Il conte di Montecristo e la memoria del cuore

L’animo umano è un mistero profondissimo. Come quei mari che il marinaio solca quotidianamente restano, nonostante il bagaglio di esperienza, almeno in parte, ai suoi occhi sconosciuti, così l’uomo riflettendo sul proprio essere ammira stupito la bellezza di tanta profondità, ma ammette, al tempo stesso, la sua ignoranza dinanzi al mistero che egli è.

Ognuno giunge a far proprio il celebre detto agostiniano: «Mihi quaestio factus sum» (Confessioni, X, 33, 50).

Qualcosa, tuttavia, possiamo dire di noi stessi e, costanter et non trepide, dalle parole dell’Ipponate, giungere ad una visione più chiara, mai certo perfettamente compiuta, di queste profonde acque e aprire così uno squarcio per illuminare le zone d’ombra che sempre si presentano quando, forte e potente, risuona la domanda Chi è l’uomo?.

Questa domanda, che ha animato e anima tante menti, risuona con la stessa forza in quel romanzo capolavoro della letteratura francese venuto fuori dalla penna di Alexandre Dumas (1802-1870): Il conte di Montecristo.

Ispirato in parte a fatti realmente accaduti, il testo di Dumas è – come sottolineato da diversi studiosi – un viaggio nell’animo umano, il tentativo di mettere a nudo, di tradurre in parole le passioni che muovono le azioni: amore e odio, pietà e cinismo, perdono e risentimento, sono alcuni dei sentimenti che popolano i luoghi di un testo davvero unico, giustamente considerato un classico.

Al termine di questo lungo viaggio (l’edizione Einaudi è di ben 1217 pagine), il lettore assapora una nuova libertà, come il protagonista Dantès dinanzi all’alba di un nuovo giorno dopo la prigionia:

«A poco a poco il vento si placò; il cielo spinse verso occidente grosse nuvole grigie e, per così dire, stinte dal temporale; ricomparve il sereno, con le stelle più scintillanti che mai; ben presto, verso est, una lunga striscia rossastra tracciò all’orizzonte ondulazioni di un colore blu nero; i flutti sussultarono, un improvviso chiarore corse sulle loro cime spumeggianti e le trasformò in criniere d’oro. Era l’alba».

A. Dumas, Il conte di Montecristo, Einaudi, Torino 2015, p. 198.

La forza del romanzo sta tutta nel saper dipingere i movimenti della vita e questo continuo oscillare dell’animo: dalla più cupa disperazione alla felicità, dall’abisso della paura alle vette del coraggio, dal vile oltraggioso tradimento ai gesti più nobili e altruistici. Trattasi di un testo che, oltre allo spaccato della società dell’epoca, presenta qualcosa che riesce a conquistare il lettore sempre: la sete di giustizia e verità, il peregrinare alla ricerca di una meta, la volontà di trovare un senso alle proprie sofferenze, perseverare nel bene nonostante i fallimenti. Ogni figura è messa lì nel testo per incarnare una o più situazioni e per questo riesce ad affascinare ancora e ancora…

Verità, – mormorò il conte, – Dio ti ha creata per sopravvivere ai flutti e alle fiamme. Così, il povero marinaio vive nel ricordo di chi racconta la sua terribile storia; la si narra accanto al focolare e si rabbrividisce nel momento in cui attraversa l’aria per inabissarsi nel mare.

Il conte di Montecristo, p. 1169.

Il pensiero del protagonista, nelle pagine finali, corre veloce e ripercorre gli accadimenti e i sentimenti di cui sopra, ma c’è qualcosa che rimane sempre e sopravvive «ai flutti e alle fiamme», qualcosa che – dice Dantès – «per nulla al mondo vorrei perdere» e questo “qualcosa” è la «memoria del cuore» (p. 1163).

Questa memoria ci racconta chi siamo, ci conduce, sussurrando con discrezione la direzione, verso il nostro proprio luogo, è la memoria di un desiderio che da sempre alberga in noi: il desiderio di trovare, nel chiaroscuro dell’esistenza, la Verità e, quindi, il senso del nostro cammino, la felicità piena e duratura.

Giovanni Covino

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Giovanni Covino, autore e curatore del blog.