Un brevissimo “ritratto” di Giambattista Vico, a cura di M. Padovano. La finalità del testo è perseguita attraverso una rapida, ma densa analisi della Scienza Nuova. Il Vico che emerge in questo testo è un Vico diverso da quello che comunemente conosciamo, lontano dalle letture storicistiche che da sempre gravano sulle opere del Napoletano (Giovanni Covino).
*** *** ***
Nelle «degnità» (principi primi o assiomi) della Scienza nuova, Vico parla di «boria delle nazioni» e di «boria de’ dotti, che, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo». Ebbene alcuni hanno voluto interpretare tale critica vichiana in senso storicistico e quasi relativistico. In realtà già se solo pensiamo alla quinta delle “degnità” vediamo come Vico afferma decisamente il valore assoluto, universale e meta-storico della filosofia: «la filosofia» – dice il filosofo napoletano – «per giovare al genere umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corrozione». Così appare evidente che la critica bisogna vederla rivolta ai moderni che fanno del loro pensiero e della loro scienza il grado di conoscenza più alto, giungendo, tra le tante cose, a reputare boriosamente «l’origini dell’umanità, le quali dovettero per natura essere picciole, rozze, oscurissime» (dignità II). Dotti questi che addirittura, seppur implicitamente, sono arrivati assurdamente ad assimilare la loro conoscenza e la conoscenza umana in generale all’Intelletto divino, cosa che, tra i tanti, ben notò Réginald Garrigou-Lagrange che ne Le sens commun afferma:
«L’idealiste comme la plante est enfermé dans son solipsisme, de lui il faut dire ce que Spinoza disait du sceptique: ”son véritable rôle est de rester muet”. A moins que l’idealiste ne prétende que sa pensée comme la pensée divine s’identifie avec l’être même…Dieu ou plante, il faut choisir».
La nozione vichiana di “boria” ha, così, un significato particolarmente interessante nel definire la questione dei limiti e del valore della ragione, della conoscenza umana. Bisogna chiedersi pertanto se possa essere separata dalla dottrina del sensus communis e del verum et factum convertuntur, come lo intende Vico stesso. Difatti, è proprio tenendo presente quanto Vico afferma sulla nozione di verità e sul valore epistemico del senso comune e della metafisica dell’essere in quanto scienza che si può comprendere davvero quali sono i limiti che l’uomo non può né deve pretendere di superare: non per imposizione coercitiva ma per necessità di natura. Qualcuno ha inteso la ben nota formula vichiana verum ipsum factum in un senso idealistico come creatività dello spirito, ma Vico stesso combatte la cartesiana filosofia del cogito, punto di partenza delle filosofie soggettivistiche che si fondano sul cosiddetto principio di immanenza, grazie al quale riducono l’essere al solo essere di coscienza. Come ricorda anche F. Amerio, il cui studio Introduzione allo studio di G.B. Vico lo stesso Paolo Rossi definisce «notevole» (si veda P. Rossi, Introduzione a La scienza nuova, Rizzoli), verum ipsum factum va interpretato nel senso che vi è vera scienza solo di ciò che si può ricostruire nella mente attraverso la conoscenza degli elementi costitutivi delle cose: la verità si attua, cioè, quando la cosa conosciuta, la stessa cosa conosciuta, è fatta, è generata nella mente attraverso gli elementi che la costituiscono come tale. Perciò Vico afferma che Dio solo ha scienza perfetta, ossia attualmente onnisciente, potremmo dire, mentre l’uomo delle cose «ne conosce solo aspetti» (De Antiquissima I,1). Pertanto, il filosofo napoletano non critica le pretese di scienza e di verità da parte degli uomini, ma le pretese di onniscienza. Nel De Antiquissima, come ricorda anche Sofia Vanni Rovighi (Filosofia della conoscenza, ESD) ancora leggiamo che come il leggere è il raccogliere gli elementi della scrittura «ita intelligere sit colligere omnia elementa rei, ex quibus perfectissima exprimantur idea». E, a mio avviso, questa è la medesima dottrina della verità (logica) come adequatio intellectus et rei che troviamo ad esempio nelle Quaestiones disputatae de veritate (1, a. 1) di Tommaso d’Aquino. D’altra parte, anche il già citato Paolo Rossi, definendoli però semplicisticamente «reazionari», riconosce questa vicinanza di Vico a quei filosofi e «teologi morali», in primis gesuiti come il De Benedictis, che confutavano già allora i nuovi indirizzi della filosofia moderna. «Quando – dice lo studioso (op. cit.) – «[Vico] avvicina cartesianesimo ed epicureismo («Renato…con la sua fisica macchinata sopra un disegno simile a quella di Epicuro») e condanna la filosofia cartesiana…e vede nei giusnaturalisti e in Hobbes, Locke e Spinoza i distruttori di ogni possibile convivenza civile; quando nega (nel De ratione) che le moderne scoperte tecniche siano legate alla nuova filosofia essendo esse invece un semplice prodotto del naturale ingegno; quando prende…posizione contro il meccanicismo della scienza moderna e contro la critica libertina al concetto di senso comune, Vico è in realtà vicino – assai più vicino di quanti taluni non amino credere – alle tesi che molti dei reazionari del suo tempo (gesuiti in testa) avevano formulato e sostenuto in polemica con i novatori italiani ed europei».
Ora, a parte la superficiale e boriosa, direi, riduzione a “reazionari” di filosofi cattolici del tempo, non si può nascondere che il Rossi coglie nel segno individuando quelle fonti e ascendenze del pensiero vichiano. C’è, pertanto, ritornando al tema del verum, un duplice significato di quel factum: primariamente, si può prendere nel senso di produzione reale della cosa nella sua verità cosiddetta ontologica, operazione esclusiva di Dio, per cui Lui solo può possederne perfetta scienza in tutto e per tutto; e secondariamente il prodursi nella mente dei concetti universali delle cose e dei giudizi su di esse grazie alla fondamentale adeguazione dell’intelletto e della cosa, per cui l’uomo ha sì vera scienza della cosa ma non perfetta e “attualmente onnicomprensiva” scienza di tutto ciò che in qualche modo ad essa inerisce. Ecco perché, anche a sommesso avviso di chi scrive, il filosofo napoletano senza rinnegare la nozione di verum ipsum factum, continua a definire tuttavia la verità mentis cum rerum ordine conformatio (De Antiquissima). Ed è a sua volta fondamentale in tal senso il valore aletico, veritativo, epistemico, che Vico stesso assegna al senso comune (attualmente al centro degli studi di numerosi pensatori tra i quali in Italia, Antonio Livi, Evandro Agazzi, Dario Sacchi e Michele Marsonet) ad esempio nella edizione del 1744 della Scienza nuova dove afferma:
«L’umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso comune degli uomini d’intorno alle umane necessità o utilità, che sono i due fonti del diritto natural delle genti. […] Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano».
E continuando nello stesso punto, ben vede Vico quel valore del senso comune che fornisce un criterio e di verità e di azione: «questa degnità» – precisa il filosofo – «con la seguente deffinizione ne darà una nuova arte critica». Se così non fosse, del resto, sarebbe auto-contraddittorio lo stesso concetto di boria: sarebbe borioso lo stesso definire l’altro e/o la sua teoria “boriosi”. La tematica della “boria” in Vico, pertanto, si può riconnettere, altresì, al tema della «sapientia superba» di agostiniana memoria (cfr Agostino d’Ippona, In Ioannis Evangelium tractatus, 2,4), e, come già detto, non coincide affatto con la negazione della metafisica come scienza dell’ente in quanto ente e dei principi e delle cause che gli competono in quanto tale, secondo la nota definizione aristotelica, la stessa “seconda navigazione” di platonica memoria, ma, anche in relazione alla filosofia soggettivistica e razionalistica, è una critica fortissima a chi mette la propria ragione – e la ragione umana in generale – come fondamento della verità ontologica delle cose, e anche a chi pretenda di compiere con le sole forze umane non, ripetiamolo, la seconda navigazione ma la “terza”, possiamo dire, secondo quanto si legge nello stesso Agostino (op. cit.) di quei filosofi che «inquisierunt Creatorem per creaturam, quia potest inveniri per creaturam, evidenter dicente Apostolo…Viderunt quo veniendum esset; sed ingrati ei qui illis praestitit quod viderunt, sibi voluerunt tribuere quod viderunt; et facti superbi amiserunt quod videbant, et conversi sunt inde ad idola et adorare creaturam et contemnere Creatorem», e continuando precisa: «et sorduit eis crux Christi. Mare transeundum est, et lignum contemnis? O sapientia superba!».
E come si può vedere, non sono affatto la scienza o il sapere in quanto tale e la tendenza di tutti gli uomini al sapere a essere qui accusati di “boriosità”, di superbia, di hybris.
Concludendo, possiamo altresì dire con Antonio Livi (Il senso comune tra razionalismo e scetticismo. Vico, Reid, Jacobi, Moore, Massimo) che davvero «come Pascal, anche G.B. Vico si studia di uscire dalla dialettica gnosi/scetticismo»; ed è lo stesso Vico a dire peraltro: «non è vero che noi conosciamo tutto, come vorrebbero i dogmatici, e nemmeno che non conosciamo alcunché, come dicono gli scettici» (De Antiquissima I,1). E affermare, come fa Vico, che non saremo mai capaci di capire in qual modo «l’infinito sia disceso in queste cose finite» mentre pur si compie una dimostrazione razionale di questo «discendimento» e cioè dell’esistenza di Dio trascendente (cfr. De Antiquissima IV,1) è come ripetere con Dante: «state contenti umane genti al quia».
Mario Padovano
Pingback: I più letti del 2022 | Briciole filosofiche