Forse avrete notato davanti ai nostri monumenti e nei nostri musei, degli stranieri che tengono in mano un libro aperto, un libro in cui trovano descritte, senza dubbio, le meraviglie che li circondano. Assorbiti in questa lettura non sembrano talvolta dimenticare, per essa, le bellezze che erano venuti a vedere? È così che molti di noi viaggiano attraverso l’esistenza, gli occhi fissi su delle formule che leggono, come in una specie di guida interiore, trascurando di guardare la vita per regolarsi semplicemente su ciò che se ne dice, e pensando solitamente a delle parole piuttosto che alle cose.
H. Bergson, Le bon sens et les études classique (1895).
In Europa nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento vi fu una decisa reazione al positivismo: moltissimi pensatori si resero conto che alcuni temi non potevano essere affrontati seguendo il metodo delle cosiddette scienze positive e che la razionalità non poteva essere rinchiusa negli angusti limiti della sola osservazione fisica.
Il contributo di Bergson è, in questo senso, di notevole interesse, soprattutto perché ha richiamato, in un periodo segnato dal suddetto dogmatismo scientista, le menti ad una riflessioni più attenta sul senso ultimo della vita e invitando ad un “vissuto autentico”.
Un invito quanto mai attuale.
Giovanni Covino