quello è il tema di suo interesse principale, ma in maniera accessoria per «sgombrare – dice Tozzi – il passo ad una possibile obiezione che poteva essere sollevata nella ben diversa casistica di comportamenti moralmente leciti o illeciti nei riguardi delle persone e delle cose».
La questione 66 è, infatti, dedicata al furto e alla rapina, laddove egli la introduce scrivendo di trattare i peccati contrari alla giustizia che danneggiano il prossimo negli averi. Per poter affrontare la liceità o meno del furto e della rapina, Tommaso però deve parlare della proprietà e definirne così il campo di indagine.
Nell’art. 1 esamina la questione piuttosto in astratto e solo nell’art. 2 affronta completamente il problema centrale, cioè quello della proprietà individuale. Come detto, nella dottrina tomistica della proprietà, il dominio sui beni esterni, concesso all’uomo da Dio, è subordinato necessariamente al fine, dal quale deriva, la necessità razionale e sociale del buon uso. Per questo, come espresso nell’art. 1, «le cose esterne possono essere considerate sotto due aspetti. Primo, nella loro natura: la quale non sottostà al potere dell’uomo, ma solo a quello di Dio, al cui cenno tutti gli esseri ubbidiscono. Secondo, nell’uso che di esse si può fare. E sotto questo aspetto l’uomo ha il dominio naturale sulle cose esterne: poiché egli può usarne a proprio vantaggio mediante l’intelletto e la volontà, considerandole come fatte per sé; gli esseri meno perfetti, infatti, sono per quelli più perfetti». Il dominio sostiene, pertanto, non riguarda il fine ma è un mezzo per conseguire un fine.
Egli afferma così, in primo luogo, la destinazione universale dei beni della terra: essi sono ordinati al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli uomini. La suddivisione dei beni è un fenomeno posteriore e trova la sua giustificazione non nella legge naturale, bensì in un diritto positivo sovraggiunto che non contrasta con la legge naturale».
Questa, potremmo dire, è la premessa al secondo aspetto, cioè l’uso dei beni, che il nostro autore sottolinea. L’uso – spiega Arias – è il dominio in quanto dalla potestà passa all’atto; è l’attuazione concreta del dominio che si può avere dei beni a proprio vantaggio e questo uso, afferma, è ciò che rende l’uomo simile a Dio. In sintesi il Dottore Angelico afferma che «Dio ha il dominio radicale di tutte le cose. Ma egli stesso ha ordinato, secondo la sua provvidenza, che certe cose servano al sostentamento corporale dell’uomo. E così l’uomo ha il dominio naturale su di esse per il potere che ha di servirsene». Proprio per questo «il ricco della parabola viene biasimato per il fatto che riteneva radicalmente suoi i beni esterni, come se non li avesse ricevuti da altri, cioè da Dio».
Essendo, quindi, il dominio assoluto dei beni di Dio, all’uomo non può che esserne affidato un dominio ed un uso limitati. Da ciò deriva che di grande importanza nella visione tomistica della proprietà sia la distinzione tra diritto di proprietà ed uso dei beni.
Venendo all’art. 2, la domanda che si pone l’Aquinate è se sia lecito o meno possedere dei beni, ovvero se sia lecito o meno la proprietà privata. In parte abbiamo già risposto, ma approfondendo la questione, l’Aquinate, a sostegno della proprietà privata, afferma che rispetto ai beni esterni l’uomo ha due facoltà: la facoltà di procurarli e di amministrarli ed il loro uso.
Relativamente alla prima facoltà egli afferma che non solo è lecito possedere dei beni ma altresì necessario per tre ragioni: «Primo, perché ciascuno è più sollecito nel procurare ciò che appartiene a lui esclusivamente che non quanto appartiene a tutti, o a più persone (…). Secondo, perché le cose umane si svolgono con più ordine se ciascuno ha il compito di provvedere a una certa cosa mediante la propria cura personale, mentre ci sarebbe disordine se tutti indistintamente provvedessero a ogni singola cosa. Terzo, perché così è più garantita la pace tra gli uomini, accontentandosi ciascuno delle sue cose. Infatti, vediamo che tra coloro che possiedono qualcosa in comune spesso nascono contese». Ci spiega così l’Aquinate che proprio sulla base di questa prima facoltà di potestas procurandi et dispensandi, e proprio a causa di essa, è non solo lecita la proprietà, ma anzi necessaria. Con riguardo alla seconda facoltà egli afferma che «l’altra facoltà che ha l’uomo sulle cose esterne è il loro uso. Ora, da questo lato l’uomo non deve considerare le cose come esclusivamente proprie, ma come comuni: in modo cioè da metterle facilmente a disposizione nelle altrui necessità».
Questo insegnamento, avvalorato dal testo paolino della 1° lettera a Timoteo, mette una sorta di limite al diritto di proprietà; limite che però deve essere posto dal diritto positivo, per convenzione umana. Per questo, Tommaso può affermare con sicurezza che «il possesso privato non è contro il diritto naturale, ma è un suo sviluppo dovuto alla ragione umana». Interessante al riguardo l’esempio che porta su chi arriva per primo a teatro che, parimenti al ricco, non compie nulla di illecito nell’essere primo (o aver maggior ricchezza, nel caso del ricco), ma che invece «pecca se irragionevolmente ne impedisce l’uso agli altri».
Concludendo possiamo dire che a Tommaso in fondo sta a cuore evidenziare, qui come altrove, quanto in fondo esposto dalla Bibbia, ovvero che – come dice sinteticamente Tozzi – «i beni siano divisi tra i privati (…); l’uso di alcune cose sia comune (…); la disponibilità dei beni dei loro proprietari consenta di comunicarli ad altri». Come era tipico nel suo stile, egli ha cercato una giusta via media. E se è vero che l’economia è la scienza che si occupa di provvedere al futuro, in realtà, appare chiaro che, secondo Tommaso, il problema economico più importante, in fondo non è un problema economico. Sembra paradossale, ma l’economia, in tutta la sua forza originaria, è piuttosto un “problema religioso”.
Intervista a cura di Giovanni Covino