L’Henologia: il paradigma della metafisica originaria, 2

Ricevo e pubblico con piacere questa serie di articoli di Dario Rinaldi sull’origine della riflessione metafisica. Rinaldi – autore tra l’altro di un imponente studio sulla struttura originiaria dell’essere (per maggiori informazioni clicca qui) – in questo serie di articoli si confronta con il “problema essenziale dell’uomo essenziale” – per dirla con Fabro.


Se non hai letto la prima parte dell’articolo, clicca qui.


Che cos’è la filosofia se non la ricerca instancabile del principio che unisce e spiega la molteplicità delle cose? L’henologia, la “metafisica dell’Uno”, è la via più antica e forse più dimenticata di questo interrogarsi: un paradigma che precede l’ontologia e che affonda le radici nei presocratici, in Platone e nel cuore stesso della speculazione classica. Parlare dell’Uno e dei Molti non è un esercizio erudito, ma toccare il fondamento da cui dipendono le nostre esperienze, le nostre scelte e persino le strutture della convivenza civile. Questo scritto vuole riportare in luce una tradizione che ha molto da dire al pensiero contemporaneo, spesso smarrito nel frammento e incapace di ricondurre la parte all’insieme.

[Giovanni Covino, autore e curatore di Briciole filosofiche].


Dopo aver discusso dei due paradigmi fondamentali che l’Occidente ha ereditato dai greci, l’ontologia e l’henologia, e aver mostrato come nella fase iniziale del discorso metafisico, esse si coimplichino, bisogna ora indagare ulteriormente il rapporto tra parte e Tutto che viene a porsi, con le relative difficoltà che conducono necessariamente al guadagnare la posizione dell’Intero come altro dall’Originario.

Premessa dell’aporia originaria

L’esperienza o l’immediato, come detto in precedenza, ha due componenti: gli enti, o le differenze (immediatezza fenomenologica) e l’Intero a cui rimandano e che si dà costantemente come scenario fisso al loro apparire (immediatezza logica). Si può quindi parlare di una materia e di una forma dell’Originario: la materia sono le tante e diverse cose che appaiono e la forma è la cornice unitaria, e quindi determinata, che le accompagna, rintracciata dal logo, ossia dall’intelletto, che le pensa secondo identità e non-contraddizione.

Da quanto è stato detto, ne viene che l’Originario rivela una disequazione, perché vede la forma – che di suo implica unità e quindi stabilità – associata a un contenuto frammisto e diveniente, che quindi la nega in maniera lampante. Quindi vi è una contraddizione tra logo ed esperienza, onde quest’ultima perde ogni carattere di razionalità. Come si risolve questa profonda contraddizione che affligge il volto della realtà stessa?

Prima di rispondere a questo cruciale interrogativo, occorre un breve riepilogo dei principii che reggono la realtà, al fine di inquadrare meglio la questione sollevata. L’identità e la non-contraddizione sono i principii che rendono intelligibile la realtà: ogni sostanza è se stessa (identità) e quindi non altre (non-contraddizione); allo stesso modo è impossibile che la stessa cosa sia e non sia sotto il medesimo rispetto (una casa che non è casa). E ciò vale altresì per l’Intero, che si trova riprodotto nella sostanza determinata e questa a sua volta analiticamente rimanda a quello. Si potrebbe obiettare che questi principii valgano solo per l’intelletto, non siano cioè equivalenti per la realtà, ma questo genere di argomenti sono immediatamente tolti dalla piana indagine sull’intenzionalità della conoscenza, presto dimenticata dalla filosofia moderna[1].

Ha ben ragione quindi Giovanni Reale nel dire che la più preziosa conquista del pensiero classico sia l’immediatezza e imprescindibilità dei principii, i quali, proprio per la loro evidenza, sono anapodittici, ossia al di qua della dimostrazione e in ragione di ciò non possono essere messi in discussione senza che anche chi – a parole – pretende di negarli sia costretto ad assumerli[2].

Questo, che è il procedimento dialettico che conduce al toglimento delle obiezioni contro il sapere proprio della filosofia, sarà trattato ampiamente in un articolo a parte, e pertanto nel presente lo si dovrà glissare in vista del tema decisivo a cui è dedicato: la conquista del Trascendente e così della razionalità della realtà.

Enunciazione della problematica fondamentale

Ogni ente è se stesso,  sia esso empirico o ideale[3], ivi l’Intero, che non può essere altro da sé. Tuttavia l’evidenza del divenire smentisce in modo lampante questa identità. Il divenire è quindi presenza di una molteplicità, poiché esso comporta che una stessa identità sia frazionata sempre in più parti, fino ad annullarsi, di modo che la problematica del divenire è qualcosa avente a che fare con il principio d’identità, posto, come si è visto, che esso ne è la negazione originaria. E il principio d’identità deriva dall’unità[4] che pone, di conseguenza, l’uguaglianza di un ente con se stesso; ora è proprio l’unità che è negata dalla molteplicità nel divenire, per cui si verifica l’identità dei contraddittori, dunque l’assurdo. Ciò che, pertanto, la problematica del divenire inficia è la stessa intelligibilità della realtà, stante la contraddizione di una realtà che si dà al pensiero come una e stabile per poi rivelarsi nella sua struttura originaria come mutevole e molteplice. Per cui vi è la disequazione, come si diceva, tra Intero e Originario.

Rinvenimento dell’orizzonte trascendente e guadagno della razionalità dell’esperienza

L’esservi disequazione conduce necessariamente a sancire da parte della ragione che l’Originario non sia l’Intero, e quindi esso è un orizzonte non originario, ma derivato, tale che non abbia per sé l’Unità ma per derivazione, poiché se ciò fosse si avrebbe contraddizione ed ogni elemento dell’esperienza, compreso il pensiero stesso che la conosce, sarebbe impensabile. In tal modo, la contraddizione è tolta, riconoscendo che la molteplicità e il divenire, e dunque la limitazione stessa presente nell’esperienza, siano date dall’Intero, così da non valere come limitazione che eserciterebbe il divenire sull’essere. L’Intero è difatti la Totalità, dove la Materia è contenuta eminentemente nella Forma, e dunque l’orizzonte dove la disequazione è risolta. Per cui l’Intero è altro dall’Originario, ove invece la stabilità e immutabilità costantemente minata dalla declività. L’uni-molteplicità è pertanto la struttura originaria quoad nos, dal momento che l’Originario in se può dirsi solo l’Intero dove l’Unità pura risiede, eterna, circolare e infinita. Questi sono difatti gli attributi di Dio desumibili dalla ragione naturale.

Perché infatti è l’immediata certezza che nell’esperienza non si dà la Forma come contenente appieno la Molteplicità che spinge il pensiero a trascenderla, pervenendo necessariamente all’Unità: Infinita, quanto al non avere di contro una molteplicità limitante; Perfetta quanto al concentrare in sé tutte le perfezioni e qualità che si trovano disperse nell’universo; Eterna quanto al non divenire in una successione di contenuti molteplici. Tale Unità sarà dunque quello che comunemente si pensa e si invoca con il nome di Dio, la realtà che per necessità del principium firmissimum sarà oltre la declività dell’esperienza originaria, che pone tutti gli enti all’ombra del negativo della morte (nihil absolutum). L’affermazione della realtà trascendente dischiude e fonda la metafisica, che il pensiero classico deve a Platone e Aristotele, sebbene il primo vide nell’Idea l’oggetto eterno e limpido al di là del transeunte che tiene in sé relegati gli enti di questo mondo impossibilitandone una loro conoscenza, mentre il secondo vide nel Motore Immobile la ragione del divenire degli enti quale causa finale, poiché questo pensiero si fondava ancora su una presupposta alterità della materia, di modo che l’universo aristotelico era costituito dal Motore Immobile e dalla materia come realtà indipendente, così da restare non ancora del tutto chiarito il ruolo di questa, che pertanto impossibilitava di rispondere al problema del divenire. Si tratta qui delle prime tappe di quel cammino che condusse di lì a qualche secolo la ragione umana finalmente a risolvere la contraddizione del divenire[5], che comportava per costoro necessariamente la steresi dell’essere, che si vedeva così annullato proprio dall’esperienza originaria che il pensiero si trova dinnanzi. Dopo Aristotele vi fu Plotino, che riprese il motivo henologico della metafisica, spiegando come dall’Unità incommensurabile derivasse per processione anche il mondo materiale, non riuscendo però a distinguere l’essere eterno dall’essere diveniente. Fu Agostino d’Ippona colui che portò a compimento questo cammino della ragione speculativa introducendo nel mondo filosofico il “Teorema della Creazione”, sulla scorta della rivelazione biblica, e così fu definitivamente oltrepassata la difficoltà che avevano incontrato tutti i pensatori greci, poiché si concepì l’atto creatore che liberamente pone tutte le realtà che dimorano nell’universo, facendole procedere non dalla Stessa Sostanza dell’Uno e non da alcuna materia preesistente, superando con ciò la problematica dell’alterità della materia di cui il pensiero greco non seppe decisamente liberarsi. Con Tommaso d’Aquino l’atto creatore fu accuratamente meditato, designandolo quale actus essendi che partecipa l’essere alle cose tutte, che ricevono di conseguenza nel loro sorgere l’essenza con l’esistenza. E a quel punto la problematica dell’unità nella molteplicità e l’aporetica del divenire erano così state risolte una volta per tutte. Dall’Uno che è Dio Stesso,  per mezzo della creazione l’essere è così liberamente distribuito in una molteplicità di creature che ne partecipano a seconda della minore o maggiore capacità, ripetendo e imitando ognuna in modo nuovo l’Identità divina dalla quale tutto proviene e alla quale ogni essere dell’universo si ricapitola come un tassello di quell’immenso e spettacolare che è la stessa storia della creazione.

Dio e mondo: spiegazione del loro legame e discussione delle principali obiezioni

Il teorema della creazione pone la relazione tra Assoluto ed esperienza. Ebbene, dovremo a questo punto discutere che tipo di relazione sia effettivamente questa. Da Aristotele sappiamo infatti che i relativi sono quei termini tali che traggono il loro significato in relazione al loro opposto, per cui la relazione è bilaterale. Se le cose stanno così, si dovrà concludere che Dio trarrebbe il suo essere Creatore dalla creazione, di modo che l’atto creatore produca in Lui un cambiamento.

Questo argomento si trova esposto già in Origene, il quale fece giustamente osservare come la relazione grammaticale tra due parole che per natura sono relate reciprocamente renda impossibile il porsi dell’una senza la simultanea posizione dell’altra, e ciò ha degli interessanti risvolti nello studio del rapporto tra Dio e mondo: se infatti Dio si epiteta quale dominus e il mondo quale servus, questo importa che, così come il mondo venendo ad esistere ottiene un nuovo predicato, allo stesso modo Dio ne acquisisce uno da questa relazione[6], ma le conseguenze sembrano non limitarsi solo a questo. Se l’essenza divina riceve certi predicati, come si nota a proposito dei nomi divini – che vengono attribuiti proprio dalla relazione che Dio ha con il mondo – sembra che vi sia qualcos’altro di eterno oltre a Dio, che tuttavia viene ad aggiungersi alla sostanza divina solo mediante la creazione, che prima non c’era. Entrambe le situazioni conducono dunque o ad una eternalità della creatura o ad una mutevolezza in Dio, sì da non poter uscire da questa situazione antinomica. La risposta a quest’obiezione sta nel riconoscere che la relazione tra Dio e mondo è irreciproca, di modo che la creazione non aggiunga nulla di più in Dio (che è il massimo), mentre solo dal lato della creatura si dà una relazione di tipo reale, in quanto l’intelletto umano, venendo a conoscenza della verità della creazione, giunge alla conoscenza di un nuovo aspetto di Dio, tale che l’uomo si riconosca come creatura, data la sua ricezione dell’essere (così come gli appellativi di “dono” per lo Spirito Santo o di “salvatore” per Cristo); sì che non si è qui davanti ad una relazione come quella della madre col figlio, in cui si ha un mutamento della natura di entrambi, ma ad una relazione asimmetrica tale che il mutamento di un termine non comporti eo ipso il mutamento dell’altro[7]. Questa relazione irreciproca è del resto la stessa che intercorre tra parte e Intero, per la quale mentre l’essere della parte è inseparabile dall’essere dell’Intero, questo invece trova unicamente in sé e non in quella la ragione del suo essere. Qui inoltre è questione di osservare semplicemente che i correlativi sono tali solo quando è presupposto un legame tra oggetti rientrati in categorie comuni, ma se tuttavia avviene che la coppia dei correlativi è riferita a termini senza un medio in comune, allora la simultaneità che era posta come necessariamente implicata da Platone, Aristotele e Origene, perde tutta la sua valenza: onde si può essere servo senza che per questo l’altro sia signore. Questi chiarimenti vedono così ancora più potentemente riaffiorare la relazione irreciproca tra l’ipsum esse e il mondo, in quanto tra i due non è possibile l’adopero di una coppia di correlativi data la mancanza di termine medio tale che ponga una correlazione immediata. Il corollario di ciò è che se il mondo assomiglia a Dio, non per questo Dio assomiglia allo stesso modo al mondo, e dunque nonostante si abbia una perdita continua della forma da parte degli enti dal loro allontanamento dal Principio, non per questo la Forma incommutata, che è Dio, ne viene privata e allontanata dal mondo.

Un’obiezione più pregnante sul piano teoretico, che a onore del vero può dirsi quella che richiede una più sottile risoluzione, riguarda il rapporto sussistente tra infinito e finito: se è posto l’infinito come la realtà che nel suo cerchio tutto comprende, ne viene che, dalla posizione di esso, sia impossibile il potersi dare il finito. In tal modo, due sarebbero gli esiti a cui si arriverebbe: Dio + mondo = Dio oppure: Dio + mondo = Dio e mondo.

Nel primo caso, come si può vedere, emergendo dalla somma solamente Dio, ne viene la negazione del mondo, che quindi non riesce a porsi. Nel secondo caso, dalla somma emergono Dio e il mondo, e quindi il finito accanto all’infinito, che così inevitabilmente lo limiterebbe. Come districarsi? L’obiezione ricalca certe situazioni che si possono osservare in matematica, quando si considera un numero x tale che, aggiunto o sottratto da un numero y, non determina un incremento o una diminuzione di y, di modo che x è uguale a zero; questo non deve stupire, dal momento che la matematica assume dei valori univoci, tali da recare sempre lo stesso significato. La situazione cambia però se questo discorso lo si applica non già all’ambito quantitativo, ma a quello ontologico, dal momento che in questo vige l’analogia, tematizzata per prima da Aristotele, e quindi ‘esistere’ si dice in vari modi, dei quali spiccano soprattutto quelli di ‘potenza’ e ‘atto’, o altrimenti ‘essere relativo’ ed ‘essere assoluto’. La potenza è infatti un non-essere ancora, mentre l’atto è un essere da sempre. Per di più l’essere-in-potenza è tale solo se preceduto dall’essere-in-atto, così che la relazione tra i due è irreciproca. L’obiezione qui intende, invece, ‘essere’ in un senso univoco, per cui l’esistere si predicherebbe allo stesso modo sia riguardo a Dio che riguardo al mondo (ossia in modo attuale). E ponendo così le cose, ci si trova effettivamente in quel circolo vizioso. Per cui è vero il primo corno del dilemma, ossia l’addizione tra Dio e mondo dà luogo sempre all’Assoluto – che tuttavia pone il relativo (ossia dipendente) esservi del mondo, che così non è un nulla come lo sarebbe un’assolutezza valente come alterità presupposta, bensì è un essere trovante la ragione di sé solo alla luce dell’Assoluto che lo fonda, come difatti nell’esperienza il Molteplice è posto – e intenzionato, di conseguenza – solo in grazia dell’Uno, così da trovare in questo il suo fondamento anziché in sé stesso (al contrario di quel che il dilemma sembra porre). E di nuovo, con le parole di Tommaso, dobbiamo quindi decisamente affermare che quella di Dio e mondo è una ‘relazione reale’ soltanto per la creatura, che acquisisce in virtù della partecipazione dell’essere una proprietà che prima non aveva, e che di conseguenza il suo essere non è categorematico – come quello dell’Unità da cui tutto proviene e che è per sé sussistente – ma sincategorematico, tratto e dunque completamente dipendente dal Creatore. Alla luce dell’analogia classicamente intesa, non solleva così alcun problema che accanto all’essere di Dio si trovi l’essere del mondo, poiché il modo di esistere non è il medesimo per entrambi – tale da contenderselo, portando così alla soppressione della relazionalità sancita dal creazionismo.

Così questa particolare obiezione contro il teorema della creazione mossa da pensatori che si muovono in una concezione univoca[8] anziché analogica dell’essere – per la quale ben si dànno non solo diversi gradi di esistenza ma altresì l’essere-in-potenza e l’essere-in-atto, e quindi un essere relativo e un essere assoluto – è facilmente risolta. E così una volta trovato Dio anche l’esperienza trova il suo originario volto: l’essere creatura in rapporto al Creatore.

Dario Rinaldi

segue


[1]  Questa obiezione difatti deriva dal dualismo cartesiano tra essere e pensare, che nelle intenzioni del suo autore doveva essere finalizzata all’edificazione di un sistema chiuso in cui tutto soggiacesse alla chiarezza e alla distinzione, e che protraendosi in tutti gli autori della filosofia moderna avrebbe poi offerto a Kant il destro per la sua nota negazione della metafisica come scienza. La «presupposizione gnoseologistica», come la definì a buon diritto Gustavo Bontadini, dominò così ininterrottamente nei quattro secoli della modernità, segnandone il tratto peculiare. Ma come fa notare la stessa parola, si tratta di un pregiudizio, e dunque un assunto piuttosto che una verità dimostrata, che subito rivela la sua autocontraddittorietà, allorché si osservi che qualora vi fosse un diverso dal pensiero, esso sarebbe ugualmente pensiero, stante il suo valore trascendentale rispetto ad ogni dato ontico, e da ciò ne consegue che i principii d’identità e non-contraddizione non possono per loro natura restare confinati nel logo senza trovarsi anzitutto immessi nell’essere, quali sue leggi originarie, consentendone la conoscenza e la comprensione. Questo del resto già i contemporanei di Kant, come Maimon, lo notarono. Anche la dottrina contemporanea del dialeteismo di Graham Priest – per la quale potrebbero darsi situazioni logiche in cui un enunciato sia vero e falso, negando quindi il valore assoluto del principio di non-contraddizione – risulta facilmente confutabile, osservando che se la realtà ammettesse una zona dove valga il principio suddetto A e una zona in cui invece esso non valga , tra le due zone si deve comunque dare una relazione, ragione per cui la relazione tra la zona incontraddittoria e quella contraddittoria sarà necessariamente contraddittoria, e cioè che da ultimo l’intera realtà sia contraddittoria, irrazionale, andando quindi contro le intenzioni del dialeteismo. Inoltre, le due zone  A e  per distinguersi dovrebbero ‘differenziarsi’ l’una dall’altra. Ma questo significa che si deve necessariamente porre che A è sé stesso e quindi non è , ammettendo quindi un certo valere incontraddittorio, eliminando così il presupposto del dialeteismo. 

[2] G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani 2000, vol. I,  pp. 492-493.

[3] Si tratta dell’obiezione che l’idealismo mosse contro la trascendenza classica, asserendo che il Principio Primo sia demandabile al pensiero come attività incessante che nel suo scorrere produce gli enti e li toglie, a sua volta, in sé. In tal modo, Gentile credette che andasse esclusa la trascendenza al fine di superare la contraddizione prodotta dal divenire, in quanto il divenire era la regola stessa della realtà, oltre all’obiezione che la figura della trascendenza avrebbe condotto a postulare qualcosa al di fuori del pensiero, che è impossibile a trascendersi, e che dunque verrebbe meno nell’atto stesso in cui la si penserebbe. Noi effettivamente, guardando al pensiero, scorgiamo in questo dei segni di divinità, basta che riflettiamo sulla sua infinità e eternità, posto che il pensiero è dovunque, non è qualcosa tra le cose, ed esso è pure un’unità in cui si trova raccolta una molteplicità. E questo non dovrebbe stupire, se pure Aristotele ebbe a osservare che:  «anima est quodammodo omnia» (De anima III). Il problema è però che l’infinità del pensiero è un’infinità puramente intenzionale, ovvero apertura in potenza a tutto, ma senza contenere tutta la ricchezza del reale al suo interno; allo stesso modo, l’unità è puramente formale, di nuovo perché non riesce a dominare la molteplicità variegata di contenuti. Proprio questi sono i segni che mostrano come il pensiero non abbia di per sé l’assolutezza, ma – come direbbe Plotino – ne partecipa, avendone in sé solo una vestigia.

Del resto, la dottrina gentiliana poggia su una lampante autocontraddizione che la rende insostenibile: l’avere posto nel pensiero l’opposizione di soggetto e oggetto, che non solo comporta che sia esso a togliere la contraddizione ma anche a porla, e dunque la contraddizione viene in questa dottrina riconosciuta come forma trascendentale del pensiero stesso. Si è detta un’autocontraddizione perché l’opposizione di soggetto e oggetto concluderebbe ad affermare che il pensiero pone e toglie lo stesso oggetto, e dunque considera questo al contempo un positivo e un negativo, il che è un compito impossibile L’errore imperdonabile dell’idealismo non è solo l’arbitraria teologizzazione del pensiero, ma anche la confusione di questo con l’intelligenza: pensare, in altre parole, è un eternarsi solo se abbia di mira un contenuto stabile, una verità eterna, ma in questo modo non più pensiero sarebbe ma intelligenza – unione di conoscente e conosciuto – e quindi già in patria.

[4] «L’identità è una certa unità» (Aristotele, Metafisica Δ 1018a 7).                                                         

[5] Splendide sono le immagini del Fedone, dialogo della prima tetralogia di Platone, ove viene posta la magna carta della metafisica, nel quale si legge della celeberrima “seconda navigazione” quando la ragione umana, insoddisfatta per la mancanza delle risposte date dalle spiegazioni materialiste comprende che esse siano solo alcune delle reali cause. Così la ragione, similmente a quanto accade ai marinai quando il vento che sospinge una nave viene a mancare, mettono mano ai remi per continuare il viaggio, scopre nell’intelligibile ciò che in cui risiede la ragione dell’essere del sensibile. E a sua volta la dimora dell’intelligibile che investe della sua luce (forma) l’intelletto che comprende grazie a questa la realtà sensibile viene indicata nei passi di Fedro nell’Iperuranio, dimora degli eterni significati trascendenti questo mondo e misura dell’essere e dell’apparire di ogni realtà.  Celebri altrettanto sono i passi di Metafisica XII, dove Aristotele chiarisce la natura del Motore Immobile, responsabile del divenire sia del mondo sublunare che del movimento circolare e, dunque, perfetto del mondo sopralunare, esponendo infine i corollari di quest’Atto puro: eternità, immaterialità e autocoscienza assoluta.                                                                                                                                                                  

[6] «Come uno non può essere padre se non ha figlio, né può essere un signore senza un dominio o un servo, cosi Dio non può essere detto onnipotente se non esistono esseri sui quali egli possa esercitare il suo dominio. Perciò, perché si possa dimostrare che Dio è onnipotente, deve esistere l’universo  […] Non possiamo supporre neppure un momento in cui quella facoltà benefica [di Dio] non abbia fatto il bene, Ne risulta che son sempre esistiti gli oggetti di tale bene, cioè effetti di creazione e creature, e che la facoltà di Dio beneficando secondo l’ordine ed il merito abbia dispensato a questi i benefici suoi per mezzo della sua provvidenza. Di qui ricaviamo che non c’è stato momento in cui Dio non sia stato creatore benefico e provvido» (De principiis I, 4, 3). Già per Platone e Aristotele, in verità, era impensabile una relazione tra correlativi che non includesse al porsi del primo il porsi anche del secondo, in quanto rientrati come coppia di opposti nel medesimo genere. 

[7] «Ebbene se una moneta senza mutare in alcun modo può assumere tante volte una denominazione relativa senza che, ricevendola o perdendola, il suo essere e la sua forma di moneta sia modificata, con quanta maggiore facilità dobbiamo ammettere nei riguardi della immutabile sostanza di Dio che essa possa ricevere una denominazione relativa alla creatura senza con questo intendere che vi sia ma invece nella creatura che è il termine nei confronti del quale si pronuncia la relazione? La Scrittura dice: “Signore tu sei divenuto il nostro rifugio”. Il Signore è detto  nostro rifugio in senso relativo; infatti si riferisce a noi e Dio diviene nostro rifugio perché ci rifugiamo in lui. Ma si produce allora nel suo essere qualcosa che non c’era prima che ci rifugiassimo in lui? E in noi che avviene un cambiamento: infatti eravamo peggiori prima che ci rifugiassimo in Lui, e rifugiandoci in lui diventiamo migliori ma in Lui non avviene alcun cambiamento. Così comincia ad essere nostro Padre quando siamo rigenerati per mezzo della grazia, perché ci ha dato il potere di divenire figli di Dio. Il nostro essere si cambia dunque in meglio, quando diventiamo suoi figli; nello stesso tempo anche Lui comincia ad essere nostro Padre, ma senza alcuna modificazione del Suo essere» (De Trinitate V, 16, 17).

[8] È il caso di Giovanni Romano Bacchin.

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