Richard P. Feynman (1918-1988) è stato uno dei più brillanti fisici del XX secolo e premio Nobel per la Fisica nel 1965.
Durante la Seconda guerra mondiale fu tra i giovani scienziati chiamati a lavorare a Los Alamos nel cuore del segretissimo Progetto Manhattan. In quel luogo isolato del Nuovo Messico…continua a leggere la nota introduttiva.
I. Bonghi a Los Alamos
Il vento soffiava leggero. L’altopiano era illuminato da una luna piena e chiara e dallo spettacolo di stelle che sembravano, con il loro luccichio, seguire misteriosamente il ritmo dei bonghi che Richard stava suonando fuori dal suo appartamento. Era circondato, come quasi ogni sera, dai bambini.
Hans Bethe, seduto poco più in là, guardava con la solita espressione sorpresa. Con un mezzo sorriso si rivolse alla donna che era al suo fianco:
«Come può suonare i bonghi in questo luogo?».
La donna guardò Hans. Non rispose. Sorrise soltanto, mentre lisciava il pelo di un gatto che da qualche giorno era arrivato in quel luogo solitario.
«Ora, bambini, gran finale, poi tutti a letto» – disse Feynman.
La voce di dieci bambini si alzò e un unico “no” di delusione rintronò nell’aria limpida e serena, ma Richard fu irremovibile. Con il suo stile amabile e con il solito sorriso, spiegò ai piccoli spettatori gli impegni del giorno seguente – scuola per la truppa di marmocchi, per lui ricerche, ricerche e ancora ricerche – poi preparò tutti per il “gran finale”. Una ricca esplosione di gioia tradotta in musica e in canto.
Quando i bambini tornarono alle loro case, Richard rimase un istante a pensare guardando il cielo stellato. I suoi pensieri vennero, però, interrotti dall’arrivo dell’amico Hans.
«Mi spieghi come fai ad avere questo spirito?» – chiese quasi mostrando un leggero fastidio per quella situazione.
«Hans, soffrono già molto per essere chiusi qui. Vogliamo togliere loro anche la leggerezza del gioco e la gioia della musica?».
«Hai ragione» – rispose l’uomo con l’inconfondibile accento tedesco.
«Vedi – riprese Feynman – quando ero piccolo amavo questi momenti. Erano momenti semplici. Niente di particolare, ma – continuò con un tono nostalgico – mi hanno dato la capacità di poter alleggerire la vita. Non solo da bambino, ma anche in seguito». Si fermò qualche secondo, poi riprese: «…e la vita senza la gioia di un gioco innocente che cos’è se non un lento procedere verso la fine?».
Quella domanda retorica portò il sorriso sul viso di Hans che in quei giorni era terribilmente preoccupato.
Hans Bethe aveva qualche anno in più di Richard. Fu il primo a comprendere le grandi capacità del giovane fisico. Feynman, dal canto suo, lo considerava il suo mentore. Non perdeva occasione per ringraziarlo, soprattutto perché Hans era sempre pronto a sottolineare la sua genialità e a difenderlo quando gli altri lo criticavano giudicando il suo comportamento troppo indisciplinato per il mondo preciso, talvolta algido, della scienza.
«Hans, credo sia ora di andare a letto» – disse Feynman sorridendo e colpendo ancora una volta i suoi bonghi.
«Hai proprio ragione. Domani ci aspetta una giornata pesante».
La notte trascorse serena.
Dopo qualche ora di sonno, Richard si alzò dal letto e cominciò a scrivere sulla lavagna che aveva nel suo piccolo appartamento. Lavorò fino all’alba. Quando la luce cominciò a illuminare l’altopiano, preparò, come di consueto, un caffè. Con la tazza fumante in mano, continuava a osservare i suoi calcoli.
Il corso dei suoi pensieri venne però bruscamente interrotto dalle urla di una donna. Richard saltò fuori dal suo appartamento con la rapidità di un felino. Le grida stridevano con la splendida giornata che stava sorgendo.
«È l’appartamento di Hans» – disse ad alta voce Feynman che, se possibile, corse ancora più forte.
Giunse lì in un batter d’occhio. Varcò la soglia della porta e vide a terra il suo amico Hans Bethe, terribilmente sfigurato.
Giovanni Covino
Capitolo II: La cassaforte, parte 1.



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