Filippo Bergonzoni, laureato in Filosofia presso l’Università di Bologna e dottore di ricerca presso l’Università di Verona, è docente di filosofia e storia al liceo “Da Vinci” di Treviso. Diplomato in pianoforte presso il Conservatorio “B. Maderna” di Cesena, ha pubblicato: Decreazione. Mistica e filosofia in Simone Weil (Diogene Multimedia, Bologna 2016), La filosofia della musica in A. Schopenhauer (in “Divus Thomas”, Bologna 2008); L’estetica di S. Tommaso d’Aquino nell’interpretazione di U. Eco (in “Sacra Doctrina”, Bologna 2006), L’artista dell’essere. Arte e bellezza nel pensiero di Antonio Rosmini (Orthotes, Napoli-Salerno 2020).
Prof. Bergonzoni, innanzitutto volevo ringraziarLa per questa intervista che ci permetterà senza dubbio di conoscere un po’ più da vicino una figura tanto importante quanto dimenticata della storia del pensiero moderno: Antonio Rosmini. Come prima cosa, Le chiederei di tracciare un breve profilo di questa figura del XIX secolo.
Per prima cosa grazie a Lei per avermi offerto questa occasione di parlare di una figura che mi sta a cuore: so per esperienza diretta di insegnamento che Rosmini non si studia quasi mai nei licei italiani. Eppure è un peccato, perché Antonio Rosmini nasce a Rovereto nel 1797, appena un anno prima di Leopardi – autore che, al contrario, i nostri studenti ben conoscono – e mi piace pensare che con quest’altro gigante della cultura condivida le stesse domande, la stessa profondità, le stesse inquietudini proprie del loro tempo e, in fondo, del cuore di ogni uomo. Certamente le esperienze di vita e le risposte divergono: Rosmini, a differenza del poeta di Recanati, ebbe un’infanzia serena, ricca di affetti e stimoli culturali nella casa dei genitori, dove venne educato alla letteratura, alla poesia, alla musica. Ma fu la filosofia il suo vero amore, una disciplina che da giovanissimo cominciò a coltivare e ad approfondire in piena sintonia con una vocazione che si faceva sempre più chiara: nel 1821 venne ordinato sacerdote e addirittura, nel 1828, ebbe l’ispirazione al Sacro Monte Calvario di Domodossola di fondare un nuovo ordine religioso, tutt’ora esistente, l’Istituto della Carità. Nel 1830 pubblica il Nuovo saggio sull’origine delle idee, un libro che già dal titolo indica un tema centrale per il pensiero moderno, e impone il nome dell’autore, poco più che trentenne, come nuovo astro della filosofia italiana. Fu l’inizio di una produzione impressionante di opere, che spaziavano dalla gnoseologia alla metafisica, dall’etica al diritto, dalla politica alla teologia e alla spiritualità. Rosmini non fu però solo uomo di pensiero ma anche d’azione: nel 1848 ricevette una delicatissima missione diplomatica da parte del governo piemontese, quella di proporre a papa Pio IX un concordato tra la lo Stato sabaudo e la Chiesa cattolica. Il filosofo venne scelto proprio per la sua autorevolezza, ma il progetto fallì in seguito alle drammatiche vicende del ’48 quando il Papa, seguito dallo stesso filosofo, dovette fuggire a Gaeta. Rosmini morirà nel 1855, a soli 58 anni, nella sua villa di Stresa, che aveva ereditato qualche anno prima da una ricca signora del paese e che ne aveva fatto un importante salotto culturale, frequentato da personalità di rilievo della cultura e della politica. Negli ultimi istanti accanto a lui c’era Alessandro Manzoni, l’amico sincero di una vita, al quale Rosmini lasciò il suo testamento spirituale composto di soli tre verbi: “Adorare, godere, tacere”.
Qual è – secondo Lei – l’aspetto più originale della filosofia di Rosmini? E perché?
Sicuramente l’aspetto più originale del suo pensiero è quello di compiere una sintesi felice tra alcune tematiche tipiche della tradizione classica di ispirazione cristiana, e un’impostazione moderna, attenta alle esigenza del soggetto. Nel suo pensiero vengono argomentate le posizioni irrinunciabili di una filosofia cristiana (su Dio, sulla creazione, sull’intelligenza umana) ma partendo sempre dall’uomo, dalle sue facoltà conoscitive, in uno spirito di dialogo e di apertura critica con il proprio tempo. Basti pensare all’ “idea dell’essere”, vero architrave concettuale del suo pensiero, quella prima idea universale e indeterminata che fonda l’intelligenza dell’uomo: da una parte questa idea può far pensare ad un a priori conoscitivo e ad un metodo d’indagine che risente della lezione kantiana, dall’altra ricorda invece il lumen mentis di cui parlava Agostino, che permette la conoscenza degli intelligibili e rimanda alla sua origine divina.
Il Roveretano, pertanto, riesce a porsi in un dialogo franco con gli indirizzi filosofici prevalenti nel suo tempo – il kantismo, il romanticismo, l’idealismo tedesco – ne acquisisce in parte il linguaggio e la sensibilità, ma per ritrovare e comunicare le verità della philosophia perennis in modo critico e non dogmatico, certo che la Verità non ne esca danneggiata, ma al contrario rafforzata e rinvigorita dal dialogo con i suoi interlocutori.
Questo modo di comunicare, discorsivo, analitico, talvolta ricco di ripetizioni che vogliono accompagnare il lettore passo passo, persuase molti dei suoi contemporanei – a partire dal già ricordato Alessandro Manzoni – e penso possa essere affascinante anche per il lettore contemporaneo che, in fondo, di quella mentalità moderna è figlio.
Com’è noto, con un decreto del 1887, Post Obitum, firmato da Leone XIII, il Sant’Uffizio condannò come «non conformi alla verità cattolica», 40 proposizioni contenute nelle opere di Rosmini. Nel 2001, Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede emanò il documento Nota ai Decreti dottrinali sul Rev.do sac. Antonio Rosmini Serbati. Ci può parlare di questo percorso di “riabilitazione”?
La domanda è complessa perché riguarda la cosiddetta “questione rosminiana”. Intanto una premessa: già nel 1849, vivente il filosofo, due sue opere, Le cinque piaghe della Santa Chiesa e La costituzione civile secondo la giustizia sociale erano state messe all’Indice. Erano gli anni difficili del ‘48 italiano, il pensiero di Rosmini sembrava eccessivamente “liberale” e accondiscendente con il processo risorgimentale. Ma in un decreto del 1854, un anno prima della sua morte, le opere del Roveretano venivano prosciolte da ogni accusa di eresia e di errore. Poi giungiamo al fatidico 1887 con il decreto da Lei ricordato (reso pubblico l’anno successivo), il Post obitum, che estrapolava 40 proposizione dalle opere del filosofo, fuori dal loro contesto, dichiarandole “non consone alla verità cattolica”. I due Decreti presentavano, nell’affrontare il pensiero dello stesso autore, due soluzioni opposte: ecco sorgere la “questione rosminiana”.
In estrema sintesi, ciò che faceva problema nel pensiero di Rosmini era la sua apparente divergenza da San Tommaso. Parlando di “idea dell’essere” egli sembrava riconoscere un elemento trascendentale nel pensiero umano, istituendo una pericolosa vicinanza col pensiero di Kant, incompatibile con l’aristotelismo di Tommaso, per cui ogni conoscenza comincia dai sensi. Da qui le più disparate critiche di soggettivismo, panteismo, coscienzialismo o “ontologismo”, ossia quella posizione per cui la mente umana ha una conoscenza intuitiva e diretta dell’Essere assoluto. In realtà, nel corso del Novecento, gli interpreti più acuti e attenti hanno abbondantemente dimostrato, basandosi sui testi, che l’idea dell’essere non è Dio, ma è divino, un’appartenenza divina che rimanda alla nostra Origine senza confondere il piano naturale con quello soprannaturale. Tra questi interpreti non si può non citare almeno il filosofo Michele Federico Sciacca, che ha dato un contributo fondamentale nel ricostruire l’autentico pensiero del Roveretano di fronte ad interpretazioni come quella di Gentile che, seppur brillantemente, tendevano a ridurre Rosmini al “Kant italiano”. Questo poderoso sforzo interpretativo, protrattosi per tutto il XX secolo, ha mostrato che, se non nella lettera, nello spirito di fondo le filosofie di Tommaso e di Rosmini non sono affatto incompatibili, ma sono al contrario due luminosi esempi di feconda armonia tra fides e ratio.
Infine, mi piace ricordare che nel 2011 un numero monografico di “Divus Thomas”, rivista dei padri domenicani di Bologna, si intitolava significativamente Tommaso e Rosmini: il sapere dell’uomo e di Dio fra due epoche. In essa studiosi di diversa estrazione, di comune intento, indicavano nei due grandi filosofi due preziosi modelli di pensiero da cui l’uomo d’oggi può attingere a piene mani.
Di recente ha pubblicato un volume intitolato L’artista dell’essere. Arte e bellezza nel pensiero di Antonio Rosmini. Potrebbe dirci qual è la tesi di fondo di questo suo lavoro?
Nel mio lavoro ho cercato di ricostruire un aspetto poco considerato dalla letteratura critica sul nostro Autore, ossia il suo pensiero riguardante l’arte e la bellezza. Si tratta di una tematica che percorre, seppur con momenti alterni, tutta la sua produzione letteraria, dal giovanile saggio Sull’idillio del 1826, fino alla Teosofia, il capolavoro speculativo che egli lasciò incompiuto nel 1855. Già il saggio del ‘26 è un piccolo gioiello in cui un Rosmini non ancora trentenne prende posizione nel dibattito, allora vivissimo, tra “classici” e “romantici”, propone un nuovo modello di poesia cristiana, si confronta con autori come Schiller, Schlegel, Manzoni. Queste feconde idee vengono a poco a poco precisate nel corso degli anni, fino a giungere ad una loro sistematizzazione in un denso capitolo del terzo libro della Teosofia. Lì la bellezza viene definita come una relazione che si instaura tra un oggetto contemplato e la mente umana. La bellezza, pertanto, non ha un carattere oggettivistico, non dipende solo dalle proporzioni dell’oggetto, ma non dipende neppur soltanto dal “libero gioco” delle facoltà conoscitive, come riteneva Kant: essa risiede piuttosto nella relazione tra soggetto e oggetto, in cui la mente umana può anche comparare l’archetipo dell’oggetto contemplato. Ancora una volta si intravede, in questa tesi, un esempio di quella sintesi felice tra pensiero classico e moderno in cui risiede, a mio giudizio, il tratto più autentico del filosofo.
Per concludere: qual è – secondo Lei – la forza del pensiero di Rosmini e quale oggi la sua attualità?
Al di là del linguaggio talvolta complesso, Rosmini con la sua “idea dell’essere” – perché è questa, in fondo, la vera posta in gioco del suo pensiero – ci dice una cosa estremamente chiara: l’uomo non è soltanto un animale più evoluto degli altri, o dotato di maggiori acquisizioni tecniche, ma è costituito da un’apertura infinita che rimanda alla sua Origine trascendente e ne fonda la sua dignità. Da un punto di vista morale, inoltre, l’idea dell’essere esprime un ordine, una gerarchia, che conferisce una diversa qualità all’intelligenza umana, rispetto agli animali o ai vegetali. In questo senso la sua filosofia può essere un potente monito di fronte a ogni forma di riduzionismo antropologico, utile ad esempio per il dibattito bioetico contemporaneo nel ricordare la dignità intrinseca dell’essere umano, a cui deve essere sempre accordata la dignità del fine in ogni momento della sua vita, e non può mai essere ridotto a mezzo o a strumento.
Intervista a cura di Giovanni Covino