Propongo ai lettori di Briciole filosofiche questo interessante articolo di Mario Padovano sulla possibilità della dimostrazione dell’esistenza di Dio nell’opera di Tommaso d’Aquino. In questa prima pubblicazione, il lettore troverà le premesse dell’argomentazione nonché l’importanza del tema in rapporto all’atto di fede. Alla premessa seguiranno: una prima parte in cui l’Autore si soffermerà «sulla confutazione dell’affermazione che Dio non può essere dimostrato» e una seconda parte che affronterà la questione «che tipo di evidenza è l’affermazione “Dio esiste”?». Buona lettura! [Giovanni Covino].
Uno dei problemi concernenti il rapporto tra fede e ragione è quello riguardante il posto e addirittura la validità logico-epistemica delle prove dell’esistenza di Dio. È l’esistenza di Dio una verità accessibile alla ragione naturale o è in senso stretto un articolo di fede? Se è una verità di ordine naturale, è essa una affermazione per se nota o per aliud nota? È l’esistenza e la nozione di Dio una prima evidenza oppure no? Se no, è non-immediatamente nota solo quoad nos o anche quoad se?
Il problema al tempo di Tommaso d’Aquino toccava principalmente la discussione con l’ontologismo dell’epoca, la dottrina cioè per cui l’esistenza e la nozione di Dio sarebbe per se nota quoad nos, e una sorta di tradizionalismo fideista che si ritroverà in qualche modo anche nel XIX secolo e ai nostri giorni: fideismo che afferma non potersi strutturalmente dare prova dell’esistenza di Dio, ma che tale affermazione sia esclusivamente un articolo di fede ossia sia un oggetto di stretta rivelazione come il dogma della Trinità, dell’Incarnazione del Verbo, ecc.
Paradossalmente, anche il modernismo, a seguito, riteniamo, della per quanto falsa presunta “rivoluzione copernicana” di Immanuel Kant e della metafisica a-intellettuale di un Bergson e di un Le Roy, affermerà che non è possibile per la ragione, intesa essenzialmente come capacità dimostrativa, giungere ad una conoscenza per quanto misera di Dio. Il fideismo modernista accoglieva la dottrina post-kantiana dell’impossibilità per l’intelletto umano di potersi elevare a livello iperfisico, o meglio di poter cogliere il noumeno nella sua stessa realtà, ossia il reale in quanto reale. Dopo Kant si pretese di affermare che la mente umana è ferma al fenomenico, sia se si declinava verso il criticismo sia se si accoglievano le istanze neopositiviste e neo-nominaliste. Perché? Perché in entrambi i casi si accettava il fenomenismo di fondo. Eppure il fenomenismo è contraddittorio in sé. Affermare infatti che si dà fenomeno significa dire che si coglie il noumeno in quanto noumeno, ossia che si coglie l’ente in quanto tale nel suo stesso apparire. Affermare che la mente può raggiungere, organizzando peraltro e non facendo trasparire il fenomeno, significa dire che non potrebbe affatto avere la stessa nozione di noumeno. Il che significa dire che il noumeno sarebbe non solo inconoscibile, ma seguendo la terminologia kantiana, addirittura impensabile. Infatti come prova Kant l’esistenza del noumeno? Con la categoria della causalità! Ma qui sorgono due problemi:
1) per Kant la categoria della causalità funzionerebbe solo nell’organizzare la successione dei soli fenomeni e dunque non può essere applicata per la conoscenza del noumeno;
2) ammesso che lo fosse, Kant stesso cadrebbe, come di fatto cade, in un circolo vizioso perché nell’affermare il fenomeno cioè “l’apparenza di qualche cosa” presuppone la stessa esistenza di questo qualche cosa che vuole dimostrare: insomma presuppone implicitamente l’esistenza di ciò la cui esistenza si dovrebbe dimostrare.
Ma c’è di più: la stessa applicazione delle categorie diventa qualcosa di impossibile ed epistemologicamente ingiustificabile: si presuppone infatti che i dati empirici siano un insieme caotico, dato che tocca alle categorie organizzarli ed unificarli. Ma allora diventa impossibile un’organizzazione che non sia arbitraria. Ma se arbitraria varrebbe tutto e il contrario di tutto. Non c’è possibilità alcuna nel criticismo di fondare la scienza. Non resterebbe allora che il positivismo col suo agnosticismo o addirittura scetticismo empirista. Ma anche questa teoria è di per sé materialmente incoerente: il principio di verificazione, la stessa teoria fenomenistica ecc. non è desumibile empiristicamente.
Ebbene nella nostra epoca e il criticismo e il razionalismo e l’empirismo di per sé atei e/o agnostici e il fideismo condividono gli stessi presupposti gnoseologici ed epistemologici.
Oggi, in breve, le prove dell’esistenza di Dio non vengono ammesse perché non si ammette affatto la metafisica in quanto scienza prima, ossia la validità epistemica della scienza dell’ente in quanto ente: infatti non ammettendo una intuizione intellettuale (apprehensio entis e simplex apprehensio) della realtà nel suo essere realtà non si ammette che l’intelligenza possa tematizzarla appunto in quanto realtà, in quanto ente, ossia non si ammette che l’intelligenza possa studiare, scoprire aspetti ontologici e risalire ai principi e alle cause dell’ente in quanto ente, secondo la terminologia aristotelica. Se la fede è in crisi oggi, è perché è in crisi la ragione e questa è in crisi perché si auto-censura nella sua capacità metafisica.
Difatti tra i sette aspetti del modernismo, il papa Pio X poneva, nell’enciclica Pascendi dominici gregis, anche quello dell’agnosticismo:
«Prendendo adunque le mosse dal filosofo, tutto il fondamento della filosofia religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina, che chiamano dell’agnosticismo. Secondo questa, la ragione umana è ristretta interamente entro il campo dei fenomeni, che è quanto dire di quel che apparisce e nel modo in che apparisce: non diritto, non facoltà naturale le concedono di passare più oltre. Per lo che non è dato a lei d’innalzarsi a Dio, né di conoscerne l’esistenza, sia pure per intromessa delle cose visibili».
Possiamo dire che oggi non solo va riscoperta l’esistenza di Dio ma addirittura va riscoperta stessa della metafisica in quanto scienza assume il carattere di preambulum fidei. Si tratta cioè di difendere il fondamento della possibilità logica stessa dell’atto di fede. Difatti il fideismo è addirittura contraddittorio soprattutto per la ragione che pone implicitamente l’atto di fede all’infinito (regresso all’infinito). Infatti se la stessa esistenza di Dio è oggetto di stretta rivelazione, come farò a sapere che è Dio stesso che rivela che egli esiste? Non potrò mai arguire la veridicità di tale affermazione perché per la stessa esistenza di Dio da Dio esclusivamente rivelata si riproporrà il problema della fede in colui che rivela, e così via all’infinito. Inoltre il fideismo è materialmente incoerente e presuppone implicitamente ciò che esso stesso vorrebbe negare: ossia l’intellettualizzazione, la capacità veritativa degli argomenti di ragione metafisici. Infatti se la mente umana è solo una organizzatrice dei fenomeni e delle caotiche modificazioni sensibili del soggetto conoscente, come può solo pensare alle stesse forme pure, forme a priori? In altri termini l’intelligenza non potrebbe elevarsi a nessun livello concettuale. Qui il criticismo si scopre incoerente e auto-contradittorio. Non resta che ritornare al puro empirismo nominalistico. E Bergson, epistemologicamente e gnoseologicamente parlando, accetta tale impostazione nominalistica e/o costruttivistica dell’intelletto. Più di lui il suo allievo Le Roy. Il modernismo a sua volta fa suo questo dogma immanentistico. A differenza dell’ateismo il fideismo però ammette una intuizione a-intellettuale del noumeno. Il problema è che l’oggetto di tale supposta intuizione viene concettualizzato ossia preso a tema dall’intelletto al pari di ogni altro oggetto di conoscenza. Il che rende il fideismo materialmente incoerente, perché de facto compie ciò che afferma non potersi compiere ossia la tematizzazione intellettuale dell’oggetto che si presume coglibile solo con una intuizione non-intellettuale.
Posto così che l’anti-metafisicismo è di per sé infondato, possiamo ritornare ai grandi temi dello stesso pensiero del Dottore angelico.
Abbiamo qui da esaminare quanto il Doctor communis afferma nelle due Summae circa la dimostrabilità dell’affermazione dell’esistenza di Dio. E lo faremo in due momenti: nel primo tratteremo della confutazione dell’affermazione che Dio non può essere dimostrato; nel secondo del tipo di evidenza in cui consiste quella dell’affermazione dell’esistenza di Dio.
Mario Padovano, op
Fine premessa. Segue I parte
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