Il senso comune. Un breve excursus nella storia della filosofia dalla modernità ad oggi

Uno dei primi passi fatti nell’elaborazione di una filosofia del senso comune è stata la pubblicazione, nel 1990, del saggio di Antonio Livi, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede (Ares Edizioni), saggio recentemente rielaborato sotto forma di trattato dalla Casa Editrice Leonardo da Vinci (seconda edizione 2010, terza edizione 2018).

A questo primo e decisivo passo, sono seguiti altri importanti lavori, sia di carattere teoretico (vedi Agazzi 2004; Pelliccia 2008; Del Grosso 2010; Livi 2010 b; Livi 2011; Renzi 2012; Mesolella 2012) che di carattere storiografico (vedi Livi 1992;  Mesolella 2010, Covino 2012), tutti dedicati a chiarire ulteriormente questa nozione che, ancora oggi, non gode di particolare stima nel mondo accademico.

Le diverse accezioni della nozione di “senso comune”

L’impiego del termine “senso comune” «non ha dato luogo a una nozione che fosse univocamente accettata nel lessico filosofico occidentale, ragione per cui questo termine ha sempre presentato una imbarazzante equivocità» (Livi 2010a, p. 23; vedi anche Livi 1992). Il disagio dovuto al molteplice utilizzo di questo termine contribuisce, di certo, a mal recepire la proposta teoretica di quei filosofi che si rifanno espressamente al valore epistemico del “senso comune”, anzi bisogna osservare che spesso tale significato ha un rilievo davvero minimo. Questa manchevolezza è presente, per fare un esempio, nel Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano, dove, dopo aver mostrato l’accezione psicologica del termine (citando Aristotele, Avicenna e Tommaso d’Aquino), lo storico della filosofia parla del “senso comune” come consuetudine, modo di vivere o di parlare comune (citando Cicerone e Seneca); subito dopo sono segnalati sia la Scienza nuova di Vico che la scuola scozzese (Thomas Reid), ma , nonostante venga citato una figura di spessore, per la “filosofia del senso comune”, come il filosofo napoletano, è del tutto trascurato il valore epistemico del “senso comune”, e non considerati, in aggiunta, altri autori della modernità come Pascal, Buffier, Jacobi, e pensatori contemporanei come quelli della presente collettanea. La voce si conclude, poi, richiamando il pragmatismo di John Dewey e il “senso comune” inteso come principio del gusto nella dottrina kantiana (vedi Abbagnano 2001, pp. 984-985). Facendo riferimento a queste poche righe, si capisce perché l’ipotesi di una “filosofia del senso comune” venga guardata con sospetto, e quindi, per supplire a questa mancanza ed evidenziare l’importanza dell’accezione epistemica di “senso comune” (accezione a cui – ripeto ancora una volta –  ci si riferisce quando si usa l’espressione “filosofia del senso comune”), dobbiamo tenere presente – come testé dicevo – la molteplicità di significati che nel corso della storia sono stati utilizzati, facendo riferimento soprattutto al prezioso lavoro storiografico citato in apertura.

Del “senso comune” si possono avere una varietà di accezioni negative e positive.

Alla prima categoria appartengono:

  1. l’accezione sociologica del “senso comune” che si riferisce a quelle conoscenze popolari che le scoperte scientifiche contraddicono. In questa accezione troviamo una radicale contrapposizione «tra la “scienza” (espressione di audace ricerca della vera ragione dei fenomeni naturali) e il “senso comune” (espressione di pigrizia mentale e di chiusura negli schemi tradizionali)» (Livi 2010a, p. 29). Con questa accezione negativa assistiamo ad una vera e propria svalutazione del “senso comune”, relegato nel campo della doxa;
  2. l’accezione sociologica del termine utilizzato come strumento della dialettica. In questo senso la nozione di “senso comune” è «assimilato a quella di “ideologia” e di “pregiudizio corrente”» che non ha, per questo, nulla di stabile e che proprio in quanto ideologia e/o pregiudizio è imposto dall’esterno (Livi 2010a, pp. 31-32. Questo modo di intendere il “senso comune” è presente ne I Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, autore che viene ripetutamente citato dallo stesso Livi nelle pagine a cui abbiamo fatto riferimento). Si tratta in questo caso di categorie culturali che mutano con il mutare dei tempi, e, anche in questa circostanza, assistiamo ad uno svilimento della nozione di “senso comune”.

Alla seconda categoria (quella positiva), invece, appartengono:

  1. le posizione che identificano il “senso comune” con quelle pre-condizioni per i rapporti personali nella vita pratica, o anche come espressione della saggezza popolare. Anche in questo caso, però, ci troviamo dinanzi ad una posizione che non considera adeguatamente il valore aletico del “senso comune”, facendo prevalere il valore pragmatico: Livi parla di accezione positiva minimalistica. Questa posizione è quella «di alcuni studiosi di area fenomenologico-esistenziale, tra i quali va ricordato in modo particolare l’italiano Enrico Castelli Gattinara». Con Castelli ci troviamo dinanzi ad una nozione relegata nel campo pratico: infatti «di fronte ai problemi che la filosofia sociale si trova ad affrontare nelle attuali difficoltà dovuta all’incomunicabilità tra le ideologie dominanti, il senso comune [per Castelli] è la chiave di soluzione in quanto condizione espistemica trascendentale della comunicazione intersoggettiva» (Livi 2010a, p. 40 [corsivo nostro] vedi anche le pp. 41-47 dove vengono citati importanti autori, tra gli altri il logico e semiologo americano Charles Sanders Peirce, il filosofo tedesco Hans-George Gadamer, di cui a breve ci occuperemo, e l’epistemologo italiano Evandro Agazzi);
  2. la posizione che vede il “senso comune” come organo della percezione estetica. Tale accezione è presente, per esempio, nella terza Critica di Immanuel Kant (cfr. Kritik der Ursteilskraftt §40), dove il filosofo di Königsberg «fa ricorso al termine sensus communis (più frequentemente che al termine Gemeinsinn) per cercare una spiegazione della possibilità di una comunanza di pareri sui valori estetici; il senso comune sarebbe così una mera pre-condizione intersoggettiva della comunicabilità (Mitteilbarkeit) del giudizio estetico» (Livi 2010a, p. 48);
  3. infine la posizione che intende il “senso comune” come intuizione della realtà esistenziale e come fondazione della verità metafisica, morale e religiosa. Questa accezione si contrappone radicalmente alla nozione sociologica di “senso comune”: essa non è qualcosa di variabile, di mutevole, non è ideologia o pregiudizio, ma è il termine filosofico usato per riferirsi ad alcune ben precise evidenze originarie che costituiscono quel sapere di fondo che risulta incontrovertibile in quanto è di fatto il presupposto di ogni altro sapere epistemicamente valido. (vedi Livi 1992; Del Grosso 2010; Livi 2010a; Mesolella 2010)

L’accezione epistemica del “senso comune” dalla modernità ad oggi. Necessità di una formalizzazione

Quanto detto mostra che sono molti i filosofi che si rifanno espressamente alla nozione di “senso comune”, ma ciò che ancor più è rilevante, è che per molti di essi tale nozione «non è qualcosa di relativo e mutevole, è molto di più del quadro dei valori che caratterizza la cultura di un popolo in una determinata epoca, il “comune sentire” di una data comunità, o di una maggioranza di esso, in un dato contesto storico», per molti di essi il “senso comune” è un termine filosofico con un importante valore per il campo della filosofia della conosce, in quanto –  come ho già detto –si riferisce ad alcune ben precise evidenze originarie che va a costituire quel sapere immediato, necessariamente alla base di ogni altro sapere (vedi Livi 2010a, pp. 50-51).

Questa accezione epistemica di “senso comune” affiora, non a caso, a partire dalla modernità. Appare, infatti, nel momento in cui avanza nella storia del pensiero quella impostazione filosofica che mette radicalmente in dubbio la certezza delle prime verità. Filosofi come Pascal, Buffier, Vico, Reid, Jacobi, nomi che abbiamo già incontrato, hanno reagito a simile impostazione, rifiutando quel metodo che dal pensiero conduce all’essere (vedi Gilson 2008; 2012). Umberto Galeazzi per esempio, in un contributo su Vico ne I filosofi moderni del senso comune, scrive: vi è nel filosofo Napoletano «un netto rifiuto dell’idolatria del metodo, cioè del primato del metodo sulle realtà da conoscere che scaturisce dalla pretesa disponente del soggetto. Egli ritiene che si debba “usare l’ordine, ma qual sopportano le cose”» (Galeazzi, La filosofia del senso comune in Gianbattista Vico in Mesolella  2010, pp. 45-46). In Vico, come in altri autori, vi è la consapevolezza che l’impostazione razionalistica tende a piegare la realtà ai propri schemi, ad ingabbiarla in reticoli concettuali, alla ricerca di quel principio del filosofare scevro dall’ombra di qualsivoglia pregiudizio, un metodo che condusse Pascal ad opporre l’esprit de finesse ( a cui appartengono – come lo stesso filosofo dichiara – i principi che sono davanti agli occhi di tutti)  all’esprit de géométrie (che è l’intelletto raziocinante; vedi sul filosofo francese Veltri, L’autocritica della modernità: Pascal e la difesa del pluralismo gnoseologico in Mesolella 2010, pp. 15-33). Una decisa opposizione alla ricerca di un punto di partenza “puro”, che è la negazione della verità dell’esperienza (il sapere immediato), la si trova anche in Jacobi, il quale – come spiega Cornelio Fabro – vede «nella opportuna rettifica e elevazione del Belief di Hume il punto solido per la fondazione del giudizio di realtà: la fede (Glaube) non è soltanto un principio teologico, ma anzitutto costituisce il fondamento della nostra convinzione di realtà e più precisamente della certezza di tutto ciò che non è suscettibile di rigorosa dimostrazione» (Fabro 1969).  Il concetto di glaube jacobiano va radicalmente a contrapporsi ad una impostazione di stampo idealistico, non in termini di irrazionalismo, ma mostrando che il sapere riflesso (quello della scienza) presuppone un sapere immediato (l’esperienza) che è appunto ciò che il filosofo tedesco definisce fede, «certezza immediata della ragione naturale, senza implicazioni sentimentali o teologiche, cioè senza elementi irrazionali o soprarazionali» (Livi 1992, p. 100). L’importanza di questo sapere immediato è stata acutamente rilevata da Pier Paolo Ottonello anche nell’opera di Antonio Rosmini: «Il ruolo rilevante del senso comune – leggiamo in un importante saggio -, dispiegabile alla condizione imprescindibile del rigore e della coerenza nel linguaggio, spicca nella lunga lettera, d’una ventina di pagina, del 5 dicembre 1831, al suo amato antico maestro degli anni più giovanili, nel quale riepiloga l’intendimento principale del Nuovo Saggio; nel quale – vi scrive – “voleva io mostrare (…) la poca fede, che io poneva in una filosofia che fosse nuova ed invenzione di un individuo; e come io non riconosceva altra dottrina vera, autorevole, e salutare, se non quella, che ha le sue radici, cioè le sue prime verità, nel senso comune degli uomini, e nel deposito dell’ereditaria sapienza, di  cui l’umanità è e fu sempre in possesso”» (Ottonello, Il senso comune in Rosmini in Mesolella 2010, p. 88 [corsivo mio]).

Dopo questa breve digressione sulla modernità che, da un lato mostra tutta l’importanza della nozione di “senso comune” nella polemica contro il soggettivismo cartesiano e l’idealismo, dall’altro evidenzia un’incertezza soprattutto terminologica, arriviamo ai primi del Novecento e precisamente all’opera del tomista francese Réginald Garrigou-Lagrange  che rileva come i dati forniti dal “senso comune” possono sì essere interpretati, ma mai negati perché ciò significherebbe negare la ragione stessa: «L’objet propre du sens commun – dichiara il filosofo francese – c’est tout d’abord les notions premières et les principes premiers rattachés à l’être (prima intelligibilia), qui sont comme la structure de la raison. C’est en outre les grandes vérités qui se rattachent à ces notions premières par les principes premiers (existence de Dieu, de la liberté, de la spiritualité de l’âme, de l’immortalité; les premiers devoirs naturels qui se déduisent du premier principe de la morale appliqué à notre nature). C’est enfin certaines vérités qui s’obtiennent par une induction spontanée, comme celles d’ordre physique nécessaires à la vie animale et celles nécessaires à la vie en société» (Garrigou-Lagrange 1922, p. 131, [corsivo mio])

Con il dotto domenicano, di certo, si è fatto un decisivo passo avanti nella formulazione di una vera e propria “filosofia del senso comune”: difatti, egli, contrapponendosi all’irrazionalismo vitalistico, nella sua decisiva opera Le sens commun, la philophie de l’être et le formules dogmatiques  rileva in maniera più adeguata, anche se non ancora sufficientemente, il valore epistemico del “senso comune”; questo suo importante scritto, per meglio dire, è uno scritto di difesa e un attacco alla «notion utilitariste de la vérité». Infatti – scrive George Cottier nel suo contributo – : «chez Bergson et chez son disciple E. Le Roy, le sens commun est la première expression de “l’illusion naturelle de l’intelligence”. L’ouvrage du P. Garrigou-Lagrange peut donc être consideérée come une défense du sens commun et de sa portée de vérité».

L’accezione epistemica del termine sarà ripresa e sviluppata successivamente da altri due filosofi francesi d’ispirazione tomista, Jacques Maritain e Étienne Gilson i quali si opposero decisamente, non solo all’irrazionalismo, ma anche al razionalismo e all’idealismo: opere come Le Degrés du savoir (1932) o Le Réalisme méthodique (1935) sono esemplari in questa direzione, lavori che sarebbero del tutto inintelligibili senza il riferimento al “senso comune”.

Detto ciò è importante ora notare che tutti i filosofi citati  possono essere certamente inclusi nella categoria “filosofi del senso comune”, tutti si sono resi conto dell’importanza decisiva della nozione di “senso comune”, tuttavia bisogna pure rilevare che nessuno ha elaborato una riflessione sistematica su tale argomento. È senz’altro vero – come dicevo nelle prime pagine – che abbiamo assistito ad un progressivo approfondimento concettuale della nozione, ma non tutte le ombre su questa nozione sono state eliminate, tanto che uno dei filosofi che qui è stato preso in esame, Luigi Pareyson, affermava, in uno dei suoi scritti più significativi, che «il senso comune ha una realtà troppo ambigua e sfuggente, un ambito troppo impreciso e instabile, una definizione troppo labile e incerta, perché si possa mai pensare di farne un organo del pensiero filosofico» (Pareyson 1971, pp. 213-214).

Nonostante la presenza di incertezze terminologiche e di imprecisioni concettuali, il lavoro di tutti questi autori è stato ed è, senza alcun dubbio, una preziosa eredità su cui lavorare, approfondendo e chiarendo che

  1. il “senso comune” non è una facoltà dell’uomo, assimilabile alle categorie kantiane, ma è l’insieme delle certezze che ogni uomo in ogni tempo raggiunge, al di là se essa venga o meno formalizzata. La formalizzazione di simili certezze è la “filosofia del senso comune” che ha una decisiva importanza nel panorama filosofico contemporaneo proprio perché rileva la presenza di queste incontrovertibili certezze, materia della riflessione filosofica stessa, che nessuno può negare se non a parole (vedi Livi 1997);
  2. queste certezze non sono sul piano dei principi, ma sono dei giudizi di esistenza, ossia «la conoscenza primaria del concreto» da cui deriva, «in una unità noetica indissolubile, la conoscenza primaria dell’universale, ossia l’intuizione dei primi principi, sia quelli di natura metafisico-logica che quelli di natura metafisico-etica» (Livi 2010a, p. 67). Livi individua cinque giudizi: l’evidenza dell’esserci e del continuo divenire di tante “cose” (si veda su questo primo giudizio oltre a Livi 2010a, pp. 98-105, anche Del Grosso 2010, pp. 227-242; Padovano Primum cognitum e esse ut actus nel sistema di logica aletica di Antonio Livi in Mesolella 2012); l’evidenza dell’io come soggetto; l’evidenza dell’esistenza di enti analoghi all’io; evidenza dell’esistenza di leggi di tipo morale; evidenza dell’esistenza di un Fondamento trascendente (su quest’ultimo giudizio: Livi 2010a, pp.113-117; Del Grosso 2010, pp. 245-247).
  3.  l’insieme di queste certezze è ciò che rende possibile (dal punto di vista gnoseologico) anche l’atto di fede: in altri termini il “senso comune” è l’insieme di verità naturali che sono il necessario presupposto delle verità rivelate cioè i preambula fidei: tali verità non possono essere, infatti, esclusiva di pochi eletti (i filosofi), ma patrimonio di tutti anche in ragione dell’universalità del messaggio di salvezza (vedi Livi 2010a, pp. 162-190; Del Grosso 2010, pp. 248-291; Livi 2012).

Lasciando da parte una trattazione più sistematica, ho voluto, in questo articolo, porre l’accento su questi tre punti perché  sono, a mio avviso, necessari per comprendere la nozione di “senso comune” e l’importanza di quel processo di “affinamento concettuale” di cui inizialmente parlavo: sono necessari, da un lato per superare l’accusa di ingenuità che spesso è mossa a tale proposta teoretica (vedi Renzi 2012, pp. 7-13), dall’altro per combattere ogni forma di scetticismo e soprattutto di razionalismo.

Ci si affanna, infatti, troppo spesso nell’identificare il carattere “problematico” della filosofia, la sua legittima autonomia con il filosofare senza alcun presupposto: questa nobile attività dell’uomo ha un limite e questo limite è proprio il “senso comune”; è la consapevolezza che il pensiero non può creare il proprio oggetto, esso è “dato” e da questo “dato” essa non può non partire e costantemente ritornare.

Non si può comprendere la grandezza della ragione umana se non attraverso i suoi limiti, e, come ben si esprimeva Maritain in un testo decisivo, che segnò il distacco dal suo primo maestro Henri Bergson: «Fare tabula rasa delle certezze del senso comune ai fini di un perfetto rigore scientifico è come rinunciare a osservare un fenomeno fisico ad occhio nudo per il fatto che si possiede una lente di ingrandimento: è il delirio razionalistico, tipico degli scienziati infatuati del metodo della loro scienza.» (Maritain 1913, pp. 456-457)

Giovanni Covino


Riferimenti bibliografici minimi per un approccio alla filosofia del senso comune

Abbagnano (Nicola) 2001: Dizionario di filosofia, Terza edizione ampliata e riveduta da Giovanni Fornero, Utet, Torino.

Arzillo (Francesco) 2011: Il fondamento del giudizio. Una proposta teoretica a partire dalla filosofia del senso comune di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

Covino (Giovanni) [ed.] 2012: La nozione di senso comune nella filosofia del Novecento, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

-2016: Il senso morale. Avviamento allo studio dell’etica filosofica, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

-2019: Jacques Maritain nella tradizione del senso comune, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

Del Grosso (Massimiliano) 2010: Logica della Rivelazione. Analisi filosofica delle condizioni di possibilità della fede, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

Di Ceglie (Roberto) [ed.] 2004: Senso comune e verità. verso un fondamento comune alle diverse formulazioni della verità, EDIVI, Segni.

Fabro (Cornelio) 1969: Introduzione all’ateismo moderno, 2 voll., Studium, Roma.

Garrigou-Lagrange (Réginald) 1922: Le Sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques, Nouvelle Librairie Nationale, Paris.

Gilson (Étienne) 2008: Le Réalisme méthodique [1935]; trad. it.: Il realismo metodo della filosofia, ed. Antonio Livi, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma.

– 2012: Réalisme thomiste et critique de la connaissance [1939]; trad. it.: Realismo tomista e critica della conoscenza, ed. Massimo Borghesi, edizioni Studium, Roma.

Livi (Antonio) 1992: Il senso comune tra razionalismo e scetticismo. Vico, Reis, Jacobi, Moore, Editrice Massimo, Milano.

– 1997: Il principio di coerenza, Armando, Roma.

– 2008: Metafisica e senso comune. Sullo statuto epistemologico della filosofia prima, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

– 2010a: Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

– 2010b: La filosofia del senso comune al vaglio della critica, casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

– 2012: Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

Maritain (Jacques) 1913 : La philophie bergsonienne in Œuvreus complètes de Jacques et Raissa Maritain, Éditions Universitaires – Éditions Saint Paul, Fribourg – Paris 1990.

–  1974: Distinguer pour unir, ou les Degrés du savoir [1932]; trad. it.: Distinguere per unire o I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia.

Mesolella (Mario) [ed.] 2010: I filosofi moderni del senso comune. Pascal, Buffier, Reid, Vico, Balmes, Rosmini, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

– 2012: Realismo e fenomenologia, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

Pareyson (Luigi) 1976: Verità e interpretazione, Mursia, Milano.

Pelliccia (Valentina) [ed] 2008: Per una metafisica non razionalistica. Discussione su Senso comune e metafisica di A. Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.

Renzi (Fabrizio) 2012: La logica aletica e la sua funzione critica. Analisi della nuova proposta teoretica di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma.


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