Ricevo e pubblico con piacere questa serie di articoli di Dario Rinaldi sull’origine della riflessione metafisica. Rinaldi – autore tra l’altro di un imponente studio sulla struttura originiaria dell’essere (per maggiori informazioni clicca qui) – in questo serie di articoli si confronta con il “problema essenziale dell’uomo essenziale” – per dirla con Fabro.
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Che cos’è la filosofia se non la ricerca instancabile del principio che unisce e spiega la molteplicità delle cose? L’henologia, la “metafisica dell’Uno”, è la via più antica e forse più dimenticata di questo interrogarsi: un paradigma che precede l’ontologia e che affonda le radici nei presocratici, in Platone e nel cuore stesso della speculazione classica. Parlare dell’Uno e dei Molti non è un esercizio erudito, ma toccare il fondamento da cui dipendono le nostre esperienze, le nostre scelte e persino le strutture della convivenza civile. Questo scritto vuole riportare in luce una tradizione che ha molto da dire al pensiero contemporaneo, spesso smarrito nel frammento e incapace di ricondurre la parte all’insieme.
[Giovanni Covino, autore e curatore di Briciole filosofiche].
In questo quarto saggio si vuole mostrare come dall’Uno correttamente tematizzato, ossia come Trinità, segua necessariamente un’ontologia nuova, regionale anziché esclusivamente formale, che si configura come un potente mezzo d’indagine della realtà nel suo contenuto intensivo ed estensivo. Lo scopo di questo contributo è così illustrare l’apporto benefico che la metafisica henologica concreta può apportare alla cultura contemporanea: anzitutto ripensare l’unità dei saperi, al vertice dei quali per il suo rigore e il suo “altissimo subietto” non può che esservi la metafisica come scienza dell’Intero (secondo l’insegnamento di coloro che per primi la scoprirono), riscoprire una ‘fisica filosofica’, ossia un’ontologia della natura – che al principio dell’età moderna si credette impossibile – e infine approdare a un’etica e a una philosophia christiana dall’elevata potenza ermeneutica del Dogma (che sarà portato a termine nel quinto e ultimo articolo). Tutto questo per mezzo del concetto concreto che si vuole qui illustrare.
Riepilogo: dall’Uno astratto all’Uno concreto (Trinità)
La filosofia classica è risultata, nel suo memorabile e secolare corso, incompleta, e quindi incompiuta, perché com’è stato detto, non è riuscita a rendere ragione dell’esperienza nel suo contenuto intensivo, pervenendo a un concetto di Assoluto (Unità) che per essenza nega ogni Molteplicità all’in fuori di esso. Si è detto, invece, che il vero compimento di quel cammino tracciato dai Greci per primi risiede nel teorema della creazione, onde l’Uno crea il Molteplice per un atto di libera volontà e da nessuna sostanza preesistente – così che l’esserci delle innumerevoli realtà dipende dalla Causa Prima che ha elargito loro l’essere. Ma tutto questo implica una certa immagine dell’Assoluto per cui Egli è portato a desiderare l’altro da Sé, e così di conseguenza a relazionarvisi tramite l’atto creatore, anzitutto facendo sì che per prima cosa gli enti ricevano unità, divenendo così delle realtà determinate, ciascuna identica a sé, eppure relata alle altre. L’unità, difatti, non è altro che la relazionalità di un ente con sé stesso al di qua di ogni dispersione. L’unità è quindi fondamento della molteplicità, senza di cui essa non sarebbe intelligibile (dire “molteplicità” è già ricomprendere la vastità di cose che ci circondano nell’unità della parola suddetta, quindi del concetto che ne consente la pensabilità e la dicibilità) e neppure esisterebbe (la parte presuppone necessariamente l’Intero). L’unità è di conseguenza forma, perché se la molteplicità è dalla parte della materia (come estensione e prima ancora come possibilità, che è altro dall’unità quanto all’instabilità: lo sviluppo e quindi la pluralità di modi) e quindi non possiede di per sé la stabilità, questa non può che provenire dalla forma; pertanto l’unità è così atto della molteplicità.
Ma tutti questi attributi elencati a proposito dell’unità presuppongono l’attributo fondamentale di questa: la relazionalità, la capacità di: fondare, formare, attuare e quindi unire qualcos’altro che quindi non è. Risalendo per catena causale, se l’unità che si riscontra nelle cose e nel pensiero, è sempre unità-di-molteplicità o identità-di-una-diversità, il Fondamento dell’universo non potrà che essere un’Identità Pura e pertanto dotata del massimo grado di stabilità e dunque di auto-possesso, che solo un’Autocoscienza pura può avere, perché non accompagnata dalla potenza propria della corporeità. Ma è chiaro che Tale Autocoscienza è fondata su un triplice rimando all’interno di Sé [1], e quindi il Fondamento non sarà che una Tri-Unità. Alla luce di queste analisi, mentre un greco direbbe che poiché Dio desidera Se Stesso non vuole di conseguenza il mondo, alla luce della metafisica autentica siamo portati a dire che: poiché Dio desidera Se Stesso crea liberamente il mondo (può notarsi la differenza!)
Aporia del concetto classico di ‘ente’
Ho riassunto brevemente ciò che è emerso nel precedente articolo. Tuttavia, un tema affine a questo – all’errata concezione del Principio che ha determinato l’incompiutezza della metafisica avviata dai Greci – è il punto di vista sulla Materia proprio della riflessione greca, che in tutte le dottrine, pur con le loro differenze proprie, è sempre risultata l’incomprensibile per antonomasia (ciò che è privo di intelligibilità, e quindi è indegno di una comprensibilità). Questo rifiuto verso la Materia, operante come presupposto in tutti gli autori greci, è collegato indubbiamente a opinioni circolanti all’epoca (la materia come sinonimo di male, la concezione per questo di tutto ciò che avesse a che vedere con quella), ma indubbiamente alla succitata visione ‘esclusivista’ del Principio (di cui si è abbondantemente detto).
Sulle prime, il tema della Materia sembrerebbe essere una dimenticanza tutto sommato scusabile agli antichi, qualcosa su cui non avrebbe senso soffermarsi più di tanto. Ebbene, il lettore si stupirebbe nell’apprendere invece che tutte le problematiche che il pensiero ha dovuto affrontare nella sua millenaria storia dipendono da questo rifiuto sprezzante della Materia, dell’immanenza, generando la spirale di dottrine che ancora oggi trovano accoglienza nel loro atteggiamento antimetafisico e sono responsabili altresì della divisione dei saperi. In altre parole, la mancata ‘ricomprensione’ della Materia nella Forma da parte degli stessi autori che diedero avvio all’indagine filosofica ha influenzato sull’intero corso del filosofare. Si ritorni a Platone, e alla celeberrima “dottrina delle idee” con la quale avrebbe dovuto superare l’aporia del suo predecessore Parmenide (e, a sua volta, diremmo noi, di Anassimandro, che dalla notizia dell’Uno deduceva arbitrariamente la nullità dei Molti come accidenti). L’Idea è il concetto, propriamente parlando, poiché è ciò che consente in ragione di sé, della sua immobilità di rendere conto della molteplicità intensiva ed estensiva mutevole, ottenendone una chiara apprensione all’intelletto.
Le cose partecipano delle Idee, aveva sancito il grande pensatore greco; dunque, l’Idea è presente nella cosa, la quale è apparire dell’Idea. Se non che, vista questa condizione di relazione, deve in qualche modo sussistere un’omogeneità tra i relati. Ora, com’è possibile instaurare una relazione con ciò che si è definito separato e di altra natura (choristós)? Le possibili vie per spiegare questa relazione curiosa sono tre: la prima consiste nell’elevazione delle cose sensibili, dunque riducendo la loro alterità rispetto alle forme pure, giustificando così l’omogeneità tra i relati; la seconda possibilità sarebbe quella di ridurre l’alterità dell’Idea rispetto alla cosa sensibile, che così si materializzerebbero nella relazione; per la terza possibilità, si dovrà postulare un quid medium, che così non è Idea né cosa sensibile, e in questa terza possibilità si cade nel regresso all’infinito, e qui si incorrere nell’aporetica ben illustrata da Aristotele con il celebre argomento del terzo uomo
La conseguenza di questo è che la cosa non si riesce a pensare come un’identità, stante la sua vicinanza al non essere in quanto copia, e dunque l’esito necessario è vedere nella realtà materiale un segno, in ragione del fatto che la sua quiddità si riduce all’essere significante quell’altro che è appunto l’Idea. L’Idea, l’intelligibile, se è relata alla cosa, deve necessariamente contenere già in sé del sensibile, dell’empiria, di modo che questo lo si pensi come una individuazione nel mondo della stessa identità superiore. Ma questa strada non fu certamente presa in considerazione da Platone, e qui si scorge il motivo della critica di Aristotele alle teorie del maestro, che si riduce proprio a mostrare l’impossibilità di intendere come relate due entità eterogenee. Tuttavia il torto dell’eccessivo empirismo di Aristotele è aver fatto dipendere dall’empiria l’Idea, senza pensarla come un sostrato eterno, e nel corso dei secoli vi è dunque stata la duplice alternativa di concepire ora soltanto l’Idea (uno, razionalismo, gnosticismo), ora soltanto l’empiria (molteplice, empirismo, agnosticismo), senza che la ragione occidentale si avvedesse del carattere mirabilmente uno-molteplice proprio dell’Idea, che avrebbe consentito una scienza concreta, importando anche l’unità dei saperi in luogo della scissione avuta all’indomani dell’età moderna (quando, del resto, ci si accorse che i concetti elaborati dall’intelletto greco, applicati alla natura, all’empiria, non ne consentivano una scienza concreta)
La situazione della ragione occidentale, da Platone in poi, si può infatti riassumere con due formule matematiche, avendo da un lato: l’Idea nella sua impredicatività, e per questo nella sua vuota posizione (A = A), e la serie interminata delle cose empiriche, che nella loro materialità risultano impassibili di una riconduzione all’immateriale: a1,a2,a3…an. Un verace concetto che invece avrebbe dovuto realmente spiegare la cosa è un concetto che, pur essendo trascendentale, avrebbe contenuto pur sempre qualche ‘nota’ del materiale, con una certa omologia. Può venire espresso dalla seguente formula:
A= (a1,a2,a3…an).
Dove appunto A è appunto ‘principio’ delle cose empiriche, così che queste vengono ricomprese in essa, e dunque alla luce di questa conosciute (perché l’atto di conoscere qualcosa scientificamente significa riportarla alla causa).
Le conseguenze di questa impossibilità di comprendere il concreto a partire dal concetto hanno originato la storia della filosofia occidentale per come oggi la si conosce, con le sue problematiche, i suoi momenti storici cruciali e i processi di disgregazione dell’unità dei saperi. L’ontologia che si è ereditata dai Greci è difatti definita “ontologia formale”, perché non mirante a indagare le regioni della realtà, e quindi il concreto, bensì solo a studiare le sue proprietà formali, discendenti dai principii logici. In altre parole non vi è una ‘comprensione’ dell’empirico nella sua natura, poiché il concetto – come si è mostrato – nella sua significanza lo esclude. Sarebbe tuttavia erroneo imputare questo al genio di Platone (a cui comunque va ascritto il ‘tentativo’ di situarsi oltre Parmenide, seppure invano), che invece va ascritto al presupposto che già abbiamo avuto occasione di rilevare, ovvero dell’alterità della causa all’effetto – e quindi una causa che, lungi dal contenere in sé l’effetto, si chiude nella sua monoliticità abbandonando questo a se stesso. È il presupposto delle sapienze orientali, dove il dato empirico o è posto come illusorio (senza avvedersi delle contraddizioni a cui va incontro una simile prospettiva) o come un qualcosa di cui ‘ci si deve liberare’. Il pensiero greco delle origini – dapprima con il movimento orfico e pitagorico, e poi soprattutto con Anassimandro e Parmenide – ha accolto questa sorta di ‘iper-metafisica’ [2] o ‘gnosticismo’ come un pregiudizio indiscusso, che però intanto ha reso impossibile alla filosofia di adempire al suo compito: rendere ragione (λογὸν διδόναι) dell’esperienza nella sua ricchezza, alla luce dei Principii immutabili. Per cui, parimenti alla tematizzazione dell’Uno (che, in quanto Fondamento, non può che avere una natura ‘inclusiva’, ossia ‘relazionale’) allo stesso modo anche per la tematizzazione dell’universale occorre una messa in questione del presupposto separatistico, nel cui segno si è sviluppata l’ontologia.
Dal concetto astratto al concetto concreto: superamento dell’ontologia tradizionale
Se l’indagine svolta riguardo al concetto di Uno ha mostrato il suo non essere in Sé μοναχός ma relazionalità originaria e attuale, allo stesso modo quello che da Lui promana non può più essere l’universale che nulla ha in comune con l’empirico, ma la radice ultima cui rimanda ogni presenza ontica dell’esperienza, e quindi il primo frutto della relazionalità, ciò che nella sua forma reca già con sé una materia, dunque un concetto tanto estensivo quanto intensivo. Questo ‘essere’ che a rigor di logica è richiesto dalla tematizzazione relazionale dell’Uno, ignoto alla speculazione greca e latina, è stato invece approntato dal pensiero ebraico: esso prende il nome di Partzuf (“Espressione”).
Il Partzuf è propriamente la Causa d’essere degli enti empirici, in cui si trovano le note qualificanti di ogni determinazione che si affaccia nell’esperienza. Esso, in altre parole, è un concetto che fa presa su l’universale concreto – così che è concetto concreto, a differenza del concetto classico di ente che è un concetto astratto.
Il lettore si ricorderà dell’Unità Cosmoteandrica che abbiamo in precedenza illustrato, che pone la realtà nel suo aspetto formale come comunione tra: Dio – uomo – mondo, e segna il passaggio dalla metafisica generale alla metafisica speciale. Ebbene, una cornice ‘ternaria’ della realtà, dov’è anzitutto una comunione, comporta che vi sia la presenza di un contenuto comune, di una proprietà che tenga legati Dio, uomo e mondo. Questa proprietà, questo elemento in comune, è il Partzuf come Espressione comunicata da Dio affinché il mondo e l’uomo traggano il loro volto, e questo conduce ad asserire che sia questa proprietà ciò che pone in ‘relazione’ i tre. È quindi il significato per cui la realtà manifestata nell’atto creatore assume il suo Volto (Partzuf significa, infatti, anche ‘Volto’).
Per entrare nel dettaglio, è da tenere a mente la ricognizione compiuta da Aristotele all’inizio della sua Metafisica, dove discorre di quali siano i principii e di come in un modo o nell’altro i suoi predecessori li abbiano scoperti (difatti la Metafisica è anzitutto la scienza delle cause, dei Principii che reggono la realtà), pervenendo anzitutto al loro numero, ossia quattro, né di più né di meno [3]. L’esigenza che i principii debbano essere finiti, e dunque limitati – oltre a dover essere in sé qualificati – deriva dal fatto che essi, in quanto appunto principii delle cose, debbano essere in grado di radunare la molteplicità intensiva ed estensiva della realtà. Empedocle in particolare giunse a tematizzare questi principii, e li appellò come i quattro elementi (acqua, fuoco, aria, terra). A questo seguì Platone, che nelle sue memorabili indagini contenute nel Sofista giunse ai quattro generi sommi (identico, diverso, quiete, movimento). Platone supera l’errore di Empedocle, che vedeva talvolta nei rizomata un che di reale talaltra un che d’illusorio, una nullità di fronte alla luce dell’Essere (segno del suo rimanere ancora imprigionato nel presupposto eleatico, come pure anassimandreo) e soprattutto sul suo non aver compreso che il principio del mondo materiale dev’essere immateriale. L’Ateniese così nel Sofista elevò alla seconda potenza quelle che erano delle ‘radici’ pur sempre empiriche, designandoli come generi metafisici: l’identico, il diverso, la quiete e il movimento.
Già si è avuto modo di discutere del fondamentale problema di Platone nel precedente paragrafo, e anche qui riaffaccia: i generi sommi, proprio in quanto cause dovranno avere una qualche relazione con le cose empiriche, al punto che i quattro elementi naturali dovranno essere una loro individuazione (l’identico dovrebbe essere ciò che nel mondo ha proprietà coagulative, di unificazione, come l’acqua o il magnetismo – e questo proprio per la funzione che ha da svolgere la causa nei riguardi dell’effetto, sì da non essergli ‘aliena’, come invece l’ontologia greca dagli albori ha implicitamente sostenuto. Allo stesso modo il diverso, ciò che rispetto all’identico tende già a un movimento, si riverserà negli elementi che pongono soluzione, e dunque divisione, come il fuoco e l’elettricità; la quiete, l’equilibrio tra identico e diverso dovrà quindi avere una funzione che coagula però già nell’orbita di un divenire, e quindi sarà l’aria e il tempo. E infine il movimento, ciò che implica il divenire, reso però possibile dagli altri tre, corrisponderà alla terra e allo spazio). Se il lettore ci pensa, questo che dovrebbe essere il quadro di una metafisica autentica, che per mezzo della causa spiega l’effetto, è invece obliato dal pensiero ellenico e anche posteriore. Poiché la causa, si diceva, viene pensata come aliena dall’effetto, senza alcun legame di omogeneità – che soltanto può consentire “spiegazione”. In altre parole, in un simile prospetto, vi è una continuità tra causa ed effetto, che fondandosi sull’omologia assicura che dal perché discenda altresì il come.
Aristotele è colui che, sulla scorta delle indagini dei suoi predecessori, tematizza la: causa formale (che importa unità, staticità interiore), causa efficiente (ciò che implica un cambiamento, un’azione esterna alla immutabilità interiore), causa finale (ciò che arriva come risultato dell’unità interiore e della trasmutazione) e la causa materiale (che indica la cosa nella sua piena presenzialità). Tuttavia anche qui permane la dieresi dell’effetto dalla causa, così che l’intelaiatura causale esposta dallo Stagirita – di per sé un preziosissimo guadagno ai fini d’imbastire l’ontologia come scienza anzitutto della sostanza – consente una spiegazione del perché e non del come – In altre parole, l’ente è un concetto formale, vuoto, che quindi richiede addendi al fine di divenir concreto. Non come, invece, il concetto di Partzuf, che contiene già quel minimo di complessità. Ma si proceda a illustrare due esempi.
Prospettive di ricerca: due esempi di ontologia regionale
Il Partzuf è l’unità di quattro cause, che sono assimilabili a quelle aristoteliche e prima ancora ai generi platonici, e le si possono chiamare: Padre, Madre, Figlio e Figlia (letteralmente la traduzione in italiano dei corrispettivi ebraici; vi è una ragione profonda del perché si adottano questi nomi ‘antropomorfi’, ma sarà discussa nel quinto e ultimo articolo, per le sue rilevanti implicazioni etiche e teologiche. Il lettore può riferirsi, per comodità e abitudine, a queste come causa formale, causa efficiente, causa finale e causa materiale o a: identico, diverso, quiete e movimento) – soltanto che sono inserite in un quadro di relazionalità, onde si configurano come cause nel senso autentico del termine, e dunque per mezzo di esse diviene possibile render conto non già esclusivamente del perché ma altresì del come. E per di più, queste cause sono presentate come accomodate in due rispettive coppie, una è quella che importa di suo ‘stabilità’ e ‘perseità’, mentre l’altra importa ‘divenire’ e quindi ‘mutevolezza’. Eccone il quadro:
Partzuf Padre – Madre (piano superiore, essere)
causalità Figlio – Figlia (piano inferiore, divenire)
Prendiamo una scienza che oggi è molto diffusa e ha apportato diversi contributi, quale la psicologia (separatasi dalla filosofia con Wundt), al fine di mostrare come il quadro completo delle funzioni psichiche sia spiegabile, nella sua regionalità, proprio dalla quadruplice causalità appena delineata. Anzitutto la vita psichica ha un cominciamento, così che il pensiero non è eterno (come hanno erroneamente inteso gli autori idealisti), bensì parimenti all’intelligenza trae origine dall’intuizione, che dona l’esperienza immediata a livello di notizia globale, e da questa prima impressione, dove tutto è indistinto si diparte l’intelligenza, che dall’intuizione, dove tutto è unito, procede a una divisione, andando dal Tutto alla parte.
Intuizione e intelligenza sono dunque rispettivamente la causa formale e la causa efficiente del pensiero – e dunque la coppia superiore che importa stabilità e per di più consente d’ispezionare queste facoltà che di loro danno avvio alla vita psichica – poiché un pensiero senza preceduto da una conoscenza è nulla; il pensiero sarà l’attività che si distende presupponendo quindi una conoscenza, nel tentativo di cercarne un’altra – e quindi sarà causa finale –, e che tuttavia nel suo corso è intimamente unito alla memoria che è un po’ l’archeologia, poiché un pensiero senza cognizioni pregresse non può procedere verso nuove cognizioni, supponendo così il limite inferiore dato dalla memoria e il limite superiore dato invece dall’intelligenza. Pensiero e memoria sono così la coppia inferiore che importa divenire, poiché dipende dalla prima coppia superiore, e insieme a questa vengono così ricomprese nello schema causale. Così da quest’ordine, dove la causa non si limita a una funzione puramente, bensì ricomprende nella propria estensione anche l’intensione della cosa studiata, e dunque funge da strumento euristico di questa, ne emerge l’intero ordine della vita psichica e le diverse facoltà sono ben spiegabili alla luce di questa causalità descritta.
Se si suppone che queste digressioni non esprimano che ovvietà, è bene ricordare che proprio il non aver avuto presente l’antecedenza dell’intelligenza sulla coscienza ha generato problematiche ripercossesi a lungo termine nella storia del pensiero, specie ad opera dell’idealismo – in particolare nella sua declinazione gentiliana –, che ha confuso i due, senza avvedersi che un pensiero è possibile solo se si ha una pre via conoscenza, e dunque (contro la dottrina dell’autoconcetto e del formalismo assoluto) da solo non può essere produttore della realtà. Per di più, proprio perché dipendente dall’intelligenza, che già importa una discriminazione – e dunque una divisione che dà luogo alla molteplicità data dalla conoscenza –, il pensiero non può affatto reputarsi Dio. Se Gentile e i suoi epigoni avessero tenuto presente il quadro delle facoltà psichiche come descritto eloquentemente da questa ontologia regionale, avrebbero trovato rapida smentita di parecchie loro asserzioni – e allo stesso modo i primi scopritori dell’inconscio, reputandolo la facoltà dell’io presiedente alle altre, scardinando così il valore imprescindibile del pensiero razionale. Difatti il pensiero (causa finale), guidato dalla memoria (causa materiale), procede nella conoscenza data dall’intelligenza (causa efficiente), che a sua volta è resa possibile dall’intuizione o evidenza, tramite la quale prende coscienza della realtà come un Intero (causa formale). La psicologia come “ontologia regionale” è compendiata ed esplorata mediante la struttura causale data dal concetto concreto nella sua quadruplicità. Ma la valenza euristica non termina qui. Anche la fisica – la disciplina che dall’età moderna si è erroneamente opposta alla filosofia, alla quale ha imputato ancora oggi l’intromissione nello studio dei fenomeni – proprio nell’immagine dell’universo raggiunta per mezzo delle sue teorie moderne risulta passibile di una indagine filosofica adoperante la quadruplice causalità fondata sul concetto concreto di Partzuf (permettendo in tale maniera la conoscenza dell’essenza del fenomeno, e non la sua semplice traduzione in dati quantitativi). La fisica moderna, infatti, attraverso le equazioni di Maxwell, dimostra che la propagazione dell’informazione richiede una reciprocità dinamica: la variazione nel tempo del campo magnetico (associato alla causa formale) genera il campo elettrico (causalità efficiente), nonché la stessa velocità della luce, limite di velocità cosmico [4], assumente così carattere d’invarianza rispetto al tempo, a differenza di come credettero i moderni; proprio dalla relatività speciale è stata scardinata la concezione di un tempo assoluto e quindi identico in ogni dove e in ogni momento, funzione che invece è propria della luce, e la cosa non dovrebbe stupire, dato che il tempo deve presupporre qualcosa di antecedente che tuttavia propaga, (causa finale), che a sua volta è dipendente dallo spazio (causa materiale) [5]. La mutevolezza del tempo è una conseguenza diretta dell’immutabilità del campo elettromagnetico, perdendo quello il carattere di assolutezza erroneamente attribuitogli. Ad ogni modo, i due importanti traguardi della fisica contemporanea è l’unità delle forze, secondo due rispettive coppie: l’elettromagnetismo e lo spazio-tempo, che prima si credevano separate, e dunque – in chiave di spiegazione filosofica – la prima coppia data dai due Partzuf Padre e Madre (la causa formale e la causa efficiente, come le si sono concretamente tematizzate), mentre la seconda coppia data dai due Partzuf Figlio e Figlia (la causa finale e la causa materiale).
Così da questo breve excursus, la struttura e l’ordine causale ricalcante quello greco ma corretto alla luce della relazionalità soggiacente tra causa ed effetto, si è voluta spianare la via ad un’ontologia regionale rispettivamente della psicologia e della fisica, il cui oggetto di studio viene così ricondotto ai rapporti tra le quattro cause succitate. La “causa formale”, come le altre tre, in sintesi non è funta in questa ontologia quale “meta-concetto” bensì, calibrata ad accogliere le note del fenomeno di volta in volta da studiare, ha consentito di comprenderne il comportamento (in ragione della sua non alterità a quello), e quindi ha penetrato la realtà empirica che doveva infatti spiegare. Che due discipline aventi due oggetti diversi siano indagate mediante un unico concetto speculativo e soprattutto rivelino dei legami analoghi (il tempo con il pensiero, per l’appunto) è una conferma dell’unitarietà della realtà e quindi delle branche di studio cui assolve l’ontologia concreta qui illustrata. Identità e Diversità danno luogo alla Quiete e al Mutamento, che è così una reiterazione della prima, implicante già la dimensione del divenire, e quest’ordine lo si riscontra, come si ritiene d’aver mostrato, su tutte le scale di fenomeni (chimici, fisici, psichici). Ancora una volta, dunque, si ha attestazione della struttura delle quattro differenze del Partzuf :
Padre – Madre formale – efficiente
Figlio – Figlia finale – materiale
E proprio come la prima coppia è identità-diversità iscritta in un orizzonte di stabilità, allo stesso modo la seconda coppia è identità-diversità implicante il divenire: il Partzuf come concetto importa tale quadruplicità ordinata secondo i due piani di ‘essere’ e ‘divenire’, in cui . Le prime due anzitutto s’individuano come acqua e fuoco, che sono rispettivamente ciò che comporta aggregazione e dispersione, facendo derivare dalla loro unione l’aria e la terra, che sono ciò che rispettivamente comporta dilatazione e mutamento, e allo stesso modo, nel piano di leggi fisiche, queste proprietà s’individuano come: magnetismo, elettricità, spazio e tempo; e da questi l’universo trae la sua struttura e il suo funzionamento. E sempre la presenza congiunta di tutte e quattro queste differenze-cause-forze (legame olistico) offre un quadro compiuto della realtà conosciuta come universo. Quadro che non annulla di certo il mestiere dello scienziato e la mirabilità dei calcoli con cui riesce a congetturare previsioni che desiderano godere della massima esattezza, anzi si profila come integrazione di ciò che l’eccessivo apparato matematico non riesce a guadagnare, che resta sempre ‘buccia d’idee’ e non appunto una ontologia regionale – com’è invece guadagnata attraverso il concetto concreto di Partzuf, superando così lo storico limite che invece hanno incontrato del pensiero ellenico in materia di ontologia – ciò ovviamente non per sé stesse bensì perché recanti quel presupposto mai chiarito che traccia l’alterità della causa dall’effetto. Per questo si era detto che il presente è un concetto la cui estensionalità comprende altresì una certa intensionalità, ovvero quell’intensionalitàrichiesta appunto dalla trascendentale in quanto causa del materiale.
Considerando, infatti, il Partzuf Pater, è posta a simultaneo la serie di determinazioni empiriche condividenti la proprietà dell’unione e dell’aggregazione, per cui: Partzuf Pater = {identità, intuizione, acqua, magnetismo} ottenendo di queste rispettivamente uno studio regionale. Allo stesso modo, considerando il Partzuf Madre, la serie di determinazioni condividenti la proprietà della disgiunzione e diffusione, e dunque: Partzuf Mater = {diversità, intelligenza, fuoco, elettricità}.
Il processo che conduce a questa opera di ricomprensione del particolare avente una certa proprietà nell’universale è così compiuto mediante induzione: si osserva il comportamento di un dato ente, confrontandolo con altri simili – impiegando pertanto l’analogia nella sua alta valenza conoscitiva, come appunto ciò che riconduce la moltitudine all’unità – e di qui, sulla base altrettanto delle precedenti osservazioni, risulta che il fondamento ontico della molteplicità estensiva e intensiva non si richiami che a queste quattro differenze che, in virtù del loro carattere di cause autentiche, sono capaci di fungere da prezioso strumento euristico. Così l’atto creatore partecipato sugli enti e la creazione stessa non è che strutturato, secondo il Partzuf, nelle anzidette manifestazioni.
In un prospetto, dove infatti vige l’omousia, il piano particolare (del come) discende dal piano generale (del perché), così che tra l’orizzonte fisico e l’orizzonte metafisico vi sia continuità, quella stessa continuità per cui, essendo il primo effetto del secondo, non vi è eterogeneità ma omologia, tale da essere così ricompreso in quest’ultimo. Il Partzuf è così la «quadruplice causalità», già tematizzata dai pensatori greci, che però non soggiace al chorismòs implicito nel pensiero classico, al punto da configurarsi come un concetto concreto anziché astratto e un valido metodo d’indagine della natura nei suoi aspetti.
Corollario: l’Uno è distinto dall’Essere
Le quattro cause circoscrivono così il perimetro dell’Essere, proprio perché intermedio tra l’Uno e i Molti, che quindi – come già Platone avvertiva – sarà un ‘misto’ e quindi non già Dio, bensì – tramite l’atto creatore – costituirà il Disegno sul mondo creato. Così che il Partzuf è la quinta causa che dà luogo alle altre, e quindi costituirà il quadro architettonico sul mondo.
In tempi piuttosto recenti, è stato il pensatore tomista Giuseppe Barzaghi che ha ricavato dalla lettura assidua dell’Aquinate una quinta causa sconosciuta rispetto a quelle note, che per la sua eminenza le tiene riunite in sé: si tratta dell’Exemplar, il minimo di complessità che consente al pensiero di avventurarsi verso il massimo della complessità, esplorando l’intera realtà [6]. Anche Barzaghi infatti avverte che quello di ente «è un concetto con cui non si va da nessuna parte», e nelle sue digressioni sull’Exemplar parimenti osserva come l’intima comunione tra il Creatore e la creatura trovi attuazione per mezzo di questa causa speciale che in sé racchiude l’intero ordine causale.
Tommaso si riferisce alla causa che si trova in mezzo alla causa formale e alla causa finale, e adunque la forma risiedente nella mente dell’agente, che intendendo il raggiungimento di un fine ordina la materia a ricevere la forma che poi sarà intrinseca a questa; appare chiaro che nel disegno dell’agente dovrà quindi trovarsi la forma nel suo riferirsi alla materia, e così la causa formale estrinseca sarà quella causa esemplare che ordina a sé la totalità delle cause, poiché in essa vi è: la forma che viene infusa nella materia, e la materia adeguata e disposta dall’agente così come intende operare per il fine; la totalità rappresentata dal fine e dalle sue concrete circostanze.
Ora, è evidente la stretta vicinanza dei concetti di Exemplar e Partzuf, al punto che possono ben pensarsi come il medesimo significato, di modo che il concetto latino di Exemplar precorra il concetto ebraico di Partzuf, con la differenza che questo secondo concetto importa una conoscenza non solo metafisica, ma anche cosmologica, e dunque esso non assolve solo un ruolo fondazionale dell’ontologia formale ma anche delle ontologie regionali (come già ribadito). Così esso concetto si presenta quale estensione del concetto latino di esemplare, elaborato dalla riflessione tomista. Nondimeno, alla luce di quanto finora detto, esso è in Dio come suo Progetto, ma si distinguerà da Dio proprio per il suo essere una molteplicità (le quattro cause) ordinata all’Unità (la causa esemplare) da cui trae la propria conformazione ontologica ogni sostanza della realtà, e quindi lo si dirà Essere, derivante dall’Uno (Trino) ma non identificabile con questo.
Pertanto, non resterà che ribadire che: «L’universo creato si risolve nell’exemplar dell’essenza divina creatrice, perché in essa ha il suo carattere d’ordine e partecipazione, ed è questo carattere d’ordine può esprimersi nella nostra intelligenza, secondo i parametri intelligibili dell’analogia» [7].
Dario Rinaldi
segue, capitolo V
[1] Un uomo si fa un’immagine di sé, pensa in altre parole sé stesso (e quindi si possiede, dal momento che la conoscenza è unione di un conoscente e di un conosciuto), ed è vincolato a questo pensiero – non necessariamente per autostima, ma soprattutto per avere quanto meno chiaro chi è e come sta agendo, appunto per conoscersi, e di conseguenza accettarsi in un modo piuttosto che in un altro. Questa è l’autocoscienza: esperire qualcosa, sapere di esperire e sapere questo sapere. Nell’uomo, che è determinato a essere chi è da altro (eventi, persone, contesti) sì da un’autocoscienza parziale e non originaria, oltre al fatto che il pensiero di sé varia continuamente, ed è sempre perfettibile (quante volte abbiamo sentito dire che noi non conosciamo a fondo noi stessi). In Dio invece, proprio perché è l’Unità non avente di contro una diversità, l’atto dell’apprendersi è originario, coeterno e perfetto, e quindi Dio non abbisogna di passare da una conoscenza di sé imperfetta o parziale ad un’altra, quindi è originario anche il sapersi e il desiderarsi come l’Identico. Le filosofie orientali, inficiate dall’errato presupposto greco (avendolo per prime rasentato), negano l’autocoscienza dell’Assoluto muovendo l’obiezione che essa Lo ‘sdoppierebbe’ rispettivamente in un ‘conoscente’ e in un ‘conosciuto’ come difatti accade con l’uomo. Tuttavia è la logica stessa a dettare che il Principio debba avere una cognizione di Sé, in quanto Unità – perché, come detto, la massima forma di stabilità è quella della coscienza, che nell’uomo consente di dominare la materia sia del suo corpo, raccogliendolo nell’unità dell’apprensione, che dei suoi vissuti passati e presenti, come delle sue attese – altrimenti se non avesse tale cognizione vorrebbe dire che c’è qualcosa che Gli sfuggirebbe, ossia proprio la “conoscenza di Sé”. Sembra quindi che la concezione astratta dell’Uno conduca proprio a quel dualismo che si vuole evitare.
[2] Ossia una visione che assume già in partenza l’Assoluto come ciò che è separato, e alla luce di questa idea (presuppositiva) pensa l’esperienza come illusoria. Le metafisiche di questo tipo si riducono a una ‘petizione di principio’: le realtà empiriche non esistono (perché solo dell’Assoluto si ha immediata notizia), quindi è impossibile che la realtà sia l’Assoluto, perché solo l’Assoluto è. Come può notare il lettore, il ragionamento dello gnostico è questo qui, e dunque la sua non è una ‘metafisica’ volta a spiegare la cosa pervenendo alla Causa, ma è un esercizio mistico, che quindi di epistemologico non ha nulla. Tale è infatti la sapienza orientale e tutte le dottrine storicamente sorte nel panorama occidentale nelle premesse.
[3] Metafisica A 3, 983 b-14 – 984 a6.
[4] Benché la fisica richieda questa parità dinamica per la sussistenza dell’onda, nei termini di iniziazione del processo può argomentarsi che l’energia potenziale del campo magnetico rappresenta la causa logica iniziale che innesca il ciclo auto-propagantesi di mutua generazione, definendo così la sequenza causale della nostra interpretazione.
[5] Prima era opinione comune che magnetismo ed elettricità fossero due forze separate e operanti in modo irrelato. Si deve alle equazioni di Maxwell la scoperta della loro intrinseca unitarietà, pervenendo al concetto di campo elettromagnetico. Con la scoperta della dilatazione dei tempi, e soprattutto dell’intimo legame che il tempo intrattiene con lo spazio, l’invariante – ossia ciò che permane identico e stabile nei fenomeni e sistemi di riferimento – non è più il tempo (come da Newton in poi fu creduto), bensì la luce (elettromagnetismo) che subordina a sé quello e lo spazio. Per di più il tempo non è assimilabile a un vettore che abbia la sua direzione iscritta nel futuro, quanto piuttosto esso si muove altresì in direzione del passato. Il tempo di suo importa divenire, soprattutto per la sua congiunzione con lo spazio, pur tuttavia non è quel divenire assimilabile al modo della ‘freccia temporale’, che conduce inesorabilmente verso l’entropia. Il divenire del tempo è condizione dell’apparizione dei fenomeni legati allo spazio, e questi comportano una sua dilatazione.
[6] Barzaghi, Il fondamento teoretico della sintesi tomista: L’Exemplar, ESD, Bologna 2015
[7] Ivi, p. 97.



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