Propongo ai lettori di Briciole filosofiche questa interessante recensione di Matteo Andolfo. L’autore analizza e critica il saggio di Del Grosso sul tema delicato e complesso della conoscenza intellettiva dei singolari [Giovanni Covino].
Gli obiettivi del saggio di Massimiliano Del Grosso, docente di materie filosofiche all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Benevento, La conoscenza intellettiva dei singolari e il fondamento critico del realismo (postfazione di G. Covino, Leonardo da Vinci, Roma 2021, pp. 224, euro 20), sono chiaramente delineati dall’autore nell’Introduzione: la sua analisi del pensiero di Tommaso è condotta in un’ottica genuinamente epistemologica e partendo da esso ed esaminando le principali proposte in cui si articola il neotomismo intende focalizzare come il tomismo riveli nella sua posizione gnoseologica di partenza alcune aporie, ereditate dalla tradizione platonica e aristotelica, che fanno fallire ogni tentativo di fondazione critica del realismo come metodo e posizione epistemologica.
Le aporie della gnoseologia tomista
Tommaso recepisce la tesi di Aristotele secondo cui «all’intelletto compete solo la conoscenza dell’universale, l’unica che possa dare una conoscenza scientifica […], mentre quella del singolare concreto spetta alla sensibilità» (p. 28). Sorge, pertanto, «il problema di capire come queste due facoltà si incontrino e come si possa parlare di una sola mente, un solo atto di conoscenza, un solo oggetto conosciuto» (p. 29): che cosa garantisce che l’essenza universale colta dall’intelletto corrisponda al dato empirico percepito dal senso? Quale delle due facoltà prende coscienza di questa corrispondenza? Infatti, la forma dell’oggetto percepito è individuale, anche se analoga a quella di altri oggetti della medesima specie, mentre la forma nell’intelletto o concetto dell’oggetto è universale; ma che cosa garantisce la loro corrispondenza, se l’intelletto non può mai cogliere il singolare?
La soluzione dell’Aquinate è che l’intelletto conosce per accidens il singolare in quanto è in continuità con le potenze sensitive, teoria che per Del Grosso non dimostra quell’unione reale e sostanziale tra le due facoltà che sola spiegherebbe la ricezione di percezioni sensibili ed essenze astratte nell’unico atto di conoscenza. Tommaso ammette che l’intelletto abbia l’intuizione intellettiva del singolare, ma solo di quello immateriale e precisamente del proprio atto di intellezione quale ente singolare, ossia di sé mentre conosce, ma questo riconferma il problema di come potrà riferirlo al (presunto) corrispondente singolare sensibile. Per l’autore non sono risolutive né la tesi tomista della conversio ad phantasmata, dai quali le specie universali sono astratte, del pari problematica dato che anche il fantasma è un singolare, che definirei ancora materiale (esteso), né quella della potenza cogitativa come “intermedia” tra la sensitiva e l’intelletto e capace sia del singolare sia dell’universale, perché contraddice la dicotomia senso/intelletto e singolare/universale. Inoltre, la collocazione che l’Aquinate assegna alla cogitativa in una celletta nella parte centrale del capo a Del Grosso appare come “la ghiandola pineale di Cartesio ante litteram” ed è noto che per questo filosofo l’uomo consta di corpo e anima quali dualità assoluta di sostanze (res). Un’altra somiglianza tra Cartesio e Tommaso, per l’autore, è che per il primo la coscienza è chiusa in se stessa e per il secondo l’intelletto è chiuso nella sua universalizzazione (p. 123).
Condivido il rilievo critico esposto da Covino nella postfazione al libro, che considera “forzato” (p. 204) tale accostamento tra Tommaso e Cartesio in quanto i due contesti antropologico-filosofici in cui la presunta analogia è inscritta sono nettamente diversi: il dualismo sostanziale cartesiano implica l’esclusione di qualsiasi legame tra anima e corpo, rendendo ipso facto aporetica l’idea di usare la ghiandola pineale quale trait d’union. Nell’Aquinate, invece, l’anima quale forma del corpo comunica il proprio essere al composto e la “celletta” è il necessario supporto materiale della funzione conoscitiva della facoltà cogitativa. Viene richiamato come, per passare all’atto dell’intellezione, all’intelletto non basti la conoscenza delle specie intelligibili astratte, ma debba volgersi ai fantasmi, conoscendo indirettamente i singolari (come la vista vedendo l’immagine su uno specchio si rivolge direttamente alla realtà che si specchia, ma anche alla rappresentazione riflessa nello specchio), e come questo rifluire riflessivo sul fantasma sia un naturale e spontaneo completamento dell’atto di intellezione.
Gnoseologia e antropologia filosofica
Per Del Grosso, però, la fondazione della continuità tra senso e intelletto sul piano antropologico, con la tesi dell’anima quale forma sostanziale del corpo, non è metodologicamente corretta, poiché, «in un discorso che intenda ritenersi “scientifico”, bisogna partire da quello che è più evidente per giustificare ciò che lo è di meno» (p. 39) ed è più evidente che il medesimo soggetto è consapevole di conoscere insieme il rosso singolare percepito e l’essenza universale del rosso colta intellettivamente rispetto alla presenza nel suo corpo di un’unica forma sostanziale che crea con esso il sinolo che rende intellettivo-sensitive le sue conoscenze.
Secondo Covino (pp. 207 ss.), dato che la sensibilità è dell’uomo e perciò sempre connessa all’aspetto intellettivo del processo conoscitivo, antropologia e gnoseologia sono strettamente connesse: «l’intelletto abbraccia […] l’intera nostra attività sin dal principio» (p. 208); l’atto di vedere Pietro non è mera percezione sensoriale dell’uomo, ma è insieme il riconoscere intellettivo nei dati sensibili e nell’immagine formata l’universale, che è astratto dal singolo e al quale ritorna come coscienza del fatto che l’universale uomo si concreta in Pietro. L’intelletto «prende immediatamente coscienza dell’origine dell’idea di umanità dall’uomo in carne e ossa Pietro, coscienza che si concreta nel giudizio Pietro è un uomo» e che accompagna ogni conoscenza successiva, dato che riusciamo a distinguere Pietro dagli altri uomini. «Solo in questo modo è possibile comprendere […] il ruolo della cogitativa senza cadere nel problema della continuità» (p. 209), poiché tra intelletto e cogitativa si stabilisce un flusso e riflusso dei dati.
A mio parere, è corretto fondare la gnoseologia sull’antropologia filosofica in quanto il realismo è metafisico: la filosofia ha il compito di approfondire il “senso comune” (i dati di evidenza immediata) e poi un atto conoscitivo oltre che all’oggetto conosciuto è connesso al soggetto che lo esercita, le cui facoltà ed essenza sono studiate dall’antropologia filosofica. Aggiungerei, però, che l’antropologia filosofica è il momento inferenziale (oltre il dato gnoseologico per fondarlo), pertanto esso può e deve essere preceduto dal momento fenomenologico[1], che significa vedere tutte le implicazioni del dato sul piano gnoseologico (fenomenologia della conoscenza, come in Mercier, di cui si parlerà nel seguito): nel nostro caso, vanno tenute insieme la tesi secondo cui l’intelletto pensa l’universale e il dato (constatato, perciò immediatamente evidente) della conoscenza sensitivo-intellettiva del singolare sensibile, così come l’autocoscienza/autopensiero nel pensare l’oggetto («La coscienza dell’altro da sé è sempre coscienza di sé come altro dall’altro da sé»[2]). E capisco che a Del Grosso prema di risolvere l’aporia, cruciale per le sorti del realismo, già sul piano gnoseologico, senza ricorrere ad altri àmbiti meno evidenti, perché questi ultimi facilmente non saranno accettati da chi è poco favorevole alla metafisica, mentre sull’evidenza della gnoseologia è più probabile trovare un terreno di discussione condivisa.
Sebbene il realismo metafisico non coincida solo con il tomismo, comprendendo anche francescanesimo, scotismo, neoplatonismo cristiano ecc., per risolvere restando sul piano gnoseologico l’aporia della gnoseologia tomista che Del Grosso segnala occorre mantenere fermi due aspetti costitutivi di quest’ultima: l’astrazione (il pensiero umano pensa per concetti universali) e che del singolare l’uomo non ha scienza; ma si deve tenere ferma anche l’evidenza fenomenologica secondo cui prendere coscienza delle cose ed esistenza delle cose si manifestano in un unico originario atto di esperienza.
Il ricorrere di Tommaso all’antropologia filosofica per fondare la continuità senso-intelletto non è in sé erroneo, poiché la filosofia del senso comune per giustificare le verità del senso comune (vsc) deve argomentare conseguendo evidenze mediate e il nesso inscindibile tra atto conoscitivo, oggetto conosciuto e soggetto-facoltà conoscente intreccia inscindibilmente antropologia filosofica e gnoseologia-epistemologia, ma è ancor più comprensibile alla luce dell’assenza all’epoca del concetto di coscienza quale “àmbito” comune a sensazione e intellezione immediatamente evidente già sul piano gnoseologico.
Oltre Tommaso senza Tommaso: da Duns Scoto a Husserl
La soluzione di Duns Scoto al problema della gnoseologia tomista consiste nel considerare la natura communis (che dà luogo al genere e alla specie con cui si definisce la natura delle cose) non quale mero ens rationis astratto, bensì come reale nelle cose percepite dai sensi e perciò compartecipe della loro individualità. Solo che nell’ente singolo questa natura assume un modo di realizzazione diverso da quello degli altri enti singoli in cui esiste, mentre nella mente umana è rispecchiata nella sua singolarità, ma senza le diverse modalità di realizzazione nei vari individui. Sulla linea di Scoto, Pietro Aureolo conia il concetto di “intenzionalità” quale pura presenza dell’oggetto all’intelletto umano: ciò che di fatto appare dell’oggetto all’intelletto può essere sia universale sia singolare. Ockham ammette, infine, la conoscenza intellettiva anche del singolare.
Per Del Grosso, dalle soluzioni di questi tre filosofi che non rientrano nel tomismo emerge un’acquisizione importante: la conoscenza è sempre intuizione di un oggetto che può essere un dato empirico o un’essenza universale, ma che in ambedue i casi, in quanto ens, è qualcosa di uno e perciò di singolare. Convergente con questa tesi è la posizione del tomista Suárez, secondo cui il principio d’individuazione non è la materia signata quantitate, ma l’entitas dell’ente, ossia ogni esistente è uno e allora il suo esistere stesso lo individualizza. Sul piano gnoseologico questo implica che anche l’ente di ragione, pur essendo universale nella sua intenzionalità, in sé è uno e quindi singolare.
La nuova concezione meccanicistica della natura conseguente alla rivoluzione scientifica del Seicento e lo scetticismo verso la metafisica hanno portato la corrente empirista del pensiero moderno a intendere le intellezioni astrattive universali non più quali essenze, ma come funzioni o automatismi della mente, mentre il filone razionalista ha trovato ancor più difficoltà a salvaguardare la teoria immaterialista delle intellezioni e a spiegarne la coesistenza con il mondo materiale nel quadro del dualismo netto cartesiano tra spirito e corpo da esso accolto.
È Hume a elaborare una gnoseologia empirista massimamente coerente con il meccanicismo: la conoscenza umana è mera ricezione passiva di impressioni sensoriali; le idee della mente sono impressioni illanguidite, ossia materiali e individuali, nonché ricavate per mera associazione, ossia attraverso un meccanismo psicologico; l’universale è una sintesi individuale di sensazioni simili abitualmente percepite.
La figura chiave dell’età moderna è Kant, poiché recepisce e prosegue l’elaborazione delle istanze della nuova filosofia sorta con Cartesio, ma è anche affascinato dalla metafisica realistica. Siccome lo studio della natura è passato dalla filosofia seconda aristotelica alla fisica sperimentale, la fondazione della metafisica è ricercata nella teoria della conoscenza, previamente sottoposta a critica. Per salvaguardare la nuova scienza, Kant trasforma in logici, formalistici o “trascendentali”, i meccanismi della mente che per Hume sono meramente psicologici: il principio di causa, per esempio, non ha il proprio fondamento nella realtà, come Hume ha dimostrato, ma non è neanche una mera abitudine; invece, è connesso al pensare, che per Kant è attività formalizzante a priori le categorie, come quella di causa. In Kant a priori è sinonimo di “universale necessario”. I concetti e i giudizi diventano funzioni con cui il soggetto rende immanente a sé e conosce il dato empirico, mentre il realismo gnoseologico, sottolinea Del Grosso, riguarda una certa concezione dell’astrazione: le essenze universali astratte hanno consistenza reale in quanto originano dalle realtà dell’esperienza sensibile, delle quali sono una sorta di “impronta” impressa nell’anima umana. Venendo meno l’astrazione dei predicati-categorie dall’ente reale, Kant nega il darsi di intuizioni intellettuali e ammette la sola intuizione sensibile come conoscenza immediata del dato sensibile nella sua materia (fenomeno) e nelle sue forme a priori dello spazio e del tempo, che sono dell’oggetto (ossia non sono mere funzioni del soggetto), ma non sono dall’oggetto, essendo a priori; esse sono come la luce: determinando la materia fanno apparire alla coscienza il dato sensibile e rivelano se stesse.
«Ogni mia rappresentazione, per poter essere davvero percepita come mia, deve essere accompagnata dall’intuizione del pensare in atto, ovvero ogni atto di conoscenza, che è sintesi del sensibile (fenomeno e intuizione pura spazio-tempo) e dell’intellettivo (categorie e giudizi a priori), deve presentarsi all’interno di un atto di autocoscienza che mi fa intuire che io sto pensando» (p. 95). È l’Io penso: metacategoriale in quanto funzione che unifica tutte le categorie; “appercezione” perché spontaneo come l’appercezione empirica, ma “pura” in quanto priva della materia della sensazione (fenomeno). Tuttavia, quella dell’Io penso non è un’intuizione propriamente detta in senso kantiano (che è solo sensibile), l’intuizione di sé da parte dell’Io, ma una mera funzione, sia pure, aggiungerei io, la funzione delle funzioni. Parimenti, ed è questo che distingue nettamente la filosofia trascendentale dal realismo, non v’è intuizione dell’essere (l’essere come atto che in Tommaso precede e fonda la conoscenza come apertura ad esso), poiché per Kant l’essere delle cose non è prodotto dall’Io penso, ma si svela solo a partire dall’attività di sintesi del molteplice operata da quest’ultimo in quanto la relazione di esistenza è solo un’operazione di sintesi, ha solo valore formale.
Rispetto a Tommaso, rileva Del Grosso, Kant giustifica il modo in cui l’intelletto può prendere coscienza che esiste qualcosa di non-intellettivo, ossia di sensitivo, in quanto nella rappresentazione della nostra sensibilità v’è un elemento che non è a priori, la materia né universale né necessaria, e allora sarà a posteriori, senza il concorso del soggetto e del suo intelletto. Nondimeno, anche la gnoseologia kantiana si arena in un’aporia simile a quella tomista: il senso che intuisce e l’intelletto che pensa sono eterogenei e la loro armonizzazione attraverso lo schematismo trascendentale, secondo Del Grosso, non spiega come essa di fatto possa avvenire. «Se non si ammette una capacità intuitiva dell’intelletto secondo cui esso è in grado, non solo di concepire essenze universali, ma anche di arrivare direttamente all’empirico fornito dal senso, la spiegazione del rapporto tra sensibilità e intelletto, tra singolare e universale, resterà sempre problematica» (p. 101).
Kant parla di fenomeno e non di fenomenologia, termine, quest’ultimo, che viene rielaborato da Hegel intendendola sempre quale scienza della strutturazione del dato reale che appare per mezzo della sensazione, ma non più come costruzione propria del soggetto (Kant) o dell’oggetto (empirismo), bensì come compenetrazione dinamica di soggetto e oggetto che si costituiscono a vicenda nel fluire dello spirito. Ne scaturisce una “metafisica dell’immanenza”, in cui la preposizione greca meta, “oltre”, ha un mero senso dinamico e storico e non più transfisico, «un superamento di sé compiuto dalla medesima realtà empirica, intrinsecamente “razionale”, e a partire da se stessa» (p. 168).
La reazione positivistica e del materialismo dialettico e storico all’idealismo riduce di nuovo l’esperienza a sintesi passiva della molteplicità del dato sensoriale di cui la coscienza è il risultato. Rispetto a questa concezione, la fenomenologia husserliana recupera l’idea che l’esperienza sia anche il vivere il flusso di percezioni da parte del soggetto che ritrova in esse essenze universali, strutture di senso, ma con un nuovo approccio descrittivo, che rinuncia a ricercare rapporti causali tra i fenomeni per restare fedele alle cose come appaiono.
Per arrivare alla concezione di Husserl, Del Grosso si sofferma sulla rielaborazione in chiave moderna del concetto di intenzionalità da parte di Brentano: l’oggetto dell’atto intenzionale non è una realtà extramentale (la cui esistenza certa la modernità ha messo in crisi, pur restando la possibilità di essa), ma un’oggettualità immanente alla coscienza: nel percepire il rosso, questo è presente come momento interno alla coscienza percettiva. È, tuttavia, Bolzano a distinguere due dimensioni dell’oggettualità immanente: quella logica (il significato, indipendente dallo stato mentale del soggetto dell’atto) e quella psicologica (dipendente dallo stato mentale del soggetto dell’atto). È lo studio della natura dei numeri, né proprietà degli oggetti fisici, in quanto applicabili a più individui, né mere funzioni della mente, in quanto il numero pensato non è identico all’atto psicologico di pensarlo, che induce Husserl a recuperare tre temi della gnoseologia scolastica smarriti dall’empirismo e dal razionalismo moderni a causa del dualismo assoluto cartesiano tra mondo fisico e ideale: 1) le essenze logiche universali, aspaziali e atemporali; 2) l’intenzionalità (l’atto di coscienza è sempre relazione a qualcosa presente in atto); 3) l’intuizione delle essenze, che riacquisiscono la dignità di “oggetto” nell’atto di conoscenza[3]. Può così concepire la fenomenologia come un nuovo metodo di indagine relativo ai fenomeni intesi come ciò che appare alla coscienza. Husserl distingue l’inteso o noema, l’oggetto della conoscenza distinto (anche se non separato) dalla coscienza [l’oggetto immanente di Brentano come significato logico di Bolzano] dall’atto di intendere o noesi o vissuto della coscienza. Infatti, intendere è intuire non una rappresentazione (gnoseologismo), ma la realtà, tanto particolare (fatti) quanto universale (essenze), anche se le essenze sono sempre colte in un fatto, mentre l’atto di intendere non è inteso, ma vissuto.
Nel passare dall’elaborazione del metodo a quella di una filosofia fenomenologica, che prenda posizione sulla realtà, Husserl ritiene necessaria l’epoché, il non prendere posizione su nulla che non sia indubbiamente evidente, ossia intuìto. Di conseguenza, sono sottoposti a epoché tanto l’interpretazione scientifica del mondo come insieme di aggregati atomici e forze fisiche quanto il senso comune, a partire dalla certezza dell’esistenza del mondo come insieme di enti divenienti (res sunt), poiché non è indubbiamente evidente che siano indipendenti dalla coscienza a cui appaiono. Ciò di cui invece, per Husserl, non si può dubitare è l’esistenza della coscienza per la quale esiste il mondo, ossia il cogito con i suoi cogitata. Osservo che una prova dell’esistenza indipendente del mondo nell’accezione del senso comune rispetto alla coscienza a cui si manifesta è data dalla stessa parabola della filosofia moderna, che ha visto l’antirealismo condiviso dallo gnoseologismo e dall’idealismo autoconfutarsi.
Oltre Tommaso con Tommaso: il neotomismo
Le conclusioni del pensiero kantiano hanno messo in crisi ciò che di immediata intuizione v’è nella conoscenza (l’esperienza e le certezze del senso comune ad essa legate) e hanno indotto i filosofi successivi a optare per una filosofia dell’immanenza che non ha più nulla a che fare con la metafisica e la teologia razionale di matrice platonico-aristotelica.
Il neotomismo intende programmaticamente accogliere alcune istanze della modernità, mantenendo, tuttavia, «quella fondazione critica che concepisce l’essere concreto, l’essere intuito, l’essere come presenza e atto, come primissimo dato originario» (p. 131). Del Grosso richiama alcuni esponenti di questa scuola filosofica.
Alcuni neotomisti considerano feconda la coniugazione tra tomismo e fenomenologia husserliana, intesa secondo il suo filone interpretativo più “oggettivistico” (Hartmann, Scheler ecc.) rispetto a quello più “soggettivistico” (Merleau-Ponty, Sartre, Lévinas, Derrida). È il caso di Edith Stein, il cui progetto di armonizzazione tra le due correnti non si è, però, realizzato per la sua scomparsa prematura, e di Angela Ales Bello, che mira a recuperare il realismo in modo analiticamente fondato attraverso il metodo fenomenologico. Per la scuola di Antonio Livi, invece, la conseguenza inevitabile dell’epoché husserliana delle certezze del senso comune è che l’oggetto intenzionale (l’idea nella coscienza) ridiventa la realtà conosciuta, invece di essere, come nel realismo, ciò mediante cui si conosce la realtà, regredendo allo gnoseologismo cartesiano; la conoscenza delle idee risulta immediatamente evidente e indubitabile, sicché il mondo finisce per avere una realtà presuntiva se comparata a quella necessaria dell’io trascendentale, inteso come la regione assoluta dell’autonoma soggettività[4]. Del Grosso rileva che la causa di valutazioni così opposte sulla possibilità di conciliare tomismo e fenomenologia è l’ambiguità di due nozioni husserliane:
1) l’oggetto, che, da un lato, è ciò che appare alla coscienza come determinato e stabile, universale e necessario, ossia solo l’idea, ma dall’altro, non è generato attivamente dal soggetto, bensì recepito passivamente dalla coscienza nell’intuizione; se l’idealismo è ridotto alla costruzione dell’idea da parte del soggetto, Husserl risulta realista, ma se si concepisce l’idealismo come ogni concezione in cui è l’idea l’oggetto di conoscenza, Husserl risulta idealista;
2) il trascendentale, che, da un lato, è inteso in senso kantiano (condizione universale e necessaria di possibilità della conoscenza di qualcosa), senza, dall’altro, escludere il significato tomista (condizione universale e necessaria di possibilità dell’essere di qualcosa); il senso ontologico del trascendentale è ammissibile nella filosofia husserliana solo interpretando la passività della coscienza nell’intuizione delle idee come garanzia dell’esistenza a sé delle essenze, altrimenti resta solo il senso logico, la cui conciliazione con il realismo tomista è impossibile.
In altra direzione va il neotomismo di Désiré Mercier, che è consapevole che la risposta al kantiano “problema critico della conoscenza” (che cosa posso conoscere?) è cruciale per salvaguardare l’impostazione realista. Mercier accoglie l’istanza cartesiana della posizione immediata del soggetto e non assume l’esistenza del mondo esterno in maniera dogmatica, ma corregge Cartesio evidenziando che l’esistenza di sé non è la conclusione di una dimostrazione, bensì la condizione di evidenza di ogni certezza, una qualità che accompagna implicitamente ogni giudizio, il presupposto ontologico e logico della validità di tutti i ragionamenti, tra cui la comprensione di sé come soggetto capace di conoscere il vero, ossia è un dato incontrovertibile e “al di qua” di ogni affermazione dogmatica come di ogni dubbio metodico. Inoltre, questa certezza originaria è sufficiente a mostrare l’esistenza del mondo esterno al soggetto, poiché l’esistenza di sé si rivela come mente che conosce il contingente e nel contempo pensa l’universale, attestando due ordini di contenuti di coscienza, il concreto-reale e l’ideale. Infatti, quando si pensa che un prodotto non cambia invertendo l’ordine dei fattori non si ha bisogno di veder realizzato tale rapporto nelle cose concrete, sicché ho la certezza che esistono due ordini di realtà: l’ideale-universale, che è del soggetto, e il concreto-contingente-reale che non può essere del soggetto. Confondere i due ordini sarebbe come confondere un colore con un suono, il che è contraddittorio, ossia impossibile: infatti, è indubitabile la distinzione tra il bianco del foglio che percepisco e il me pensante (quando so di vedere del bianco non posso dire “io sono bianco”, mentre gli stati affettivi sono presenti all’io come propri: “sento freddo” è esprimibile anche come “sono infreddolito”). Nondimeno, la certezza delle verità di ordine ideale è indipendente da quella dell’esistenza di sé, poiché quest’ultima è la condizione ontologica sine qua non dell’atto di pensiero, ma non della verità ideale che ne è l’oggetto, che, al pari del concreto oggetto dell’atto di conoscenza, resterebbe valido ed esistente anche qualora il soggetto, non esistendo, non lo concepisse.
Secondo Del Grosso, la rilevanza del neotomismo di Mercier è che giustifica l’unità tra percezione/sentire e astrazione/pensare, tra oggetto del senso e oggetto dell’intelletto, sul piano della fenomenologia della conoscenza, cogliendola come un’esperienza originaria. La continuità delle facoltà di cui parla Tommaso non è più fondata sul piano dell’antropologia filosofica, ma è trasferita sul piano empirico, riconoscendo (contro l’empirismo meccanicista moderno) come realtà di fatto sia il percepito sia il pensato.
Sulla linea di Mercier, Léon Noël sostituisce la continuità tra senso e intelletto con la loro “coincidenza nell’eterogeneità”: nell’atto di conoscenza non v’è alcune distinzione reale tra sentire e pensare, ossia l’intelletto compartecipa con la sensazione quando questa recepisce passivamente i dati empirici connessi ai diversi organi di senso, ma poi emerge da tale passività per elaborare le astrazioni, con la consapevolezza che queste sono tratte dal complesso di percezioni originario. Ed è una certezza in quanto è la stessa coscienza, lo stesso io, a percepire e a pensare. Una certezza, aggiungo, che l’antropologia filosofica tomista dell’anima razionale quale unica forma del corpo umano poi fonda ultimativamente sul piano metafisico. Se è vero che la gnoseologia-epistemologia deve soccorrere se stessa prima della metabasi sul piano dell’antropologia filosofica, tuttavia, siccome lo scopo della filosofia è, come s’è detto, quello di fondare le certezze del senso comune, ultimativamente la metabasi è necessaria.
Réginald Garrigou-Lagrange riprende la dottrina tomista dei praeambula fidei e la fonda sul principio epistemologico del “senso comune”, che definisce come intelligenza-ragione spontanea che riconosce immediatamente come proprio oggetto l’essere concreto, ossia che è spontanea apertura all’essere. I contenuti irriflessi del senso comune di ogni uomo constano dei princìpi logici ed etici e delle verità metafisiche dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, colte in modo spontaneo e senza una formulazione precisa, che la filosofia esplicita. Di conseguenza, il vero sapere è solo quello che rispetta il principio d’identità e lo fonda sull’essere e quindi la filosofia del senso comune è l’unica vera filosofia.
Anche Jacques Maritain concepisce il senso comune come una “prefilosofia spontanea” e una sorta di “istinto intellettuale” conforme alle inclinazioni essenziali dell’intelligenza umana e ne sistematizza i contenuti in tre livelli di digradante consapevolezza: 1) l’esistenza delle cose e i primi princìpi onto-logici che da essa promanano; 2) l’ordine morale; 3) l’idea di un principio spirituale immortale (anima) e l’esistenza dell’Essere supremo (Dio), ragione sufficiente dell’esistenza e logicità di ogni cosa. Inoltre, arriva a definire il senso comune come un “preconscio spirituale”, intermedio tra il subcosciente animalesco e la coscienza vigile, per la quale il senso comune costituisce l’aggancio sicuro a un sapere vero e obiettivo. La filosofia porta a livello di riflessione consapevole le conoscenze del senso comune, presenti in atto in ogni atto di conoscenza, ma in modo irriflesso e per molti inconsapevole.
Un altro «importante sostenitore del realismo come metodo» (p. 152), Étienne Gilson, che si riconosce debitore delle osservazioni di Nöel, riconduce l’asistematicità della filosofia contemporanea alla rinuncia alla ricerca dei princìpi fondamentali dell’essere inteso come ens reale (che non coincide né con la sola essenza né con la sola esistenza) e non come idea-attributo dell’essenza, errore che ha agevolato la riduzione kantiana degli oggetti metafisici a pure idee senza valore obiettivo. In «una filosofia in cui essere ed essenza sono distinti ma non separabili e dove è l’uno che fonda la verità dell’altra [facendola esistere ed essere ciò che è] e non viceversa, tutta la nostra conoscenza assume, seppur nel riconoscimento dell’inadeguatezza dell’intelletto umano nel cogliere intuitivamente la totalità del reale, efficace consistenza e valore veritativo» (p. 157).
Condividendo la tesi gilsoniana del realismo come metodo, l’unico metodo del corretto filosofare, Antonio Livi approfondisce la nozione di senso comune definendolo come l’insieme organico delle cinque certezze e prime verità materiali concernenti l’esistenza di situazioni di fatto che sono oggetto di esperienza immediata e che sono indubitabili e incontrovertibili in quanto evidenze immediate, prive di ulteriori presupposti e che proprio per questo sono sempre e necessariamente a fondamento di ogni altra certezza possibile, ossia della pretesa di verità nei giudizi sia di esistenza sia di attribuzione. Tali certezze esprimono la consapevolezza della realtà che ogni soggetto pensante coglie per esperienza immediata, anteriormente a ogni interpretazione razionale della medesima; esse sono, pertanto, universali appunto perché non dipendono da particolari condizioni antropologiche e culturali proprie di certi soggetti e non di altri. Le cinque certezze-verità del senso comune sono strutturate geneticamente a partire dalla prima:
1) res sunt, ci sono, esistono molteplici enti finiti e divenienti che costituiscono il “mondo” come totalità di ciò che in qualsiasi modo è ed è oggetto di esperienza (attuale e possibile);
2) nel mondo ci sono, esisto io come soggetto che sa di essere un ente tra gli altri, un singolo esistente, ma che sa anche di essere colui che conosce l’esistenza del mondo;
3) alcuni degli enti esistenti sono analoghi a me, sono altri “io” con cui intrattengo rapporti intersoggettivi, ossia riconosco in loro quei caratteri (razionalità e libertà) che sperimento in me e che ci distinguono come persone.
4) I rapporti interpersonali, in quanto liberi, implicano diritti e doveri, ossia leggi morali basate sulla libertà e sulla responsabilità delle persone in quanto persone. La moralità, infatti, è l’agire di chi può progettare, orientare e attuare liberamente i propri atti in vista di un fine.
5) La percezione della contingenza o nullificabilità di tutti gli enti esperibili, ossia del mondo intero, implica che deve esistere, anche se non ne ho esperienza, un Principio trascendente della loro esistenza, che dev’essere anche Intelletto-Persona perché causa prima anche di tutte le persone e meta ultima del finalismo morale umano.
Come si vede, il senso comune è costituito da cinque giudizi (pertanto non è irrazionale) esistenziali o indicali, che si limitano ad affermare l’esistenza di qualcosa, a indicarne la presenza al soggetto conoscente, senza attribuire all’esistente predicati descrittivi e senza pretendere di cogliere l’essenza degli enti divenienti.
Del Grosso critica due aspetti della concezione liviana. In primo luogo, ritiene che il senso comune possa essere l’autentico presupposto di ogni conoscenza solo se ognuna delle cinque certezze sia antecedente al processo mediato di riflessione che conduce la coscienza a distinguersi dall’altro da sé, ma che questa condizione non risulta verificata per le ultime tre certezze. A mio parere, va rilevato quanto segue. Innanzitutto, Livi stesso riconosce che le certezze del senso comune non sono presenti alla coscienza sempre in modo esplicito e per questo il compito della riflessione filosofica è di dimostrare l’esistenza del senso comune come di ciò a cui il pensiero umano fa sempre riferimento quale suo fondamento anipotetico e ultimativo, ossia la filosofia esplicita ciò che ogni soggetto pensante implicitamente (e pertanto anche inconsapevolmente) già sa come senso comune. Inoltre, la terza e la quarta certezza criticate possono essere riformulate in modo da rendere più manifesto il loro carattere di evidenze immediate[5]: 3) come colgo immediatamente che certe realtà mi sono intenzionalmente presenti come oggetti di conoscenza altri da me e che tra queste alcune sono altri “io” in quanto manifestano di essere soggetti conoscenti come me, mentre altre sono miei stati affettivi, così intuisco che questi ultimi accadono in me senza che io ne sia causa e che, invece, i miei atti sono voluti e causati da me quali attuazioni di mie potenzialità che posso realizzare senza esservi costretto, sicché mi colgo anche come libero. 4) Parimenti, intuisco di essere moralmente responsabile dei miei atti perché sperimento in me il realizzarsi del passaggio dall’essere (is) al dover-essere (ought): allorché conosco con evidenza una verità, per esempio che una certa norma indica un bene vero, intuisco che ho il dovere morale (sollen) di conformarmi a quella verità nell’agire, pena l’autocontraddizione. E colgo anche che quanto è dovuto a me da me stesso in rapporto alla verità su di me quale persona è dovuto parimenti da parte mia a ogni altro in quanto persona[6].
Quanto alla quinta verità, sempre Livi afferma che si differenzia dalle altre quattro (soprattutto dalle prime due) in quanto è l’intuizione indubitabile dell’esistenza di Dio attraverso una spontanea inferenza causale, che egli paragona al fatto che nessuno dubita dell’esistenza in atto di un terremoto allorché ne avverta le scosse. Nondimeno, la conoscenza per inferenza è acquisita direttamente da un soggetto pensante quanto quella per esperienza, mentre la fede, al pari della conoscenza storica, dell’istruzione e dell’informazione, è un sapere acquisito indirettamente, per testimonianza di altri soggetti che lo hanno potuto acquisire direttamente (gli apostoli). Allora la nozione di Dio non è un dato immediato della coscienza, essendo raggiunta dialetticamente, ma è posseduta intuitivamente, sia pure implicitamente: sebbene io non lo percepisca, deve esistere Dio, inteso (senza specificazioni sulla sua essenza) solo come l’Essere necessario che è ragione dell’esserci (e perciò datore dell’essere, ossia Creatore) degli enti, di cui è evidente l’esistenza, ma anche la contingenza. L’esistenza fattuale degli enti e le loro relazioni reciproche di causa-effetto sia fisiche sia libere evidenziate dalle prime quattro verità del senso comune inducono immediatamente il soggetto a intuire l’esistenza della causa incausata di tutti gli enti contingenti. Spetta alla metafisica, che parte dalla prima verità del senso comune, quella dell’essere come atto, come «esserci degli enti», esplicitare dimostrativamente il carattere di evidenza della quinta certezza del senso comune[7].
In secondo luogo, Del Grosso ritiene erronea la subordinazione della certezza dell’io che conosce il mondo a quella dell’esistenza del mondo, a meno di sostenere che la coscienza non aggiunga nulla all’oggetto, lasciandolo trasparire per ciò che è, essendo nulla in se stessa, mentre per Del Grosso le due certezze devono essere dichiarate cooriginarie: se è di certezza immediata l’esistenza di un oggetto e di un soggetto realmente distinti, non lo è che essi siano separati, poiché non si dà oggetto alla nostra conoscenza se non in una coscienza. Il “pregiudizio” liviano deriverebbe da Gilson, che, per fedeltà alla posizione di Tommaso, sostiene che l’ente, in quanto concepito, essendo il primo oggetto dell’intelletto, si offre direttamente in se stesso e non in rapporto al soggetto conoscente, sicché res sunt, ergo cogito, la certezza dell’io è conseguente a quella del mondo. Del Grosso rileva come questa sia un’interpretazione metafisica che non può essere accolta in un discorso gnoseologico: la fenomenologia della conoscenza attesta che esistenza delle cose e prendere coscienza di esse si manifestano in un unico atto originario di esperienza, confermato, contro le sue intenzioni, dallo stesso Gilson allorché dice che l’ente che si offre direttamente in sé è percepito, sicché il soggetto è originario quanto l’oggetto che gli si offre. Secondo Del Grosso, Gilson cade in un oggettivismo speculare al soggettivismo che combatte e che pone l’evidenza dell’io a scapito di quella della realitas. Del Grosso sottolinea le incongruenze «di un certo “oggettisvismo dell’aut aut” che può essere semplificato con il proclama: se si afferma l’originarietà della soggettività la si antepone alla realtà e non si potrà che essere dei soggettivisti. Il merito che invece riconosciamo, soprattutto agli autori della scuola di Lovanio [Mercier, Noël], è quello di aver posto in evidenza […] come soggettività e oggettività siano elementi cooriginari dell’esperienza e che l’affermazione della realtà del mondo come di un “fatto” non viene per nulla inficiata dalla contemporanea affermazione del “fatto” di un io aperto alla sua contemplazione» (pp. 186-187).
Per salvaguardare il senso comune dall’accusa di sapere “ingenuo”, non fondato criticamente, Del Grosso, oltre ad ammettere come paritarie le prime due certezze liviane in quanto cooriginarie, «pena l’assunzione dogmatica di un mondo extra-soggettivo» (p. 162), suggerisce di interpretare le res della prima verità come i vari percepiti individuali e tutte le possibili intellezioni di essenze che possano generarsi nel nostro intelletto dalle sensazioni.
Anche se concordo con del Grosso sulla cooriginarietà delle prime due verità del senso comune[8], nondimeno condivido la tesi secondo cui la coscienza non è un organo, come ritengo comprovi il fatto che essa è sempre autocoscienza e che l’autocoscienza si bipartisce in coscienza cosciente e coscienza coscienziata, ma si tratta sempre della stessa coscienza, sicché dire che l’autocoscienza è, giustamente, coscienza di coscienza non indica un processo di riflessione indefinita, bensì un’autotrasparenza immediata, al cui interno si distinguono l’aspetto dell’attività dell’autotrasparire e quello dell’obiettività di ciò che traspare[9]. Da questo punto di vista, ritengo che l’ordine tra le prime due certezze del senso comune possa essere mantenuto, allo scopo, peraltro molto caro a Livi, di porre in primo piano il carattere intenzionale della coscienza come originaria apertura alla realtà, trasparenza della realtà sia in funzione anti-gnoseologistica e anti-idealistica sia per evitare di inficiare il realismo partendo dall’io per poi magari assumere una posizione husserliana di epoché del mondo. Inoltre, tale ordine è “testimoniato” dalla parabola della storia della filosofia occidentale: nonostante il soggetto sia tematizzato sin dal pensiero antico-medievale, la sua tematizzazione è implicata in quella dell’oggetto con predominanza di quest’ultima (Aristotele prima elenca i significati dell’essere e solo quando arriva all’essere come vero lo esclude dalla trattazione metafisica in quanto il vero è nell’intelletto e concerne la logica), mentre è il pensiero moderno e contemporaneo a portare l’attenzione sul soggetto, ribaltando la predominanza rispetto alla filosofia precedente. Infine, che la certezza immediata sia anche della separazione tra mondo/oggetto e io/soggetto mi sembra emerga dalle considerazioni di Mercier precedentemente esposte: come la certezza delle verità di ordine ideale è indipendente da quella dell’esistenza di sé (poiché quest’ultima è la condizione ontologica sine qua non dell’atto di pensiero, ma non della verità ideale che ne è l’oggetto) così il concreto oggetto dell’atto di conoscenza è esistente anche qualora il soggetto, non esistendo, non lo concepisse.
Conclusioni
In sintesi, per Del Grosso il realismo metafisico può essere ripreso e riaffermato su base tomista solo sviluppando i risultati della rielaborazione della gnoseologia operata dal neotomismo di Lovanio. Infatti, l’obiettivo di restituire al realismo metafisico la «dignità di sapere “epistemicamente giustificato” – per dirla con il linguaggio della filosofia analitica (epistemic justification) – pare essere da Noël sufficientemente raggiunto» (p. 144).
Sono favorevole ad andare con Tommaso oltre Tommaso accettando la cooriginarietà soggetto-oggetto quale rielaborazione del sc, di cui, però, valorizzo tutte e 5 le vsc. Se questa è la via per porre il realismo metafisico al riparo dalle critiche che gli sono state rivolte dal pensiero moderno e contemporaneo e nel contempo per poterlo riaffermare come teoreticamente più solido e più valido rispetto all’impostazione antimetafisica del pensiero debole contemporaneo e del pensiero postmoderno, tuttavia ritengo che la gnoseologia dell’Aquinate sia salvabile già nel modo indicato da Covino.
Inoltre, propugno un’accezione più ampia del realismo metafisico che possa mettere a frutto la convergenza tra tomismo, neotomismo e neoplatonismo cristiano.
La differenza di fondo tra la gnoseologia tomista, basata sull’astrazione delle essenze dal dato sensibile come operazione compiuta dall’intelletto agente, e quella neoplatonico-cristiana, di matrice agostiniana, fondata sull’illuminazione, è così riassunta da Del Grosso (pp. 43-44, 80-81): siccome le verità eterne sono conosciute dall’intelletto umano quali riflessi della luce irradiata da Dio su di esso, nell’apprenderle non le ricava per astrazione dall’esperienza sensibile, che è solo la causa occasionale dell’emergere di quelle verità nella coscienza, in cui sono già presenti, non in quanto innate né per reminiscenza di uno stato dell’anima anteriore all’incarnazione, ma in virtù della presenza “nascosta” del Verbo divino nell’intelletto umano quale “maestro interiore” che le svela. Di conseguenza, l’intelletto in Agostino, in quanto illuminato, appare essere passivo e non agente rispetto alla conoscenza (p. 116). Invece, per il realismo metafisico tomista la necessità delle proposizioni è fondata sulle caratteristiche costitutive dell’essere, a iniziare dall’incontraddittorietà, proprie anche dell’ente contingente in quanto ente: sebbene divenga, se è non può non essere. Siccome, per lo studioso, il realismo gnoseologico riguarda una certa concezione dell’astrazione, il neoplatonismo risulterebbe almeno de facto non considerabile come una forma di realismo metafisico.
A parte il fatto che, a mio parere, non si può identificare il realismo metafisico solo con le teorie che ammettono l’astrazione dei concetti universali dai dati sensibili[10], è altresì vero che si sono effettuati nella tradizione neoplatonico-cristiana posteriore a Tommaso tentativi di conciliare le due posizioni gnoseologiche e a me pare piuttosto ben riuscito quello di Cusano [11]. A mio avviso, la tradizione neoplatonico-cristiana arricchisce notevolmente il realismo metafisico, tanto più se la sia fa interagire teoreticamente con quella tomista e neotomista. Faccio solo un esempio: il neoplatonismo costituisce nel pensiero antico, medievale rinascimentale – da Plotino a Cusano – l’eccezione all’approccio che rende la trattazione dell’oggetto predominante su quella del soggetto. In esso la conoscenza della verità avviene secondo l’itinerario exterius > interius > superius: si parte dagli enti di esperienza, le res che sunt, e attraverso la conoscenza della loro verità nell’interiorità del soggetto si perviene all’Essere assoluto. Qui il focus è prevalentemente sull’oggetto; nel contempo, la riflessione filosofica inizia dall’intuizione prediscorsiva di concezioni comuni della mente quali evidenze evidenze immediate, che vengono dispiegate dalla ragione discorsiva per pervenire all’intuizione intellettiva della verità di partenza nel suo essere fondata in Dio [12]. Tematizzando le tre fasi della dinamica tra intelletto intuitivo e ragione discorsiva nei tre momenti dell’intuizione iniziale, della sua esplicazione riflessiva e dell’intuizione finale superiore in cui questa sfocia, i neoplatonici si concentrano sul soggetto, pur senza dimenticare l’oggetto. In altre parole, l’interiorismo neoplatonico si rivela massimamente conforme alla cooriginarietà delle prime due vsc rilevata da Del Grosso.
Concordo, infine, con Covino nel ritenere che lo studio di Del Grosso abbia il pregio di condurci all’interno del processo conoscitivo per approfondire la riflessione sui rapporti tra conoscenza sensoriale e intellettiva, contribuendo a farci capire qualcosa in più sul mistero che noi siamo.
Matteo Andolfo
Note al testo
[1] Cfr. F. Vanni Rovighi, Istituzioni di Filosofia, La Scuola, Brescia 19873, pp. 14-18.
[2] G. Barzaghi, La Trinità. Mistero giocato tra i riflessi, ESD, Bologna 2016, p. 130.
[3] Dignità che non avevano in Kant, il quale considerava le forme dell’intelletto (concetti) e della ragione (giudizi) non entia rationis, ma mere funzioni-meccanismi regolativi, limitava l’intuizione al fenomeno sensibile e l’intuizione pura alle forme a priori della sensibilità.
[4] Cfr. F. Renzi (ed.), Vero e falso realismo, «Sensus Communis», 24, Leonardo da Vinci, Roma 2016.
[5] Come afferma A. Livi, Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto, Leonardo da Vinci, Roma 2016, p. 170: «se la conoscenza è essenzialmente un rapporto tra il soggetto e l’oggetto, allora non è essenziale che la conoscenza sia comunicata», è indipendente dall’espressione linguistica del giudizio, che può essere, quindi, resa in più modi.
[6] È la riformulazione della terza e quarta vsc liviane che riprendo da M. Andolfo, Il contributo del neoplatonismo al quadro argomentativo anagocico in filosofia e teologia, in «Divusi Thomas», 119/1 (2016), pp. 198-204 e che ho attinto dalla tematizzazione dell’evidenza immediata della distinzione tra i nostri atti e ciò che accade in noi in K. Wojtyla, Persona e atto, Bompiani, Milano 2001.
[7] Ho approfondito la questione della quinta certezza del senso comune in miei due saggi, a cui rinvio, dato che essa non è al centro della trattazione di Del Grosso: M. Andolfo, Dialettica neoplatonica e logica aletica nel “Proslogion” anselmiano, in «Sensus Communis», 23 (2016), pp. 37-90; Id., La moderna logica aletica tra realismo tomistico e interiorità neoplatonica, postfazione di A. Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2018.
[8] M. Andolfo, Verità e contemplazione: la fecondità teoretica della logica aletica, in G. Covino – F. Renzi (ed.), Il sistema di Logica Aletica, Leonardo da Vinci, Roma 2020, pp. 85-109.
[9] D. Sacchi, La coscienza dell’uomo è spirito, in «Studi cattolici», 647 (2015), pp. 46-47, sostiene che la nostra, essendo sempre «coscienza di un contenuto», è solo totale trasparenza dell’oggetto conosciuto, a cui non sovrappone nulla di se stessa. A tal fine la natura della coscienza deve consistere nel non avere una natura propria, che oscurerebbe parzialmente il conosciuto, e proprio per questo non può essere corporea, perché per esperienza sappiamo che gli oggetti fisici esterni agiscono fisicamente sui corpi modificandoli, compreso il corpo del soggetto conoscente. Pertanto, una coscienza materiale non potrebbe essere mera trasparenza, come invece si sperimenta che essa è.
[10] Individuerei i seguenti tratti costitutivi del realismo metafisico: 1) l’intenzionalità:la coscienza è aperta all’essere e non è chiusa con le proprie idee; 2) l’esistenza del mondo è indipendente da quella del soggetto-io che lo pensa; 3) l’esperienza è presa nella sua integralità. Del resto, nella storia della filosofia occidentale il realismo metafisico costituisce un “paradigma” concorrente e alternativo a quelli dello gnoseologismo e dell’idealismo, da cui diverge nell’asserire che il pensiero è il trasparire dell’essere, ossia che l’essere non è né “esterno” né “interno” rispetto al (prodotto dal) pensiero. Sulla base di questi tre tratti costitutivi, l’intera tradizione platonica è considerabile come realismo metafisico.
[11] In proposito a M. Andolfo, La moderna logica aletica tra realismo tomistico e interiorità neoplatonica, cit., pp. 75 ss.
[12] In proposito rinvio a Id., Il contributo del neoplatonismo al quadro argomentativo anagocico in filosofia e teologia, in Id., Dialettica neoplatonica e logica aletica nel “Proslogion” anselmiano, cit., pp. 54-58.

Il problema della natura della conoscenza astrattiva e del suo rapporto con l’esperienza sensibile è senza dubbio uno dei temi più importanti della storia del pensiero occidentale e diviene fondamentale soprattutto a partire dall’età moderna.
L’intelletto ha il potere di cogliere essenze universali dalle cose del mondo ed elaborare, a partire da esse per mezzo di inferenze logiche, ulteriori conoscenze, altrettanto universali; un potere che rende l’uomo in qualche misura autonomo rispetto alla contingenza del dato concreto e pertanto intrinsecamente libero.
Con questo lavoro, l’Autore s’impone un doppio compito: il primo è di carattere storico, e consiste nel cercare di offrire al lettore una sintesi generale di quelle che ritiene essere le principali proposte in cui si articola il neotomismo; il secondo scopo è quello di tentare di focalizzare come il tomismo abbia nella sua posizione gnoseologica di partenza delle aporie che rendono ogni sua fondazione critica un programma fallimentare