V. Chi ha assassinato Platone?



V. 1.

Era mattina. E il sole splendeva alto sulla città di Atene. Socrate fu il primo a alzarsi, dopo quella surreale notte. I tre filosofi erano rimasti svegli a pensare sul da farsi e a riflettere sugli indizi che Socrate aveva scovato durante la sua breve indagine.

Certamente la prima cosa da fare, era mettersi di nuovo alla ricerca dell’uomo misterioso.

«Socrate – disse Tommaso – ieri sera, dopo aver parlato, ho ripensato all’uomo che aveva conosciuto Platone. Oltre alla possibilità di uno straniero, dobbiamo vagliare anche un’altra ipotesi: è possibile che l’uomo abbia viaggiato come noi nel tempo».

«Per Zeus – disse Socrate, mentre un cruccio comparve sul volto di Tommaso e un mezzo sorriso sulle labbra di Immanuel – sai che potrebbe essere proprio così. Ora che ci penso questo spiegherebbe la stranezza nel vestirsi dell’uomo misterioso».

«Esatto».

«Ma come possiamo trovarlo?».

«Credo non sia possibile trovarlo, Socrate. Dopo l’omicidio credo sia andato via…sia ritornato nel suo tempo…».

Socrate ascoltò quelle parole e un velo di tristezza calò sul suo viso. Aveva pensato di riuscire quantomeno a fare giustizia.

«Possiamo però – continuò Tommaso – fare un’altra cosa: tornare indietro al giorno del delitto».

«Come?» – disse Kant, con aria sorpresa.

«Quando siamo arrivati, caro Kant, mentre eri tutto preso dalla bellezza della Grecia antica, io ho cercato di capire il mistero di questo libro. E ieri notte, mentre riflettevo, con in sottofondo il dolce tonfo delle tue narici, ho capito che il mistero è tutto nella scrittura. Guardate».

Tommaso mostrò ai due alcune pagine. Vi erano dei simboli che nessuno dei tre riconobbe, ma i numeri erano ben chiari.

«Non so cosa vogliano dire queste che presumibilmente sono delle parole, ma questi numeri sono date. Ecco».

Tommaso mostrò loro tre pagine e in particolare gli anni. Nella prima c’era 1781, nella seconda 1258, la terza, invece, era la data dell’omicidio di Platone, 403.

«Quest’ultima pagina è quella che sia io che Immanuel abbiamo aperto quando abbiamo trovato il libro…ed è per questo che entrambi ci siamo trovati qui».

«Quindi scrivendo sulle pagine del libro la data – disse Kant – possiamo raggiungere il tempo desiderato».

«Credo sia proprio così…dobbiamo solo provare…» – chiosò Tommaso.

Socrate prese in mano il libro e scrisse su una delle pagine la data del giorno del delitto. Appena finito, i tre vennero investiti da una luce strana e intensa: in un batter d’occhio vennero trasportati indietro tramite un vorticare fatto di piccole strisce bianche e azzurre.

Dopo quello che sembrava un intervallo brevissimo, Socrate si trovò steso su Tommaso che a sua volta schiacciava Kant.

«Per Zeus! – disse il filosofo greco – Un atterraggio coi fiocchi».

«Sì, proprio così» – rispose Kant con una punta non troppo velata di ironia.

«Orsù, mettiamoci al lavoro. Dobbiamo trovare il posto dov’è rinchiuso Platone».

«Sì, andiamo» – disse Tommaso, mentre Kant si stiracchiava e cercava di riprendersi dallo schianto.

«Allora, la tunica di Platone – disse Socrate – aveva dei segni di terriccio ed era un terriccio particolare. Lo si trova solo lontano dalla città, ma in zone ben precise».

«Pensiamo – disse Tommaso rivolgendosi a Socrate – a ciò che ti ha detto la madre di Platone. Era preso, nonostante tutto, dalla conversazione con il nostro uomo misterioso. Noi, che abbiamo letto i dialoghi di Platone, sappiamo che amava/ama molto parlare per immagini. Dimmi, Socrate, il tuo prediletto ha mai parlato di qualcosa in particolare, di un’immagine che potrebbe esserci di aiuto?».

«…fatemi pensare…».

Socrate stava cercando nei cassetti della sua memoria le conversazioni avute con Platone. Kant e Tommaso scrutavano il volto del maestro e ammirati aspettavano.

«Eureka! – disse Socrate – Platone mi parlava sempre della scoperta della verità usando l’immagine di una caverna e, non tanto tempo fa, mi ha mostrato un luogo…forse quando ha parlato con lo straniero ha pensato bene di fare la stessa cosa…».

Così, Socrate senza perdere tempo, s’incamminò, con passo svelto, mentre Tommaso e Kant lo seguivano. Dopo poco arrivarono sul posto.

La caverna aveva un ingresso non molto ampio, intorno una serie di arbusti secchi e, spostandosi un po’ di lato, si poteva ammirare la città di Atene stendersi in tutta la sua bellezza. Con prudenza i tre entrarono. Si sentivano delle voci provenire dal fondo e una luce fioca. Socrate riconobbe immediatamente Platone e si voltò verso gli altri due facendo capire che avevano trovato il posto giusto. Quando si avvicinarono, videro i due uomini: uno era proprio Platone, posto a terra con le mani legate dietro la schiena, l’altro corrispondeva alla descrizione dell’uomo misterioso. All’improvviso, mentre i due parlavano, l’uomo colpì con forza Platone. Socrate non trattenne più il suo impulso e si butto giù per una leggera discesa fatta di terra e pietra, ne afferrò una e la lanciò, colpendo, con un’incredibile precisione, la testa dell’uomo, che cadde a terra tramortito. A quel punto, Tommaso e Kant intervennero e si gettarono sull’uomo prima che si potesse rialzare. Lo bloccarono a terra, mentre Socrate soccorreva Platone.

«Perché?» – chiese Socrate, guardando dritto negli occhi l’uomo misterioso.

«Come perché? Volevo eliminare alla radice il problema metafisico per eccellenza. Certo, caro Socrate, non nego che il bersaglio principale fossi proprio tu, ma il tuo “non scrivere” ha facilitato la scelta. Poi, ad essere sincero, tra non molto ci penserà la tua cara e amata città» – disse l’uomo misterioso ridendo.

«Cosa vuoi dire? Non sai che la filosofia seppellisce sempre i suoi becchini».

«Nulla, nulla».

«Chi sei? E come sei arrivato qui?» – chiese Kant, che si ergeva, nonostante l’altezza, come un giudice dinanzi all’uomo.

«Mi chiamo Friedrich, Friedrich Nietzsche».

«Dimmi, come sei arrivato qui?».

«Come voi, cari Kant e Tommaso».

«Conosci i nostri nomi?».

«Certo, ho fatto visita anche a voi. Ho visto il giorno della pubblicazione della tua prima critica, caro Kant. Invece, di Tommaso, ho visto la sua disputa sulla verità…la verità che inutile orpello».

«E perché sei venuto qui? E come hai trovato il libro?»

«In verità, il libro ha trovato me. Un giorno si è presentato un uomo vestito con uno strano abito: mi ha raccontato di essere un mio grande estimatore e di venire da un lontano futuro. Lì, non so per quale diavoleria, sono riusciti a trovare il modo di viaggiare nel tempo. Lui voleva conoscere il suo mito. Quell’evento così strano confermò le mie parole:

Conosco – iniziò con tono declamatorio – il mio destino. Un giorno si riconnetterà al mio nome il ricordo di qualche cosa di terribile, d’una crisi come non ce ne fu mai del più tremendo urto di coscienza, d’una sentenza pronunciata contro tutto ciò ch’era stato creduto, preteso, santificato fino allora. Io non sono un uomo: sono della dinamite.

Fu in quel momento che elaborai il mio piano. Tagliare alla radice il problema metafisico e la questione del doppio mondo, con tutto ciò che esso storicamente ha comportato. Volevo così liberare l’umanità».

A sentire quelle parole, Kant ebbe, stranamente, uno scatto d’ira e quasi venne meno nel suo compito di giudice. Fu Socrate a fermarlo.

«Caro amico, lasciamo alla giustizia questo compito. Ricorda: è meglio subire che fare il male».

Fine

V. 2.

Paolo Salaris tirò quasi un sospiro di sollievo leggendo l’ultima frase così vicina al suo lavoro e così difficile da applicare nella vita di tutti i giorni. È vero aveva letto un racconto che parlava di persone realmente esistite, ma in un mondo che non è mai esistito e mai esisterà. Tuttavia, quel racconto giallo-fantastico conteneva un prezioso insegnamento: ogni persona è importante non solo per il suo presente, ma anche per il futuro di altri.

Fuori, intanto, la neve, silenziosa e senza sosta, cadeva sulla città di Torino, coprendola di un bellissimo manto soffice e bianco, intervallato qua e là da qualche impronta di gatto. Un altro Natale si avvicinava, un Natale da passare nel tipico tepore delle case addobbate e in compagnia di familiari e amici. Il commissario si alzò e si avvicinò alla finestra, con il libro in mano: mirava i fiocchi posarsi sulle vie, sui muri, sui tetti; poi il suo pensiero andò ai preparativi del matrimonio, ormai prossimo, e sentì la gioia crescere. Si voltò e si diresse verso la libreria del proprio appartamento, mise il testo appena letto accanto alle opere di Platone, che custodiva gelosamente, e pensò nuovamente a quanto l’umanità avrebbe perso se quanto scritto in quelle pagine fosse realmente accaduto. Tirò quasi un sospiro di sollievo. Quel racconto – pensò – era, in fin dei conti, un racconto sulla custodia preziosa della memoria.

Poi squillò il telefono.

Era Sara.

Giovanni Covino


Note al testo

I personaggi principali del racconto sono i filosofi: Socrate (470/69. – 399 a. C.), Platone (428/27 ca. – 348/47 a. C.), Tommaso d’Aquino (1225-1274), Immanuel Kant (1724-1804), Friedrich Nietzsche (1844-1900).

Altri personaggi: Cebete e Cherefonte, allievi di Socrate, Santippe, moglie del filosofo greco.

Per la descrizione di Socrate presente nel I capitolo cfr. Platone, Teeteto, 143 e; Menone, 80 a; Simposio, 215 b; sempre nel primo capitolo, il riferimento all’ordine nella domanda di Socrate è una citazione di Platone, cfr. Filebo, 28 e. Nel capitolo V:«la filosofia seppellisce sempre i suoi becchini» è una citazione di Gilson; la citazione di Nietzsche è tratta da Ecce Homo, Adelphi, Milano 1991, p. 127; sulla questione “è meglio subire che fare ingiustizia”, cfr. Gorgia, 472 d – 511 b.

La storia, naturalmente, è frutto di fantasia.

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