Il racconto – come i precedenti (clicca qui per altri racconti) – è frutto di fantasia dell’Autore, anche se i personaggi principali sono realmente esistiti. Di seguito alcune note importanti per la comprensione del testo…[per leggere la Nota preliminare clicca qui].
I.
Torino, 5 gennaio 1889
La mattina si presentava limpida. Nemmeno una nuvola macchiava l’azzurro del cielo di Torino. I raggi del sole mitigavano il freddo intenso di gennaio toccando delicatamente la città, mutandone l’aspetto e definendo ogni piccola linea.
Un’antica e sempre nuova bellezza si presentava a Friedrich Nietzsche che, come di consueto, era pronto per la passeggiata del mattino. Di lì a poco, nello splendido parco del Valentino, lontano dal trambusto cittadino, sarebbe sprofondato nelle sue consuete meditazioni: un fluire quello del pensiero di Friedrich che, parallelo al grande fiume, serpeggiava nel fondo del mistero della Vita alla ricerca di “un perché” di questa terribile ed inquietante potenza.

Talvolta, il pensiero di Friedrich sembrava muoversi proprio come il Po: lento e placido in alcune giornate, gonfio e minaccioso in altre. Un inquieto cammino di confronto e scontro con ciò che il mondo presentava, con ciò che la storia aveva tramandato. Un tentativo di cogliere le singole sfumature di una bellezza presente, ma che sembrava sconosciuta ai suoi occhi. Torino, tra natura e cultura, suggeriva anche questo al filosofo: era di una bellezza tale che riusciva a trasportare i suoi pensieri in alto e a placare, per un attimo, la sua sete.
L’unica bellezza, agli occhi di Friedrich, in grado di superare Torino, l’unica espressione di quella “potenza” di vita, era quella della sua amata, Lou Salomé. Un amore nato tra le vie di Roma: un incontro, un attimo e i due divennero una sola cosa. Lou era per Friedrich fonte di ispirazione continua, supporto in ogni momento: fu proprio questo sodalizio sentimentale e spirituale a tener in piedi il filosofo dopo la difficile decisione di lasciare definitivamente l’Università di Basilea dieci anni prima.
«Lou, io vado» – disse con il consueto garbo Friedrich.
«Aspetta» – Lou si avvicinò al marito e sistemò la grande sciarpa che avvolgeva il collo e parte del mento. Il cappello arrivava giù fin quasi agli occhi. Restavano i grossi baffi che coprivano la restante parte del volto ben rasato.
«Grazie» – disse Friedrich prendendo il suo bastone da passeggio.
I due si salutarono affettuosamente. Friedrich scese in strada. Sentì l’aria fredda sul viso, ma anche il tepore dei raggi del sole. Guardò gli eleganti palazzi della via e ogni piccolo dettaglio, poi s’incamminò su via Carlo Alberto e raggiunse in pochi minuti la piazza dove si ergeva con tratti barocchi Palazzo Carignano. La sua mente iniziò a muoversi seguendo le linee precise di quelle strade, così come le forme di quel palazzo. Imboccò via Po e, tra i portici del passeggio, cominciò a riprendere il filo del suo pensiero, per un attimo perso tra i lineamenti gentili dell’architettura torinese. Friedrich, con passo cadenzato, raggiunse piazza Vittorio Emanuele e la sua vista si fermò sul grande fiume che placido scorreva e sulle colline che si stagliavano sullo sfondo di un cielo azzurro.
Come al solito, restò qualche minuto guardando il paesaggio dal ponte, ammirando il Monte dei Cappuccini e pensando alla meravigliosa vista che quel luogo gli aveva offerto qualche giorno prima.
Si diresse, poco dopo, verso Parco del Valentino e lì sedette ascoltando la natura nella quiete. Aprì il taccuino:
“La vita stessa mi ha insegnato che la fede in un significato ultimo della vita è l’ombra di una grande illusione. Ma l’esistenza non è per questo meno intensa, più bella, più piena”[1].
Il tempo scorreva e s’intrecciava con il rumore dell’acqua e con lo stesso pensiero di Friedrich che sembrava svettare come la Mole Antonelliana sulla città di Torino.
“Non è il fatto di vivere che ci dà la felicità, ma il modo in cui lo facciamo. La vita non è da temere, ma da comprendere”[2].
Friedrich chiuse il taccuino e si alzò. Era quasi giunta l’ora del pranzo e Lou lo stava aspettando, come sempre con il consueto sorriso.
Il pensiero della sua amata lo portò, per un attimo, a riprendere il suo ultimo pensiero: “Forse la vita è in questo legame che trova il suo senso ultimo. Forse l’enigma del mondo è in questa gratuità”. E pensò ad un testo letto da un frate domenicano in una delle chiese di Torino:
“Aperta enim manu clave amoris, creaturae prodierunt”[3].
Sospirò. Poi, s’incamminò.
Rifece lo stesso percorso e giunse a casa in perfetto orario per il pranzo. Aprì la porta e sentì il tepore della casa e il profumo del pranzo. Sistemò con cura cappotto, sciarpa e cappello. Mise al solito posto il suo bastone da passeggio e nel cassetto della madia il suo taccuino. Si diresse verso il profumo del pranzo e chiamò Lou…
Giovanni Covino
[continua con il secondo capitolo]
[1] Testo tratto dall’opera La gaia scienza (1882).
[2] Testo tratto dall’opera La gaia scienza (1882).
[3] «Aperta la mano dalla chiave dell’amore, le creature vennero allo luce». La citazione è tratta da: Tommaso d’Aquino, Scriptum super Sententiis, liber II, prologus.
Nota immagini: Immagine a lato generata con IA – Microsoft Bing. Image Creator. L’immagine di copertina è generata con IA – WordPress.



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