E non rimase più nessuno, capitolo VI: L’alveare

Il racconto – come i precedenti (per la pagina dedicata ai racconti clicca qui) – è frutto di fantasia. Protagonisti saranno i filosofi dell’antica Grecia. Nelle pagine che seguono ho cercato di narrare la storia della filosofia in modo diverso, intrecciando giallo, horror e comicità.

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V. L’alveare

Diogene lasciò il Ponto quella stessa mattina. Si diresse verso il monte che si trovava a meno di un giorno di cammino. Il passo era svelto. Lasciate le colline che circondavano la città, Diogene s’inerpicò lungo i vecchi sentieri di quelle montagne coperte da fitte foreste di pini e querce, percorse da pastori e mercanti diretti verso l’altopiano dell’Anatolia.

Quell’anno l’inverno fu particolarmente rigido. La neve si era accumulata sui rami e, attutendo i rumori, rendeva i boschi ancor più silenziosi, quasi irreali. Mentre avanzava, Diogene sentiva il vento fischiare tra le rocce, scricchiolare sotto i suoi passi e far oscillare i rami carichi di ghiaccio. Piccole cornici di ghiaccio lungo i corsi d’acqua catturavano i riflessi pallidi della luce invernale, e l’ombra dei rami sembrava allungarsi come dita. Doveva affrettarsi: la notte sarebbe arrivata in fretta e la luce della luna avrebbe trasformato la neve in una trappola.

La strana comunicazione ricevuta il giorno prima continuava a girargli nella mente, come una specie di sussurro. Non riusciva ad ignorarlo.

Un invito? Un avvertimento?

Diogene rabbrividì.

Non era solo il freddo a percorrergli la schiena.

Cosa voleva dire quel messaggio?

Il cuore, in un miscuglio di ansia e preoccupazione, batteva nel petto all’impazzata. Deciso, proseguì lungo il sentiero che conduceva a quella piccola casa che aveva costruito da piccolo e che era il suo rifugio filosofico.

La vita distaccata esigeva un luogo adeguato. Diogene non desiderava nulla se non amare la vita così com’era. Lo chiamava per questo “il cane”, ma il suo era un modo per togliere il superfluo e raggiungere l’essenziale.

La notte stava per arrivare. Le luci divenivano sempre più deboli. In un attimo, il buio inghiottì il giorno.

Diogene, con la flebile luce della sua lampada, illuminava l’entrata di quella casupola di montagna. Si avvicinò. Rabbrividì, sentendo lo scricchiolio dei rami sotto i suoi nudi piedi. Entrò.

La scena era terrificante. Cinque figure erano lì davanti a lui, avvolte in lunghi mantelli scuri, con volti nascosti dietro orribili maschere che sembravano animarsi di vita propria. La prima aveva una bocca spalancata, occhi enormi e sopracciglia inarcate, come se fosse pronta per divorare qualcosa o qualcuno; la seconda ricordava un drago: denti aguzzi spuntavano, corna contorte si arrampicavano verso l’alto uscendo dal cappello e una lingua biforcuta che si muoveva come se annusasse la preda; la terza maschera era di pelle raggrinzita, la bocca distorta in un urlo; la quarta mostrava orecchie grandi, corna nodose e denti sporgenti, e il ghigno che le deformava il volto sembrava pronto a mordere chiunque si avvicinasse; l’ultima maschera era un’espressione di dolore e terrore puro: la bocca spalancata in un urlo senza suono, occhi come pozzi neri che parevano risucchiare la luce intorno.

“Chi erano? – si chiedeva Diogene. Non erano semplici uomini”.

La cosa più inquietante, però, era uno strano oggetto posto al centro della stanza. Sembrava un alveare, ma non uno qualunque: le sue celle, intagliate nel legno scuro, presentavano piccoli aculei metallici che sporgevano come denti pronti a trafiggere chiunque si avvicinasse. Un leggero ronzio usciva dal meccanismo, come se dentro qualcosa – o qualcuno – stesse muovendosi da un lato all’altro. Ogni tanto, un aculeo vibrava, come se fosse vivo, come se sentisse la presenza delle persone intorno. L’alveare sembrava vivere di vita propria.

Diogene rabbrividì.

«Allora “vecchio cane” – disse l’uomo al centro – sai chi siamo?».

Diogene non rispose.

«Il tuo silenzio è la tua risposta» – disse la maschera di drago.

«Noi – riprese la prima maschera – siamo ombre che vagano per corrompere gli uomini».

«E cosa volete da me?» – disse Diogene, facendosi coraggio.

«Vogliamo che tu smetta di richiamare le persone all’essenziale» – ruggì uno degli uomini.

In quello stesso istante il meccanismo al centro della stanza si animò e iniziò a muoversi: gli aculei entravano e uscivano dalle celle ad una velocità terribile.

«Noi abbiamo bisogno di uomini dediti al piacere, al consumo, alla noia e tu, con i tuoi insegnamenti, ci ostacoli».

«Non sono l’unico».

«Certo, e abbiamo già provveduto. Guarda» – e la machera con il ghigno inquietante mostrò un lungo elenco di uomini saggi. «Questi sono già passati nell’alveare. E il prossimo sarai tu».

Una delle maschere si avvicinò a Diogene…

***

Ora gentile lettore tocca a te: scrivi il tuo finale.

Cosa accadrà a Diogene? Riuscirà a salvarsi o dovrà subire la pena dell’alveare come gli altri saggi?

Commenta oppure scrivi a: g_covino@alice.it e pubblicherò il tuo finale (max 150 parole).

Giovanni Covino


Note al testo: le immagini sono state generate tramite IA (Grok e/o Microsoft Bing – ImageCreator).

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Giovanni Covino, autore e curatore del blog.