VI.
La chiesa di San Domenico Maggiore era gremita. Le linee gotiche, il profumo di incenso e il gioco di luci e ombre richiamavano la folla accorsa al silenzio e alla preghiera.
Il commissario era seduto al primo banco. Gli occhi rossi e gonfi. La testa leggermente chinata verso il basso. Al centro, poco prima dell’altare della navata centrale, la piccola bara bianca.
Salaris ascoltava.
«Ecco – iniziò il sacerdote con voce ferma, ma discreta – abbiamo appena letto un brano di san Paolo, uno dei brani più forti e allo stesso tempo più duri. In queste parole vi è un confronto diretto con il mistero della vita. Rileggiamo:
Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Un brano davvero commovente. Inizia con una domanda: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” e finisce con una risposta chiara: “Niente e nessuno”. Come dicevo, un brano commovente, ma duro. Come possono la persecuzione, l’angoscia, la fame non creare problemi? Come può la morte non separare? Come? È questa la domanda delle domande. Perché Paolo, duemila anni fa, scrisse queste parole? Su cosa fondava la sua speranza? L’unica parola di Paolo è l’amore di Cristo».
Se non hai letto il primo capitolo:

Dopo una breve pausa di silenzio, visibilmente commosso, il sacerdote continuò:
«Vedete, mi ha sempre colpito, la pagina evangelica che abbiamo letto: Gesù, che distrugge con la sua morte in croce la morte stessa, si commuove dinanzi alla dipartita di Lazzaro e alla sofferenza delle sorelle. Questo ci fa capire quanto importante sia la vita per Dio. E getta una luce nuova sul brano di Paolo. La risposta non deve essere letta come una semplice soluzione consolatoria, come dire “su, coraggio…non ci sono problemi…”. Al contrario: la morte è una cosa estremamente seria, perché seria per Dio è la vita, è il nostro essere, il bene che riceviamo e facciamo, la giustizia che ricerchiamo, l’amore che doniamo. Cristo risponde a quelle domande solo perché conosce realmente, conosce, potremmo dire di prima mano, la nostra natura, l’intimità dell’essere di ogni cosa. Sa quale grande strappo rappresenti la morte nell’ordine della creazione e le sue lacrime per la morte dell’amico Lazzaro sono lì a dimostrarlo. È vero “la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli” – dice il profeta Isaia; ma non dimentichiamo che su di noi “risplende il Signore” ».
Salaris, impassibile, ascoltava. Pugni serrati poggiati sulle ginocchia. Sguardo fisso sulla piccola bara. Il suo animo inevitabilmente vacillava, anzi si trovava in una vera e propria tempesta. Sembrava non poter tenere il timone. Comprendeva le parole, la forza dirompente della realtà era come un fiume in piena nella sua anima.
«Non c’è una ricetta preconfezionata per affrontare il dolore – concluse il sacerdote –. C’è solo il nostro animo che si pone dinanzi allo sguardo di Cristo, che contempla le sue lacrime per Lazzaro e che infine vede la luce in quella parola che dice tutto l’amore di Cristo: “Vieni fuori!”. Questo è l’amore di Cristo».
Alla fine della solenne celebrazione, tutti, nel silenzio della chiesa, si misero in fila per salutare Salaris. La folla che riempiva le tre navate non era più una massa amorfa: la stima e il bene si riversavano nel rituale passaggio fatto di sguardi, strette di mano, abbracci.
Era l’amicizia che prendeva una forma ben definita. L’espressione di una vicinanza che andava a superare l’anonima presenza. Un tu che si rivolgeva ad un altro tu. Non il semplice gesto di un’ipocrita prossimità.
Tutti conoscevano l’uomo.
Tutti vedevano il suo dolore.
[continua]
Giovanni Covino



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