
Questo racconto, come i precedenti, ha come protagonista un filosofo: questa volta è il turno di René Descartes. Se non hai letto la nota preliminare clicca qui.
Come già detto, eccezion fatta per i riferimenti presenti in questa nota e quelli che pubblicherò alla fine, il racconto è il frutto della fantasia dell’autore.
Se non ha letto il primo capitolo:
III.
10 novembre 1971
…poi si svegliò di colpo, tutto sudato.
La luce artificiale, che automaticamente si accendeva alle 7 del mattino, illuminava e dava un po’ di calore all’ambiente freddo e asettico della stanza.
Non si spiegava il motivo di quel terribile sogno. «Una morte davvero brutta quella di Cartesio» – pensò tra sé. Si alzò e prese subito il camice bianco che aveva appoggiato sulla sedia. Lo indossò, dopo averlo leggermente stirato, poi si diresse in bagno per sciacquare il viso e riprendersi e lavar via l’inquieta sensazione che aveva come appiccicata addossa, quasi come la bava del genio maligno sognato. Si guardò allo specchio e cercò di resettare tutto per affrontare una nuova giornata di lavoro lì al MER.
La ricerca dell’Istituto MER (un acronimo che stava per Mind & Reality), situato in una località segreta degli Stati Uniti, era stata pensata e realizzata da un gruppo di scienziati che perseguivano idee ambiziose, ma – se così si può dire – poco ortodosse e, soprattutto, prive di riferimenti morali: il bene della scienza e il progresso prima di tutto. Questo il loro motto.
Il dottor Henry Miller lavorava lì da qualche anno e in quelle settimane era alle prese con la fase finale di un esperimento: gli scienziati erano riusciti a tener in vita un cervello in una vasca ed erano riusciti ad osservarne il funzionamento. Il capo di quella ricerca era proprio Henry, coadiuvato da un altro medico e filosofo italiano, il dottor Renato Della Torre.
Dagli esperimenti, gli scienziati erano riusciti a far percepire al cervello una realtà che in verità non esisteva. L’organo proiettava sullo schermo di un pc quelle che erano le sue “visioni”: persone, oggetti, il cielo ecc., scorrevano, ma l’esperienza di quel cervello era in tutto e per tutto il risultato degli impulsi elettronici che viaggiavano dal computer alle terminazioni nervose del cervello che placidamente galleggiava in una vasca. L’obiettivo della ricerca era quello di decostruire il concetto di realtà: un esperimento reale dell’ipotesi cartesiana del genio maligno. E magari un giorno controllare il cervello delle persone. Naturalmente, tutto per il bene della scienza e della tecnica.
«Forse – pensava tra sé Henry, mentre si guardava ancora allo specchio – il motivo di quell’incubo è proprio la ricerca che si sta per concludere».
Doveva essere proprio così. Sorrise e aprì la porta della camera 13. Il trambusto del lavoro quotidiano lo svegliò completamente e lo introdusse immediatamente alla realtà del suo ambizioso progetto.
«Buongiorno» – disse, rivolgendosi ad uno dei suoi collaboratori.
«Buongiorno, dottore. Dormito bene?».
«Eh…non tanto».
«Dormirà stanotte. Siamo quasi alla fine del nostro esperimento».
Henry guardò soddisfatto la sua macchina e vedeva, con uno strano sorriso stampato sul volto, il cervello galleggiare nella vasca, con innumerevoli fili collegati alle terminazioni nervose. Su un grande schermo passavano una dopo l’altra innumerevoli immagini.
«Dov’è Renato?» – chiese con un tono vagamente distratto.
«Non so. Non si vede da ieri sera».
«Strano».
«Sì, è vero…».
I due continuarono per qualche minuto a sistemare cavi e, nel mentre, prendevano appunti su quello che succedeva al cervello. All’improvviso, il lavoro certosino e inquietante che stavano svolgendo venne interrotto dalle grida di una donna.
Tutti si diressero all’unisono, come un gruppo di robot, verso la donna che si trovava sulla soglia della camera 7, la camera di Renato.
Giovanni Covino



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