Il problema dell’eutanasia come problema del senso. Un contributo sul rapporto tra sofferenza e dignità

L’indagine filosofica è contraddistinta, sin dalla sua nascita con Talete, dalla radicalità, vale a dire dalla capacità propria dell’intelletto umana di raggiungere la radice della questione, di “leggere dentro” la realtà che si presenta nella sua complessità.

Questo modo di procedere è applicabile a qualsiasi ambito della realtà: dalla politica all’arte, dall’educazione alla logica. Insomma, ogni problema può essere affrontato ed analizzato con le lenti della filosofia in modo da poter vedere questo problema con uno sguardo privo di qualsivoglia ideologizzazione.

In questo articolo, ci proponiamo di parlare del tema dell’eutanasia in relazione al problema della sofferenza e all’evento che segna il momento più drammatica della nostra esistenza su questo mondo: la morte. Come viene giustamente rilevato: «Se il rapporto dell’uomo con tali esperienze è sempre stato difficile, rappresentando la misura della finitezza e della contingenza umana, oggi si tocca con mano una trasformazione culturale profonda: la cultura secolarizzata (che ha negato la trascendenza, che tende sempre più a negare la metafisica e la fede religiosa, rifiutando l’apertura escatologica alla speranza) tende a censurare, a nascondere, addirittura a neutralizzare, in modo sistematico e generalizzato, la malattia e la morte: spesso ci si riferisce alla malattia e alla morte utilizzando la terza persona impersonale, “ci si ammala” o “si muore”, quasi fossero realtà che non ci appartengono. Morte e malattia divengono meri eventi solo da evitare, senza alcun senso, privi di valore: sotto l’influsso della tecnica, la morte cessa di essere un mistero, viene sempre più gestita, controllata, a volte anche banalizzata»[1].

Il problema della sofferenza

La prima cosa da fare per affrontare un problema come quello che vogliamo affrontare in queste pagine è definire. Dunque: che cos’è l’eutanasia?

Possiamo definire l’eutanasia come l’atto medico intenzionale (come per esempio una iniezione letale – eutanasia attiva – oppure omissione di cure – eutanasia passiva) volto a porre fine alla vita di un individuo, su sua richiesta esplicita e consapevole, allo scopo di alleviarne sofferenze ritenute insopportabili e non altrimenti trattabili. Il fine – come si può facilmente evincere – è quello di scegliere la morte perché si considera la vita non più desiderabile o degna di essere vissuta[2].

In questa definizione, sembra emergere l’argomento più forte a sostegno del “principio eutanasico” sia quello della sofferenza e nella impossibilità di dare alla stessa un senso. Tuttavia, per usare un’immagine, se abbiamo dinanzi un muro con un foro, non risolviamo il problema abbattendo il muro. Mutatis mutandis: la sofferenza è certamente un male, ma il male è privazione di bene; dunque, chiediamoci: per risolvere il problema del male – la sofferenza – eliminiamo un bene – la vita? Non sembra ragionevole. Ma analizziamo più attentamente l’argomento della sofferenza.

Una vita segnata da una sofferenza estrema e continua perde il suo significato o la sua “qualità”. Invece di limitarsi a sopravvivere, si cerca di dare una fine dignitosa a una condizione che viene percepita come degradante. Ci sono aspetti sicuramente importanti da considerare in questa posizione: innanzitutto, è vero che la sofferenza spesso rende difficile cogliere il senso e il valore della nostra esistenza. A tutti è capitato nel corso della propria vita di affrontare un problema, una sofferenza tanto forte da oscurare la luce del senso. È indubbio. Tuttavia, chiediamoci: il significato di una vita umana è dato dal benessere psico-fisico? Ammettiamo di sì. In questo caso – come dicevamo – quanti momenti nella vita passiamo soffrendo? Ammettiamo siano pochi. Tuttavia quei pochi pur mostrano che è un fatto la nostra precarietà ontologica. Come diceva, d’altra parte, anche Leopardi:

Nasce l’uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa;

e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell’esser nato.

Poi che crescendo viene,

L’uno e l’altro il sostiene,

e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell’umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perchè dare al sole,

Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?[3]

Questo vuol dire che dovremmo passare l’intera vita a preoccuparci di non soffrire mai: l’intera vita viene occupata da questa preoccupazione che viene ad essere, per logica conseguenza, costante e continua ed essendo tale renderebbe l’evitamento della sofferenza esso stesso come la sofferenza peggiore, la peggiore che mai si possa pensare e vivere. Tuttavia, è bene tener presente che non stiamo negando il valore del benessere psico-fisico, soltanto lo stiamo relativizzando, ossia non lo stiamo considerando come fine ultimo o bene supremo. Se valutassimo, difatti, il benessere psico-fisico fine ultimo o bene supremo, saremmo condotti, inevitabilmente a considerare ogni vita umana non degna: per evitare la sofferenza diverrebbe, per forza di cose, essa stessa la peggiore sofferenza. Nel XIII secolo Tommaso d’Aquino, interrogandosi su questo argomento, osservava:

«È impossibile che la beatitudine dell’uomo consista nei beni del corpo, per due ragioni. Primo, perché è impossibile che sia l’ultimo fine di una cosa la conservazione della medesima, quando quest’ultima è già ordinata a un fine distinto da essa. Un pilota, p. es., non può considerare la conservazione della nave a lui affidata come ultimo fine: perché la nave è già ordinata a un fine più remoto, cioè alla navigazione. Ora, come una nave è affidata alla direzione di un pilota, così l’uomo è affidato alla volontà e alla ragione; secondo il detto della Scrittura: “Dio da principio creò l’uomo, e lo lasciò in mano del suo arbitrio”. Ma è evidente che l’uomo deve avere il suo fine in qualche cosa; poiché l’uomo non è il sommo bene. Perciò è impossibile che la propria conservazione sia l’ultimo fine della ragione e della volontà dell’uomo. Secondo, anche ammesso che la conservazione dell’esistenza umana fosse il fine della ragione e della volontà dell’uomo, non si potrebbe tuttavia concludere che il fine dell’uomo è un bene corporale. Infatti l’essere dell’uomo abbraccia l’anima e il corpo; e sebbene l’essere del corpo dipenda dall’anima, tuttavia l’essere dell’anima umana non dipende dal corpo, come fu già dimostrato; il corpo inoltre è per l’anima, come la materia è per la forma, e come gli strumenti sono per il loro principio motore, il quale si serve di essi per le proprie operazioni. Cosicché tutti i beni del corpo hanno come fine i beni dell’anima. Perciò è impossibile che la beatitudine, ultimo fine dell’uomo, consista nei beni del corpo»[5]

In base a quanto riportato sinora, potremmo schematizzare il ragionamento come segue:

Premessa: Il significato della vita è il benessere psico-fisico.

Osservazione: Di fatto, il benessere è precario; la sofferenza è una parte inevitabile dell’attuale condizione dell’esistenza umana.

Conseguenza logica: Se lo scopo è evitare la sofferenza per il benessere psico-fisico, la vita si trasformerebbe in una ricerca incessante e fallace di un bene effimero, mai raggiungibile per la suddetta precarietà ontologica. Questa ricerca, quale preoccupazione costante, si tramuterebbe essa stessa in una forma di sofferenza peggiore di quella che si vuole evitare.

Conclusione 1: Se la vita si riduce a un’inutile lotta contro la sofferenza e questa non può essere, in assoluto, su questa terra, estirpata, allora il significato della vita non può risiedere solo nel benessere. Rifiutare questo avrebbe come unica conseguenza la scelta del suicidio di massa. I fautori dell’eutanasia dovrebbero, per conseguenza logica, predicare l’eutanasia radicale perché la vita stessa non avrebbe senso alcuno. In questo senso il principio eutanasico – “dare dignità all’esistenza eliminando la sofferenza” – diverrebbe ipso facto un principio di morte.

Il problema del senso

Se, come detto, la significatività della vita consiste nel raggiungimento del benessere psico-fisico che è, di per sé, precario, allora la vita in sé perderebbe significatività. Dunque, dobbiamo trovare il senso della vita che non sia immanente alla vita stessa, essendo essa e la sua qualità precaria sul piano ontologico (del nostro stesso essere).

Ora, accanto ai momenti bui, io vivo anche momenti belli, di “qualità”, diciamo così, esistenziale altissima. E anzi sono questi momenti di “qualità” che ci danno il criterio per comprendere gli stati di sofferenza e dolore quali momenti di privazione del bene stesso psichico e fisico. Come ci dice ancora un pensatore del calibro di Antonin-Dalmace Sertillanges, che cita anche Henri Bergson:

«Il dolore è la testimonianza del nostro essere sensibile atto pure al piacere, ed è un elemento di difesa per il nostro essere geloso della sua integrità: due benefici che non possiamo negare senza inconscienza. Henri Bergson in Matière et Mémoire (p.47), vi vede inoltre uno sforzo di liberazione dai mali interni, come i medici dicono della febbre. Se un essere soffre. È perché lotta, e la sua sofferenza è uno degli elementi della sua liberazione, al tempo stesso che un segno di relativa impotenza…Tutto ciò non ci impedisce di lamentarci del dolore e di desiderare, senza rendercene conto, cose contraddittorie. Vogliamo sì essere di carne e sangue, e dotati di sensibilità fertile in opere delicate o in delizie, ma non consentiamo a che questa squisita costituzione ci renda vulnerabili»[6].

 Queste fasi mostrano, contrariamente a quanto sostenuto dal pessimismo più radicale, che la vita non è un male assoluto, ma anzi “portatrice” di bene, in sé dunque un bene. Tuttavia, se ammetto che deve essere finalizzata al solo benessere psico-fisico, come dicevamo poc’anzi, allora essa diviene il male assoluto che va evitato radicalmente e totalmente.

Conclusione 2: il senso della vita non può risiedere in nessun bene transeunte ed immanente neanche se tale bene fosse immanente al soggetto vivente stesso (salute psico-fisica, piacere, stato di gioia). Se tale bene fosse transitorio in sé non potrebbe soddisfare le condizioni affinché questa felicità sia pienezza ontologica e ultima perfezione.

Se, dunque, la vita ha un senso trascendente, questo senso è lo stesso che deve avere anche ogni sua parte non solo quantitativamente parlando ma anche qualitativamente parlando (stato di salute, stato di animo, sofferenza, dolore, gioia, ecc.). Ora, ammesso questo senso trascendente nulla che si oppone al suo raggiungimento può essere considerato buono. Tuttavia, poc’anzi abbiamo dimostrato che la tesi a sostegno dell’eutanasia porta come conseguenza quella di rendere insignificante la vita in sé. Pertanto, nessuno ordinerebbe in tal caso la vita al suo fine ultimo; e così nessuno sarebbe mai felice.

Ecco che per evitare e/o finire di soffrire si arriva a non fare il bene e a rifiutarlo, come nell’immagine in apertura: per eliminare il difetto del foro, abbattiamo il muro. Ciò si risolve ammettendo che deve esserci un senso della stessa sofferenza perché c’è un senso della vita stessa e un senso trascendente e proprio perché precaria ontologicamente. Nel piano di questo senso trascendente si deve ammettere logicamente che la stessa sofferenza trova il suo senso.

Conclusione

Il principio eutanasico non può essere la soluzione al problema della sofferenza, di nessun tipo di sofferenza, per quanto possa essere grave, ma, come in ogni questione morale, il problema è trovare un senso nel bene da fare – noi con il malato e il sofferente – e nel bene da ricerca – il senso della vita in un Bene che trascende la mutevolezza del nostro tempo. Infine e in sintesi: non sosteniamo che la sofferenza necessariamente non debba essere eliminata ma che essa possa avere un senso anche quando non può essere eliminata e anche perché non si elimina la sofferenza eliminando la vita stessa. Non ha senso, infatti, non voler vivere soffrendo e ad un tempo non voler vivere affatto. A meno che non si voglia cadere in un nichilismo immanentistico per cui non vedendo l’anima immortale e spirituale si ammette la fine del nulla il che rende in radice la vita priva di senso mancando il fine ultimo, ammettendo, contraddicendo l’esperienza stessa, che la vita stessa sia un non-senso assoluto ossia un male assoluto il che è una contraddizione in termini.

Giovanni Covino

Mario Padovano, OP


[1] F. D’agostino – L. Palazzani, Bioetica, La Scuola, Brescia 2013, p. 203.

[2] Cfr. Ivi, pp. 204 ss. È opportuno precisare che l’eutanasia (attiva o passiva) non va confusa con l’accanimento terapeutico, con l’uso sproporzionato della pratica medica: «L’eutanasia [al contrario] è l’abbandono terapeutico o l’astensione terapeutica quando la terapia, proporzionata rispetto alle condizioni reali del paziente, avrebbe ancora ragione di essere praticata» (Ivi, p. 206).

[3] G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

[5] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 2, a. 5, co.

[6] A.-D. Sertillanges, Il problema del male II. La soluzione, Morcelliana, Brescia 1954, p. 14.

Risposta

  1. Avatar L’eutanasia e la vita come dono. Una risposta a Umberto GalimbertI – Briciole filosofiche

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