Ricevo e pubblico con piacere questa serie di articoli di Dario Rinaldi sull’origine della riflessione metafisica. Rinaldi – autore tra l’altro di un imponente studio sulla struttura originiaria dell’essere (per maggiori informazioni clicca qui) – in questo serie di articoli si confronta con il “problema essenziale dell’uomo essenziale” – per dirla con Fabro.
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Che cos’è la filosofia se non la ricerca instancabile del principio che unisce e spiega la molteplicità delle cose? L’henologia, la “metafisica dell’Uno”, è la via più antica e forse più dimenticata di questo interrogarsi: un paradigma che precede l’ontologia e che affonda le radici nei presocratici, in Platone e nel cuore stesso della speculazione classica. Parlare dell’Uno e dei Molti non è un esercizio erudito, ma toccare il fondamento da cui dipendono le nostre esperienze, le nostre scelte e persino le strutture della convivenza civile. Questo scritto vuole riportare in luce una tradizione che ha molto da dire al pensiero contemporaneo, spesso smarrito nel frammento e incapace di ricondurre la parte all’insieme.
[Giovanni Covino, autore e curatore di Briciole filosofiche].
Per mezzo della metafisica, la realtà è risultata razionale, poiché si è trovato Dio, l’Unità originaria, e per questo eterna, infinita e semplice. Ma non si deve pertanto credere che tale glorioso itinerario sia con ciò portato a compimento. È stato per la verità portato a termine soltanto il percorso risolutivo della ragione, che dalla parte risale al Tutto. Resta da attuare il percorso inventivo, andando dal Tutto alla parte, al fine di comprenderla – che è ciò che più sta a cuore al metafisico autentico. Non si dimentichi che metafisica è la conquista e, quindi, la salvaguardia della dignità del Molteplice nell’Uno. Una metafisica che restasse al solo ‘momento risolutivo’ senza accompagnarlo al ‘momento inventivo’ sarebbe una costruzione monca, e perciò imperfetta sul piano euristico. Aristotele e Tommaso hanno offerto due pregevoli esempi di una metafisica concreta, autentica, perché in primo luogo attenta all’aspetto cosmologico, diveniente, che prende il nome di esperienza; quell’aspetto da cui la riflessione prende le mosse ed è spinto a trovare Dio proprio al fine di renderne ragione, ossia spiegarla. I dodici libri della Metafisica – il testo più complesso della storia della filosofia, come lo stesso Enrico Berti ebbe a definirlo, ma non solo lui – a questo imponente compito vollero assolvere, e ancora oggi costituiscono un dono e una guida imprescindibili per chi voglia coltivare questa disciplina, e comprenderne anche il ‘carattere divino’.
Dall’ontologia all’henologia
Riprendiamo dalle conclusioni precedenti, dall’Unità guadagnata per mezzo dell’inferenza metafisica che come punto di leva ha l’imprescindibile procedimento aristotelico, al quale a questo punto va ad affiancarsi l’eredità platonica, che nello Stagirita è subordinata a buon diritto allo studio della sostanza[1], così da intraprendere, anche in aperta distanza da Platone, un’indagine che voglia render conto dell’esperienza da lui trascurata, e nel far ciò ha dovuto necessariamente anteporre particolare all’universale – il quale è prodotto del logo che astrae a partire da quello. Ad ogni modo, una volta compiuta l’inferenza metafisica, e raggiunto l’Intero oltre l’esperienza, la ripresa della visione platonica può quanto mai giovare a rendere ulteriormente ragione del legame che intercorre tra Dio e mondo (preannunciato alla fine dell’articolo precedente), e anche alla distinzione dell’henologia dall’ontologia. È infatti l’inferenza metafisica ad autorizzare che l’unità appresa dal pensiero ha un referente reale adeguato. Così che i termini in gioco non sono più gli enti nel loro divenire (e quindi nel loro ridursi al ni-ente), ma sono rispettivamente l’Uno e Molti, fra i quali intercorre un rapporto di ‘asimmetria’, per la semplice ragione che quell’Uno raggiunto dalla deduzione è ‘categorematico’ rispetto ai Molti, onde può sussistere di per sé, mentre questi sono tali solo nel loro dipendere dall’Uno, e quindi ‘sincategorematici’ . Ne viene che la relazione tra Uno e Molti – a differenza di tutte le relazioni studiate in logica – è una relazione irreciproca, perché il primo termine. Anche quest’ulteriore precisazione contribuisce a superare le possibili aporie inerenti al teorema della creazione (di cui ci siamo già occupati nell’articolo precedente). Al primo strato (aristotelico, ontologico) si affianca dunque un secondo strato (platonico, henologico). In ciò ancora una volta sta l’importanza imprescindibile del matrimonio tra le due grandi tradizioni della classicità. Da questo secondo ‘strato’ può ora proseguirsi l’indagine teoretica, lavorando coi soli concetti di Uno e Molti.
Sull’autentico concetto di Unità
Gli enti hanno unità, e l’esperienza stessa si configura come universo in ragione dell’unità riscontrabile nella molteplicità estensiva ed intensiva; sì che l’unità rimanda immediatamente alla forma e il permanere dell’ente esige il doversi necessariamente dare la presenza di questo a sé stesso in perfetta unità (A = A), attualità, e questa presenza originaria è detta identità – che dunque non sarebbe possibile, come parimenti non lo sarebbero né la forma e l’atto, se anzitutto non vi fosse la relazionalità. È un punto, questo, della massima importanza, poiché ricco di innumerevoli spunti meta-logici, la cui dimenticanza ha costituito la profonda aporia in merito alla soluzione del problema principale del filosofare. L’unità, per dirsi tale, e assolvere così al suo ruolo di forma, atto e identità, deve necessariamente concepirsi come relazionalità. Questo vale come giudizio analitico, e può risultare evidente anche con un semplice esempio: quando due punti, A e B, entrano in congiunzione C, l’atto di unificazione dei medesimi importa il darsi di una relazione, attraverso cui solamente può aversi la loro unione. Dunque, l’unità concretamente intesa equivale al suo porsi come relazionalità originaria. Finora ho fatto esempi desunti dall’esperienza, mostrando che l’identità di un ente con sé stesso può essere dato soltanto dalla relazionalità delle sue parti, che così sono raccolte in unità. Ma esiste un altro esempio che ci è più vicino: l’autocoscienza. Che cos’è, infatti, questa proprietà che caratterizza propriamente l’uomo su tutti gli esseri se non il possedersi in unità dove vengono raccolte le percezioni, le volizioni, e insieme le sensazioni, i progetti, i ricordi – senza che questa moltitudine si disperda? È la coscienza di qualcosa, la coscienza averla presente, e la coscienza di essere coscienti: il sapere di esistere, che costituisce propriamente l’io o il soggetto. È la soggettività nella sua portata trascendentale.
Da quanto detto, sembra inevitabile una conclusione. Per il principio di proporzionalità della causa, vi deve necessariamente essere una certa “omologia” tra effetto e Causa, onde se ad esempio il calore è l’effetto del sole, si deve concludere che il sole è anzitutto dotato di calore, anzi è la fornace che arde, dando coi suoi raggi vita sulla terra. Se la relazionalità è quindi la forma concretamente intesa, l’entelechia come ciò che attualizza la materia (il molteplice), allora il Primo Principio, se fonte dell’esserci delle cose, che pone secondo unità, e dunque relazione, non potrà essere necessariamente che Egli Stesso Relazione Sussistente, e perciò Unità alla somma potenza: Trinità. Dio infatti è l’Identità pura, e perciò infinita ed eterna, giacché non è limitata da alcuna diversità, a differenza delle cose dell’esperienza (ciascuna distinta dall’altra e quindi limitata dalla diversità), e dell’io (distinto delle cose e dagli altri io, su cui non ha potere). Tuttavia, alla luce dell’analisi minuta sul valore profondo dell’Identità, essa non può che essere relazione sussistente, dal momento che è il possedersi dell’unità in sé (coscienza di sé) e la coscienza di tale possesso. È il positivo concretamente concepito, è l’Identità originaria, e l’Autocoscienza pura. Dio infatti si apprende in un atto originario d’intellezione, che non comporta il Suo sdoppiarsi, ma anzi l’aversi presente proprio per l’assenza di alterità tra Egli e il Suo Pensiero, e dunque Si desidera, di nuovo, in ragione di Sé. Il vero principio d’Identità è quindi la Trinità. Nell’uomo non vi è questo rimando, poiché l’autocoscienza che un uomo può raggiungere è, di nuovo, sempre determinata dall’apparire dell’ente, che così gli sta di fronte senza ricomprenderlo nella propria essenza (Gegenstand). Un uomo che guarda all’occasione un leone, che così appare al suo intelletto, sa di conseguenza di avere paura, e così l’autocoscienza di sé come soggetto in preda al terrore è mossa dall’ente come altro da lui. Dio, invece, si conosce perché nulla di Lui gli sfugge, traendo così, in virtù di Sé Stesso, la Conoscenza e quindi il Possesso di Sé Stesso, e da questa l’ente come altro da Lui (Enstand). Questo è il rimando trinitario perfetto, dal quale la creazione trae il suo fondamento. L’obiezione, antichissima e gettonata ancora oggi, contro il darsi nell’Assoluto di una Trinità, per la quale essa costituirebbe una molteplicità e quindi una divisione nell’Assoluto medesimo, si fonda sul confondere la composizione d’identità e diversità che si riscontra nell’esperienza credendo che sia assimilabile alla Trinità di Dio – che invece è al di là di ogni composizione, dal momento che è sempre l’Identità Stessa che è il Suo Stesso contenuto, per così dire. La Trinità, come abbiamo mostrato, è difatti il senso più intimo dell’Unità, il comprendersi del Principio in maniera perfetta e circolare che ne fa un’Autocoscienza assoluta e quindi non lesa da alterità né mutamento[2], e la Cui natura relazionale perciò si rivela la sola che fondi in modo consequenziale il teorema della creazione.
Il problema irrisolto della metafisica classica
La domanda che possiamo ora legittimamente sollevare è questa: il pensiero classico ha tenuto conto di queste semplici constatazioni? La risposta è no. Dai presocratici a Proclo, la concezione del Principio fu sempre e soltanto l’Unità come sinonimo di Separatezza (μοναχός) dal mondo, che così restava senza spiegazione – anzi come ciò che, in quanto materiale, fosse giudicato di specie infima rispetto alla purezza incontaminabile e per questo incomunicabile del Principio. Ma supponendo questo, non ci si avvide così che l’indagine filosofica – che proprio quei sommi avevano avviato, al fine di spiegare la molteplicità variegata che prende il nome di realtà – restava bloccata, dal momento che “spiegare qualcosa” significa ricondurre questo qualcosa alla Causa, e se la Causa nega invece la cosa in ragione della sua ‘diversità’ dinanzi al Suo Cospetto, quale rapporto di ricomprensione, e dunque spiegazione, si potrà mai avere? Questo il destino della filosofia greca, imputabile alla concezione atavica del Principio analoga a quella di un monarca orientale: eminente, divino, puro e perciò totalmente altro dal mondo, che così ha da scomparire dinanzi ad Esso. Eloquenti esempi sono le dottrine induiste, di Anassimandro, Parmenide, nonché degli stessi Platone, Aristotele e Plotino.
Platone e la celeberrima dottrina della Monade e della Diade, al fine di spiegare ogni molteplicità, si trovò di fronte all’aporia della derivazione della Seconda dalla Prima. Se la Diade è il Principio posto accanto all’Uno, dal quale si diparte la differenza, allora in che modo si distinguono i due? Se è così affidato all’Uno e alla Diade di fondare la diversità senza prima presupporla, allora non è possibile distinguere i due Principii, poiché viene a mancare proprio la loro diversità, e così in luogo di dedurre il valore della molteplicità dal valore dell’unità si avrà solo la tautologica attestazione dell’unità con sé stessa. Platone non supera i suoi predecessori. Dal suo canto, invece, Aristotele non pervenne al concetto dell’Uno come causa efficiente dell’essere dei Molti, limitandosi egli a designarlo quale causa finale.
Da questi esempi storici traiamo dunque la convinzione che fino a che la Materia non la si seppe ricondurre alla Forma, la metafisica risultò ben lontana dal suo compimento. Perché ciò che era tenuto fermo era una concezione separatista della Forma dalla Materia, così della Causa dall’effetto.
Il solo modo, dunque, per ottenere adeguata spiegazione della Materia Molteplice, in accordo con il teorema della creazione, è affermare la libera produzione del Molteplice dall’Uno. Ma ciò implica che l’Uno non sia il il Kevala-advàita di Shankara, l’indeterminato di Anassimandro, la Monade di Platone, e neppure l’Uno di Plotino. Questo decisivo scacco sul pensiero arcaico ed ellenico sta nel riconoscere che l’Uno, nel suo significato più puro, è Relazionalità originaria, e perciò diffusivum sui, tale che l’atto creatore sia diffondere la sua unità, l’essere in altre parole, sulle diverse realtà che proprio per questo traggono il loro volto come qualcosa, differenze che sono rese tali proprio per la nota d’identità che ciascuna reca a modo suo. Ciò che ha permesso di risolvere compiutamente il problema della vita, del fondamento ultimo della realtà, riuscendo dove i Greci e prima di loro gli orientali non erano riusciti, è stato sì il teorema della creazione di Agostino e Tommaso, ma questo teorema suppone un concetto di Uno sconosciuto al pensiero classico e arcaico. Un Uno che è Trino, e quindi Amore Sussistente, non abbisognante ma desiderante una diversità, che così riceve l’esistenza come dono gratuito. Senza la tematizzazione della Trinità come vero concetto dell’Uno la metafisica è così al di qua da trovare il suo compimento.
Tutte le metafisiche antiche sono state così “cattive henologie”, proprio perché hanno tematizzato il Principio come separato (μοναχός) dal mondo, mancando così al compito che si prefiggevano: spiegare i Molti alla luce dell’Uno. L’alternativa, l’unica alternativa, al fine di spiegare perché dall’Uno segua il Due, è che l’Uno non rimandi a separatezza ma a relazione – in accordo con quanto anche dall’esperienza elementare si può constatare (l’unità è ciò che unifica, relaziona, le parti), e come la relazione nell’esperienza vede il relazionarsi di A e B alla luce di C, tale che quest’ultimo sia l’atto che le fa sussistere, allo stesso modo, per proporzionalità di causa, il Principio Stesso, se Gli è demandata questa capacità di manifestare, di conseguenza avrà il medio non per partecipazione, ma per Sé Stesso.
L’esperienza come Unità Cosmoteandrica
Una volta risaliti a Dio, l’Originario riceve la propria razionalità – ragion d’essere e, quindi, comprensione – venendo meno la contraddizione di un molteplice e di un divenire assoluti, e si arricchisce altresì di un nuovo elemento: l’Assoluto, insieme al mondo immediatamente saputo e al logo che lo indaga. Rileggendo dunque alla luce del Principio l’Originario che era l’esperienza saputa immediatamente, essa appare quale Unità Cosmoteandrica, perché legame originario di tre elementi: il mondo (Κόσμος), Dio che lo crea (Θεα) e l’uomo che col suo pensiero lo conosce e risale al Principio (Ανδρος). L’esperienza è così costruita su questa struttura triadica, o ternaria, fondamentale e il suo contenuto costituisce l’oggetto primariamente appreso dall’intelletto. Si tratta, in altre parole, delle verità immediatamente evidenti, che sono quindi il punto di partenza nonché la condizione della possibilità stessa delle altre. Già Kant riconobbe le tre verità suddette appellandole quali postulati della ragion pratica (l’Idea del mondo, dell’uomo e di Dio) e prima ancora Wolff, che designò lo studio dei contenuti dell’Unità Cosmoteandrica col nome di metaphysica specialis. Risalendo ancora a prima, ad esempio ai preambula fidei di Tommaso, essi corrispondono in buona sostanza alle tre verità sopraindicate, e quindi bagaglio della ragione, protetto dall’impossibilità di stare altrimenti. Si può dire così che l’Unità Cosmoteandrica sia stata sempre, almeno implicitamente, tenuta in somma considerazione, sia da parte del pensiero filosofico che dal senso comune; ma mai tematizzata nella sua portata teoretica.
Come per tutte le cose note all’intelletto, la volontà ha sempre la libertà di porle in dubbio, e così anche a proposito delle verità del senso comune che costituiscono l’Unità Cosmoteandrica, qualcuno non ha esitato a dubitare rispettivamente della verità del mondo, della coscienza, e di Dio. In epoca recente si è abituati quasi ad ascoltare periodicamente tesi antirealiste che – in ossequio al dubbio iperbolico di cartesiana memoria – non esitano a dire che quello che si pensa abitualmente come mondo non sia che una nostra rappresentazione[3]. Sempre in epoca recente, l’ateismo dominante non si fa problemi nel professare l’assenza di un Principio che stia alla base del mondo, senza avvedersi dell’insanabile contraddizione prodotta dalla posizione del solo finito – il quale, non avendo altro al di fuori di sé, varrebbe come infinito, epperò, al contempo, non può uscire da detta finitudine[4]. Perfino la certezza che aveva funto da chiave di volta della filosofia moderna, quella dell’io, è stata posta in discussione[5], con gravi contraddizioni. Ma non sempre le scelte degli uomini stanno in pari con il lόgos, così che le forme che le negazioni di una o di tutte le suddette verità hanno assunto e continuano ad assumere lungo la storia sono diverse, ragione per cui la sola via per destabilizzarle una volta per tutte è adoperare il metodo epistemico, ossia proprio della filosofia come sapere stabile, e quindi tornare all’immediatezza fenomenologica (evidenza) e all’immediatezza logica (incontraddittorietà), il terreno da dove avevamo mosso i nostri primi passi. Chi in età contemporanea ha avuto il merito di mostrare come le verità del senso comune, o dell’Unità Cosmoteandrica, non possano venire negate senza comportare immediata contraddizione, e documentando per l’appunto l’inevitabile crollo dei sistemi moderni (cartesianesimo, kantismo, hegelismo, attualismo) per la loro rottura con la metafisica classica, è stato il filosofo Antonio Livi, per cui si rimanda a due suoi pregevoli volumi[6]. Riconoscere che la verità del mondo, dell’io e di Dio non possano negarsi senza essere presupposte significa concluderne che esse sono il fondamento della conoscenza e affinché il pensiero possa dirigersi verso una metafisica autentica e concreta, deve presupporle tutte e tre. Una difficoltà che potrebbe a questo punto sorgere consisterebbe nell’avere dubbi che Dio sia originariamente una verità dell’esperienza, posto che Lo si è raggiunto attraverso la deduzione metafisica. C’è del vero in questa osservazione, ma anche dell’arbitrario: Dio lo si è raggiunto sotto esigenza dell’intelligenza stessa, che guardando all’Intero, ha giudicato lapidariamente che esso si trovi oltre l’Originario. In secondo luogo, bisogna sempre ricordare, sulla scia di Aristotele, che ciò che è primo per noi non necessariamente è primo in se. Quindi non comporta minimamente contraddizione riconoscere che di Dio si abbia una qualche ‘traccia’, una notizia seppur flebile, tale che si giunga a riconoscere la Sua esistenza accanto a quella del mondo e dell’io in maniera sicura e inconfutabile solo dopo l’inferenza metafisica[7]. Anzi, la deduzione metafisica dell’Intero come altro dall’Originario consente proprio di pervenire al concetto concreto di esperienza, che, come detto all’inizio, la sua piena intelligibilità nell’ammissione del terzo elemento, Dio, oltre essa e il pensiero.
Dalla cooriginarietà sussistente per ognuno di essi, questi tre momenti sono il fondamento dell’esperienza attuale e possibile, in quanto ogni determinazione attualmente manifesta nello specchio dell’immediatezza fenomenologica e logica propria dell’esperienza originaria si dice tale proprio in quanto accompagnata nel suo apparire dalla struttura ternaria, e ciò si deve dire altrettanto di ogni determinazione manifestabile, stante anche qui il suo necessario presentarsi in grazia di questa struttura. Essa è così il centro di unificazione delle verità di ragione e delle verità di fatto. Questo significa che l’esperienza originaria è già metafisica, mediazione dell’immediato, apertura originaria del sapere già di per sé schiuso al senso e all’intelletto. Conseguenze di ciò sono l’immediata refutazione di dottrine che tengono ferma solo una costante delle tre qui poste, misconoscendo le altre – o anche pretendendo di dedurle da quella –, quali: razionalismo, che nella sua declinazione antica e moderna tiene ferma la verità del logo (io) misconoscendo l’empiria e Dio; l’empirismo, che tiene ferma la verità del mondo; e lo stesso ateismo nella sua formulazione moderna, che nel suo tener fermi ora l’uomo ora il mondo, nega il sostrato trascendente. L’Unità Cosmoteandrica assolve non solo al procedimento inventivo della ragione teoretica – consentendo una conoscenza più approfondita dell’essere –, ma anche ad un’importante funzione epistemologica, giacché il suo contenuto costituisce l’intelletto comune dell’umanità, la quale, oltre le divisioni culturali storicamente date, si trova legata proprio da queste verità fungenti da patrimonio comune, su cui di conseguenza non ci si può trovare in errore.
La legge concreta della verità
Parlando di questo tema, dell’errore come della verità, il discorso riguarderà ora questi due concetti, e soprattutto appurare quale sia in fin dei conti ciò che formalmente sancisce la verità così come ciò che formalmente sancisce l’errore. La verità è il legame intenzionale sussistente tra il conoscente e il conosciuto: adaequatio rei et intellectus; tuttavia, volendo sondare con un’appropriata formula logica il significato stesso della verità, è chiaro che esso consiste in una relazione intercorrente tra i due, tale che importi il presentarsi di una terza realtà che congiunga ambedue: infatti, se si desse il conoscente come elemento autonomo rispetto al conosciuto, la loro relazione negherebbe quell’identità, e invece accade che essi sono tali proprio in quanto uniti in un’unica identità. Ma se il terzo elemento è ciò che unisce il conoscente e il conosciuto, si dovrà comprendere in che senso si dia questa inerenza: esso, difatti, sembra dividerli, poiché dal suo inerire al soggetto formerebbe con esso un’unità che escluderebbe l’oggetto, e viceversa; e da queste due relazioni si originerebbero altri termini medi, dando così luogo ad un regressus ad infinitum. È necessario dunque che il medio sia interno e non sopraggiunga al soggetto e all’oggetto, di modo che la loro unione sia la sintesi originaria entro cui il medio si dà come il momento che comprende in sé tanto il soggetto quanto l’oggetto. La conoscenza della verità è così, nella sua essenza più intima, legame di tre elementi, compresenti sotto lo stesso riguardo, sì da permettere il concreto risultare della verità al pensiero per mezzo del terzo che congiunge entrambi. E l’errore? L’errore è propriamente causato da una comprensione astratta della verità, che si può così designare con l’espressione di intelletto astratto. Su questa figura ha insistito molto la tradizione idealistica, e in ciò l’idealismo concorda con la filosofia classica e Scolastica, per cui il male è una privazione: stante quindi che l’essere è il bene e il male è privazione di questo bene, e stante che l’errore è il male per l’intelletto il cui bene è la verità, allora l’errore è la privazione provocata dalla separazione dal concreto e dall’integro che solo l’adeguato possesso della verità può donare. Certo, l’identità intenzionale è unità di due, a differenza della Trinità che è Unità di Tre, poiché nel quadro dell’esperienza come del pensiero, l’unità (forma) ha la funzione di relare la molteplicità (materia), così che il medio non ha una presenza ostensibile come gli estremi e si trova quindi sempre accanto ad essi. Viceversa, nel Primo Principio, Trinità, non vi è materia separata dalla forma come additiva a questa (a differenza della forma che si riscontra nell’orizzonte dell’esperienza) ma è la Forma stessa che si fa materia in perfetta circolarità. In altre parole in Dio, Relazionalità Sussistente, di modo che la Forma della relazione sia la Materia stessa di questa– riprendendo, in chiave henologica, la distinzione tomista di atto d’essere ed essenza.
La legge concreta della verità non è altro che la concreta legge dell’identità, discendente dall’unitrinità che è l’entelechia della stessa realtà, che importa così la relazione – l’integrità – in luogo della separazione. Dalla Triunità di Dio così si è passati alla struttura ternaria dell’esperienza e alla triunità del vero.
Dario Rinaldi
[1] Quella di Aristotele, com’ebbe a osservare Heidegger ma non solo lui, è di fatto un’ontologia del determinato, poiché il suo oggetto principale è la sostanza determinata che trovo nell’esperienza, concependo l’infinito come materia prima. Questa ‘granulosità’ nella concezione della realtà può (e deve, per certi versi) essere bilanciata dalla ‘continuità’ propria della visione platonica – essenziale per il teorema della creazione che abbiamo studiato nell’articolo precedente, che richiede la partecipazione, impossibile in un universo dove ogni sostanza è chiusa in sé, nella sua autosussistenza. Il lascito più prezioso di Aristotele forse è stato proprio il suo predisporre l’itinerario filosofico allo studio dell’Assoluto e a quelle forme meta-categoriali note a Platone e in seguito al platonismo, dando così modo in futuro ai metafisici di sfruttare sia l’edificio concettuale suo che del suo Maestro. L’esempio eloquente di tale fusione fu ancora una volta Tommaso.
[2] La dimostrazione trinitaria, compiuta rispettivamente dal propter quid e dal quia – discorrendo attentamente sul concetto di unità e muovendo dall’esperienza alla Causa in virtù del principio di proporzionalità sopra menzionato – non elimina in alcun modo il mistero teologico sulle Persone divine e sulla loro processione (dal momento che non dice nulla sulle Tre Persone e dei loro ruoli). Si è soltanto spianata la via della ragione al fine di risolvere il problema per eccellenza dell’Uno e dei Molti, riconoscendo – sulla scorta di N.A. Elagin – che il solo modo di rendere ragione di tale problema è pervenire alla concezione dell’Uno quale Trino (Cfr. Opera Omnia di I. V. Kireevskij, in 2 voll., Mosca 1912, vol. I, p.74).
[3] L’antirealismo è l’atteggiamento predominante non solo nel panorama filosofico ma anche scientifico (in cui tra l’altro, lo si vorrebbe far derivare dalle scoperte della scienza naturale: è il caso della strumentalizzazione ideologica del principio d’indeterminazione di Heisenberg, dell’entanglement e delle teorie del caos – che nella vulgata popolare adoperano tale espressione dimenticando che ciò che nelle scienze dure si dice “caos” è solo l’imprevedibile, che quindi non sempre rientra nelle misurazioni e calcoli iniziali). Come accennato nel precedente articolo, la causa di questo atteggiamento è stata la presupposizione gnoseologistica moderna, dove la conoscenza fu concepita al modo di un carpire non gli enti nelle loro species, ma le esclusivamente le species – avendo così luogo la scissione di idea e res, e divenendo l’Idea sinonimo di rappresentazione interna. Sempre nell’articolo precedente abbiamo mostrato limpidamente la contraddizione immediata di una simile posizione, e anche delle dottrine contemporanee che si rifanno ad essa. Per un approfondimento complessivo della “presupposizione gnoseologistica”: G. Bontadini, Studi di filosofia moderna, Vita e Pensiero, Milano 1966. Per una ricognizione epistemologica sul metodo proprio della filosofia classicamente intesa, che la rende sapere stabile e dimostrante le sue verità attraverso la confutazione delle negazioni: C. Vigna, Il frammento e l’Intero, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, Sezione Prima. Epistemologia filosofica, pp. 41-139.
[4] L’ateismo già si auto-confuta nel momento in cui vorrebbe porsi, poiché dovrebbe asserire che l’esperienza sia l’Assoluto – ergo che possieda unità e stabilità (perché al di qua di ogni divenire, e quindi l’eternità) tale da ricomprendere la molteplicità; di conseguenza l’io o il mondo dovrebbero avere l’Onniscenza e l’Onnipotenza, che in fondo altro non è che la capacità di disporre della Materia senza esserne a sua volta dipendente, e quindi dell’Unità che, in quanto Totalità, ogni cosa abbraccia e produce. Di conseguenza, il solo dubitare se vi sia o meno l’Assoluto, di sicuro qualcosa assoluto lo mostra: che non lo siamo noi, e quindi necessariamente è altro dal mondo.
[5] È un esempio eloquente la posizione di Dennett, il quale preferì piuttosto parlare di. Ciò in aperta opposizione contro la concezione che farebbe dell’io un osservatore disincarnato, res cogitans rispetto alla res extensa. Proprio la presa di mira della concezione cartesiana della coscienza, piuttosto che di quella aristotelica e tomistica, può dirsi la responsabile della posizione autocontraddittoria del pensatore di Boston.
[6] A. Livi, Filosofia del senso comune, Leonardo da Vinci, Roma 1990; Il principio di coerenza, Leonardo da Vinci, Roma 1997. Il punto su cui distanziamo da Livi è però sull’inclusione di altre due verità accanto alle suddette tre: quella “degli altri io” e “della legge morale”, ritenendo invece che esse siano riconducibili alle tre grandi componenti dell’Unità Cosmoteandrica. Difatti l’esistenza del mondo al quale il pensiero si trova legato ma incapace di esercitare potere e soprattutto quella di Dio immediatamente mostrano l’impossibilità del solipsismo, come della necessaria esistenza di un ordine. Anzi, l’ordine dell’universo (il télos) è dato in origine proprio dal mondo come insieme ordinato di enti (di cui le relazioni umane sono senza dubbio un caso peculiare, ma comunque rientrante nella categoria di “ordine” desunto dapprima negli enti). Di conseguenza, in accordo con la fenomenologia della conoscenza e anche con la cospicua tradizione filosofica, che Livi stesso onora e riconosce nei suoi saggi, sembra che la metaphysica specialis, e quindi la realtà nel suo volto intimo, sia strutturata secondo le suddette tre verità.
[7] Mi pare questo abbiano voluto dire non solo Gilson, nel suo L’Athéisme difficile, ma anche Maritain nel suo Approches de Dieu designandola come razionale e non rientrante già nell’ordine delle verità di fede, in quanto procedente come una delle prime appercezioni dell’intelligenza, dunque anteriore ad ogni successiva elaborazione filosofica e scientifica. Questa è la vera interpretazione della dimostrazione contenuta nel Proslogion, recuperata in parte da Schelling e soprattutto inserita in un quadro di teologia naturale, onde la creatura può risalire, anche mediante il suo guardarsi interiormente, all’esistenza di una Causa immutabile e necessaria. Del resto, una capacità da parte dell’uomo d’intuire l’esistenza (e non già l’essenza, ché è impossibile trovandosi su questo mondo) di Dio è ciò che ci si deve anche logicamente attendere dal suo essere una creatura, recante seco delle vestigia del Creatore. Dio infatti è immediatamente deducibile, seppur ignoto nella Sua intima natura, nell’orizzonte pre-filosofico come esigenza di un fondamento, mostrandosi alla ragione come Colui “in cui viviamo, ci muoviamo e siamo” (Atti 17, 23-28).



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