Aldo Rocco Vitale ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto europeo presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “Tor Vergata” e diviene cultore della materia sia in Biogiuridica che in Filosofia del diritto. Collabora con diverse testate online; ha numerose pubblicazioni scientifiche; si interessa anche di poesia e astronomia. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordo Cristianesimo e diritto. Sull’anima della civiltà giuridica occidentale (2017) e Introduzione alla bioetica (2019).
Dott. Vitale, vorrei cominciare questa intervista parlando di una figura, a mio parere, tanto importante quanto sconosciuta della storia del pensiero filosofico-giuridico del Novecento: Giuseppe Capograssi. Potrebbe dirci qualcosa?
In primo luogo La ringrazio e mi complimento per la pregevole e coraggiosa iniziativa che è quella del blog “Briciole di filosofia” che in un mondo irriflessivo quale è quello attuale – specialmente nella dimensione virtuale del web – offre, con vocazioni kierkegaardiane, l’occasione per tanti interessanti momenti di approfondimento e riflessione lontano dal trambusto ideologico di cui sono intrisi i mezzi di comunicazione di massa e anche i luoghi di formazione come scuole e università. In secondo luogo, venendo alla Sua domanda: Giuseppe Capograssi – come del resto altri autori “recenti” quali Sergio Cotta, Javier Hervada, Reginaldo Pizzorni, Hans Welzel, Giorgio Del Vecchio, Francesco Carnelutti, e altri –, è un po’ come quei pilastri fondanti degli edifici che trovandosi in profondità non si vedono, quasi nessuno si ricorda che ci sono, e invece non soltanto esistono, ma svolgono il ruolo essenziale di rendere solido e saldo tutto l’edificio sovrastante, fungendo da esempio per tutti coloro che intendono costruire in modo retto per evitare possibili storture o perfino futuri crolli. Purtroppo Capograssi è spesso ingiustamente dimenticato, sia nelle stesse facoltà di giurisprudenza – troppo impegnate a spiegare ai giovani studenti i mille “modi del come” del diritto tralasciando “dolosamente” la vera natura del diritto medesimo – sia nel mondo culturale nel suo insieme considerato. La riscoperta del pensiero di Capograssi, senza dubbio, sarebbe un buon punto di partenza – solido ed efficace – per sfornare delle nuove generazioni di giuristi, meno interessate al potere, al ruolo sociale o al guadagno che la loro professione può arrecare, e più sensibili alle ragioni della giustizia che, nella loro ultima specificazione, sono in buona sostanza le ragioni dell’umanità che dovrebbe caratterizzare tutta la fenomenologia giuridica, dal suo insegnamento alla sua applicazione.
Qual è – secondo Lei – l’eredità che ci lascia questo pensatore?
Sintetizzare in così breve spazio gli enormi meriti intellettuali che in eredità ci ha lasciato una figura geniale ed immensa come Capograssi, è cosa difficile in sé e ingiusta nei confronti del vasto pensiero di un così grande autore, tuttavia, accettando la sfida, ritengo che si possa identificare il suo prezioso lascito in almeno tre elementi.
In primo luogo: il giurista non può accontentarsi dell’asfittico dogmatismo che oggi informa l’intera scienza giuridica, senza, in buona sostanza, negare e rinnegare se stesso e la stessa natura del diritto che è molto di più di ciò che la semplice scienza giuridica odierna ritiene tentando di imbrigliarne le energie.
In secondo luogo: l’esigenza di filosofare intorno al diritto, rivela l’esigenza di investigare la realtà giuridica per scovarne i principi su cui si fonda il suo senso ultimo.
In terzo luogo: lo Stato che intende controllare le coscienze – si pensi, per esempio, a quelle fattispecie criminose note come “reati d’opinione” – è sempre e comunque uno Stato totalitario e il suo diritto non sarà mai autentico diritto proprio perché teso a negare quella libertà di coscienza che è – nella condivisibile ottica capograssiana – principio e fondamento dell’azione e quindi dell’umana libertà.
Vorrei ricordare ora Rosario Livatino, una figura di certo molto importante per Lei e per la Sua professione. Potrebbe farci conoscere più da vicino questo giudice assassinato il 21 settembre del 1990.
Rosario Livatino – di cui è in corso la causa di beatificazione – era un giovane amante del diritto che si trovò su quella sottile linea di confine che separa il bene dal male, la verità dalla menzogna, la tenebra dalla luce, la giustizia dall’ingiustizia, la civiltà dalla barbarie: per questo, proprio perché da giovanissimo magistrato si trovò in trincea, in prima linea, a lottare contro quella personificazione della ferocia antiumana che è la mafia siciliana, venne barbaramente freddato a colpi d’arma da fuoco in una afosa mattinata di fine settembre nelle campagne dell’entroterra siculo mentre andava a compiere il suo lavoro – forse nel suo caso, vista la mitezza, la visione profonda, la preparazione spirituale che ebbe a manifestare, sarebbe meglio parlare di “missione” più che di semplice lavoro – senza la scorta che lui stesso aveva rifiutato per salvare anticipatamente le vite di quegli agenti che avrebbero dovuto proteggerlo.
Rosario Livatino è una figura straordinaria nel panorama degli ultimi decenni: uomo dello Stato ed esemplare servo di Dio; uomo di legge, ma non dimentico della giustizia; uomo di diritto, ma animato da quella cristiana caritas che lo rendeva strumento di verità e di umanità nelle mani dello Spirito. Dalla figura di Livatino dovrebbero prendere oggi esempio tutte le nuove generazioni di giuristi: sia coloro che intraprendono i lunghi e faticosi studi di diritto nelle bigie e ingrigite facoltà di giurisprudenza italiane, sia coloro che si affacciano alla professione forense, sia coloro che intendono percorrere la via della toga nel gravoso e delicatissimo ruolo di magistrati della Repubblica; tutti da Livatino dovrebbero imparare la comprensione profonda della natura del diritto, l’umiltà del servizio, il senso della giustizia, il modo esemplare di essere buoni cristiani e onesti cittadini. In questo senso il Centro Studi Livatino, fondato nel 2015 in occasione dei 25 anni dal sacrificio del giovane magistrato siciliano, autorevolmente presieduto dal Prof. Mauro Ronco affiancato dai magistrati Alfredo Mantovano e Domenico Airoma, e vera e propria alternativa culturale ad una cultura giuridica – come quella attuale – che appare senza alternative, ha proprio questa vocazione, cioè promuovere la figura di Rosario Livatino e soprattutto trasmettere quei valori che lo hanno reso cittadino onesto, giurista giusto, cattolico santo, qualifiche difficili da raggiungere già singolarmente, e ancor più ardue da assommare comprensivamente, in special modo in quel mondo odierno che ha totalmente perso la fiducia nella coesione e nella solidarietà sociale, che ha smarrito la corretta visione sulla natura e sulla funzione del diritto, che assiste sgomento ad una Chiesa dilacerata da pietre d’inciampo grandi come montagne.
Lei ha studiato attentamente temi molto discussi, come l’eutanasia o l’aborto. Qual è la Sua posizione in merito?
Ci tengo a precisare preliminarmente che per quanto io abbia una posizione in merito, per approcciarsi seriamente a questi temi così delicati, come del resto sono un po’ tutti quelli che le sfide bioetiche e biogiuridiche ci pongono oggi dinnanzi con sempre maggior frequenza, occorre prescindere dalla posizione soggettiva in merito. Se si intende, infatti, comprendere seriamente la rilevanza etica e soprattutto giuridica di problemi così particolari si devono lasciare da parte le proprie visioni soggettive, specialmente quelle di carattere emotivo, psicologico, ideologico e perfino religioso, non perché tutte queste non siano autentiche esperienze dell’umano, ma perché si rischia di vedere la realtà non per ciò che essa è, ma per ciò che le suddette visioni lascerebbero vedere, cioè qualcosa di parziale o comunque di filtrato.
Sul tema dell’aborto e dell’eutanasia bisogna essere cauti perché i credenti tendono a rivestire le proprie argomentazioni di un fideismo cieco che la autentica fede cattolica non contempla e anzi rinnega con la sua valorizzazione della umana razionalità, mentre i non credenti tendono a supportare le proprie motivazioni con asserti aprioristici di carattere ideologico che non tengono conto della realtà, intesa sia in senso fisico e biologico, sia nel senso non meno importante e reale del profilo metafisico ed etico.
Entrambi i temi sono complessi e non riducibili a poche righe. Tuttavia per quanto riguarda l’aborto occorre precisare che è la stessa biologia, nella sua specifica branca dell’embriologia, a chiarire che il feto non è una semplice “parte escrescenziale” della donna, ma un soggetto geneticamente autonomo che, allora, anche eticamente e giuridicamente andrebbe così considerato evitando, dunque, qualsiasi legittimazione anteriore o posteriore della sua soppressione; chi nega ciò, nega un dato prettamente scientifico e razionale prima che etico o di altra natura. Si dovrebbe avere l’onestà intellettuale di ammettere – da parte dei sostenitori dell’aborto – che si intende ignorare consapevolmente un dato scientifico per una maggiore “comodità etica”.
Per quanto riguarda l’eutanasia, invece, molteplici potrebbero essere le ragioni addotte per la sua legittimazione, ma una su tutte non pare essere convincente ed effettiva, cioè l’idea che il medico debba somministrare la morte al paziente che gli avanzasse una tale richiesta. La natura della professione e dell’arte medica, infatti, impedisce strutturalmente e logicamente al medico di operare contro la salvaguardia della vita del proprio paziente; se così non fosse, l’intera medicina sarebbe priva di senso e tanto varrebbe chiudere immediatamente tutti gli ospedali e le facoltà universitarie. Non è un caso che il padre della medicina occidentale, Ippocrate, già 2500 anni or sono, e numerosi secoli prima dell’avvento dell’etica cristiana, ritenesse per motivi prettamente razionali di non poter somministrare sostanze tanatofere ai propri pazienti.
La ringrazio per questa intervista davvero interessante e stimolante. Vorrei concludere con una “briciola di diritto”: un aforisma che possa essere da guida per chi ha intrapreso gli studi giuridici.
Beh, in questo momento me ne vengono in mente parecchi, ma tra tutti, specialmente per chi ha iniziato il percorso di studi in giurisprudenza, ritengo utile e fondante tenere sempre a mente, quasi come i due binari su cui far scorrere il treno sempre in corsa e, si spera, senza capolinea della propria formazione giuridica, le due massime ricavabili rispettivamente dal “De legibus” e dal “De officiis” di Cicerone, il quale nella prima opera ha ricordato che «non su una convenzione, ma sulla natura è fondato il diritto» (I, X), mentre nella seconda ammoniva tutti i giuristi affinché evitassero una applicazione rigida e antiumana del diritto (positivo), poiché non è l’uomo per il diritto, ma il diritto per l’uomo, sintetizzando questo preziosissimo insegnamento nella celebre formula «summum ius, summa iniuria» (I,X).
Intervista a cura di Giovanni Covino