Il racconto – come i precedenti (per la pagina dedicata ai racconti clicca qui) – è frutto di fantasia. Protagonisti saranno i filosofi dell’antica Grecia. Nelle pagine che seguono ho cercato di narrare la storia della filosofia in modo diverso.
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II. La coppa e il gallo
L’alba aveva qualcosa di strano quel giorno. Non sembrava annunciare, come sempre, la bellezza del sole nascente, ma era accompagnata da una sorta di inquietudine. Sembrava che il sole stesse per illuminare un oscuro segreto. Ed era proprio così.
Il sole, nell’anno 399 prima della venuta di Cristo, sorse per svelare al tempo l’animo di una città preda della sua ostinata disperata sete di potere.
«Quindi, mio caro Cebete, pensi che la morte sia la fine di ogni cosa?» – chiese Socrate.
«Socrate, non lo affermo con assoluta certezza, ma non posso negare che molti dubbi assalgono la mia mente. Quando vedo lo scorrere del tempo sul viso di mio padre, il venir meno di mia madre, quando il tempo sembra rodere come un topo ogni cosa, non posso negare di avere qualche dubbio sulla nostra vita dopo la morte».
«Capisco, Cebete, tu temi che l’uomo, come qualsiasi altra cosa materiale, possa scomparire nel nulla. Non c’è dubbio che la nostra pelle solcata dalle rughe profonde sia segno evidente della nostra corruzione…».
«Dunque, confermi i miei timori, Socrate…».
«Aspetta, mio caro amico, sii paziente e segui il mio ragionamento».
Socrate si alzò e iniziò a passeggiare nell’ampio giardino della casa di Platone che aveva deciso di ospitare Socrate e i suoi discepoli per qualche giorno. Con il suo metodo così innovativo, il filosofo aveva creato non pochi problemi in città e molti tra coloro che detenevano il potere non aveva certo nascosto il desiderio di eliminare il problema alla radice.
Socrate avrebbe voluto confrontarsi apertamente con quegli uomini, ma i discepoli – in primis Platone – sono riusciti nell’impresa di convincere Socrate a lasciare Atene per qualche giorno e rifugiarsi nella casa di Platone sulla piccola isola di Anafi.
«Ebbene, ascolta Cebete il mio ragionamento. E anche voi, miei cari amici, seguite il filo che conduce il mio pensiero nei meandri di questo tema tanto affascinante quanto complesso.
«Abbiamo convenuto che la corruzione della materia sia segno del fluire del tempo e che la pelle da liscia e soda in gioventù divenga, come aspro e secco terreno, sempre sede di mortifera siccità».
«È così, Socrate!» – disse uno dei discepoli.
«Vi chiedo: tutto, nella nostra vita, è soggetta al tempo?».
«Socrate – disse Platone – da quanto appena detto, mi pare che le cose stiano proprio in questi termini».
«Rifletti, mio giovane amico, la nostra vita di essere umani è solo mangiare, bere, dormire, invecchiare?».
«No, di certo, Socrate. Ci sono tante altre attività molto più nobili».
«Quali per esempio?».
«Questo che stiamo facendo: essere qui insieme a discorrere, a filosofeggiare non curandoci del tempo che scorre…».
«Dici bene. Questa nostra attività è proprio una di quelle più nobili e che eleva il nostro animo al di sopra delle futilità del tempo. Ora, vi chiedo, come compiamo questa nostra attività?».
«Come dicevi poc’anzi, Socrate, stai riflettendo sul tema della morte…».
«Proprio così, e questo nostro riflettere è come soffermarsi con il pensiero sul mondo, sulle nostre esperienze per comprenderle, per capire come sono fatte».
«È così, Socrate, ma non capisco – ad essere sincero – dove vuoi giungere con questo tuo ragionamento?».
«Amici, pensate a quello che popola il vostro pensiero: l’idea del tempo, l’idea di uomo, l’idea di vita…Ebbene, qual è la natura dell’idea?».
«L’idea di uomo, Socrate, è la stessa per me e per te. L’uomo singolo – come te – è diverso, certo, ma c’è qualcosa che non cambia in me e in te perché posso dire che io sono uomo e anche tu lo sei…».
«Possiamo dire che la tua idea di uomo sia la stessa della giornata appena trascorsa o di quella della settimana scorsa?».
«Certo, Socrate».
«Quindi non è diversa, giusto?».
«Giusto».
«Ciò che non è diverso, cambia nel tempo?».
«Mi pare proprio di no».
«Quindi resta la stessa oggi, come ieri, come domani?».
«Sì, proprio così».
«E ciò che non muta come possiamo chiamarlo?».
«Con il suo contrario: immutabile».
«E se non muta, non è soggetta al tempo come la nostra pelle. Se non è soggetta al tempo, non muore. Come chiamiamo ciò che non muore?».
«Immortale Socrate!».
«Bene, quindi noi possediamo qualcosa che non muore e se noi possediamo questo qualcosa di immortale, possiamo anche dire di possedere una radice simile a questo?».

«Penso proprio di sì» – disse Cebete.
«Allora, riflettete su questo nostro ragionamento in questa bella notte. Domandi riprenderemo il discorso».
Socrate congedò i suoi discepoli.
Tutti si diressero nelle proprie stanze, stupiti e come rapiti da quel magnifico ragionamento. Sembrava, quando Socrate parlava, di poter raggiungere verità tanto nobili da alleggerire il carico pesante dell’esistenza e per un attimo tutti dimenticarono le giornate di esilio a cui furono costretti.
La notte passò silenziosa. Il primo ad alzarsi fu Platone che percorse il corridoio che conduceva alla stanza di Socrate. Aprì la porta e tragica fu la scoperta.
Il corpo di Socrate era lì fermo. Accanto a lui una coppa e un piccolo papiro con su scritto:

L’alba di quel giorno fu accompagnata come sempre dal canto di un gallo: una coppa portò la morte a Socrate, un gallo annunciò l’alba di quel 15 maggio del 399.
Una coppa racchiudeva la tragica povertà della città di Atene, un gallo cantava la speranza del sole nascente, del Bene, fine ultimo del nostro percorso terreno.
Giovanni Covino
Note al testo: immagine di copertina generata con IA (MicrosoftBing). La filastrocca: composizione presente nel testo di Agatha Christie, liberamente modificata e adeguata per il presente racconto. Papiro creato con Canva. Il dialogo è ispirato al cosiddetto argomento della somiglianza presente nei dialoghi di Platone; ho immaginato l’uccisione di Socrate, avvenuta realmente nel 399, in modo del tutto diverso: Socrate viene costretto a bere la cicuta da alcuni sicari in piena notte.



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