Il filosofo John R. Searle, nato a Denver (Colorado) nel 1932, è noto soprattutto per i suoi studi sulla filosofia del linguaggio e sulla filosofia della mente. Al suo nome è associato anche l’esperimento mentale della “Stanza Cinese”, con cui ha cercato di dimostrare l’impossibilità di assimilare la mente ad un computer (nessun computer può “pensare” come pensano gli esseri umani). Tra le sue opere principali: Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Mente, cervello, intelligenza, La costruzione della realtà sociale, Il mistero della coscienza, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale, Libertà e neurobiologia. Riflessioni sul libero arbitrio, il linguaggio e il potere politico, Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana, Vedere le cose come sono. Una teoria della percezione.
Tra i suoi contributi, vorrei qui richiamare Mind, Language and Society, volume che nella traduzione italiana – come detto poc’anzi – reca il titolo Mente, linguaggio, società. La filosofia del mondo reale (Raffaello Cortina, Milano 2000). Nelle prime pagine, presentando il volume, il filosofo statunitense dice:
«Il presente libro non è né un’esposizione generale delle grandi questioni filosofiche né una storia della filosofia. Piuttosto, rappresenta un genere che è ormai passato di modo e che molti buoni filosofi riterrebbero impossibile. Si tratta di un libro di sintesi, nel senso che esso costituisce un tentativo di sintetizzare un certo numero di descrizioni di argomenti apparentemente scollegati tra loro o legati solo marginalmente. […] Vorrei enfatizzare le parole sintesi e sintetico, perché sono stato allevato da un “branco” di filosofi – cui solitamente si pensa che io stessa appartenga – che ritengono di fare quella che viene chiamata “filosofia analitica”» (p. 8).
Nel primo capitolo di quest’opera, intitolato “La metafisica di base: realtà e verità”, Searle parla di un concetto, a mio giudizio, molto importante e che si avvicina alla nozione epistemica di senso comune: il concetto di Sfondo. Nella trattazione di gran parte delle questioni filosofiche è presente – argomenta Searle – una posizione predefinita (default position):
«Le posizioni predefinite sono quelle che assumiamo in modo acritico, cioè in modo tale che qualsiasi allontanamento da esse richieda uno sforzo cosciente e un argomento convincente. Ecco le posizioni predefinite:
-C’è un mondo reale che esiste indipendentemente da noi, indipendentemente dalle nostre esperienze, dai nostri pensieri e dal nostro linguaggio.
-Noi abbiamo un accesso percettivo a questo mondo tramite i nostri sensi, specialmente il tatto e la vista.
-Le parole del nostro linguaggio, parole come coniglio o albero, hanno di solito dei significati ragionevolmente chiari. In virtù dei loro significati, le parole possono essere usate per riferirsi a e parlare di oggetti reali del mondo.
-I nostri enunciati sono normalmente veri o falsi a seconda che corrispondano o meno a come sono le cose, cioè ai fatti del mondo.
-La causazione è una relazione reale tra gli oggetti e gli eventi del mondo, una relazione per cui un fenomeno, la causa, ne causa un altro, l’effetto.
[…] Queste presupposizioni date per-scontate fanno parte di quello che io chiamo Sfondo del nostro pensiero e del nostro linguaggio. Ho scritto l’iniziale della parola maiuscola per rendere chiaro che lo sto usando come un termine tecnico» (10-11).
Perché Searle non usa la locuzione “senso comune”? Il filosofo statunitense ne esclude per la sua ambiguità: secondo Searle, il termine senso comune «non è una nozione molto chiara» e quindi preferisce parlare di Sfondo. Vediamo la distinzione che il filosofo propone:
«Quella di “senso comune” non è una nozione molto chiara, tuttavia, per come io la intendo, il senso comune è, in generale, una questione che riguarda credenze ampiamente sostenute e solitamente non messe in discussione. Sebbene non esista una netta linea divisoria, quelle che ho chiamato posizioni predefinite sono molto più fondamentali del senso comune. Suppongo, per esempio, che sia questione di senso comune il fatto che se vogliamo che gli altri siano educati nei nostri confronti, dobbiamo essere altrettanto educati nei loro. Questo tipo di senso comune non ha alcuna opinione riguardo a questioni metafisiche di base come l’esistenza del mondo esterno o la realtà della causazione. Il senso comune è, per la maggior parte, una questione di opinione comune. Lo Sfondo è ciò che precede tali opinioni» (p. 13).
La posizione di Searle mi sembra, dunque, possa essere così sintetizzata: il senso comune è l’insieme di opinioni che, il più delle volte, ha la sua radice nella società e/o cultura di appartenenza, e perciò manca dell’universalità e della necessità che, invece, ha lo Sfondo, come insieme di presupposizioni che, in quanto tali, precedono qualsiasi attività riflessa.
Detto ciò vediamo quali sono le posizioni definite. Tra queste, secondo Searle, quelle riguardanti la realtà e la verità sono le più importanti:
- esiste un mondo reale indipendente da noi. Posizione che Searle definisce “realismo esterno”;
- un enunciato è vero se le cose nel mondo sono come l’enunciato sostiene che siano: “teoria della verità come corrispondenza”.
Tale posizione conduce il filosofo, al termine del suo primo capitolo, dopo aver parlato delle sfide che la storia della filosofia ha lanciato al realismo (pp. 22-35), a parlare dell’inutilità (e dell’impossibilità teoretica) del procedimento giustificativo del realismo, e ciò a favore del senso comune come “presupposto epistemico”:
«Non credo abbia senso chiedere di fornire una giustificazione della concezione per cui c’è un modo in cui le cose sono nel mondo indipendentemente dalle nostre rappresentazioni, perché ogni tentativo di giustificazione presuppone proprio ciò che si tenta di giustificare. […] il realismo esterno non è una teoria. Non è un’opinione il fatto di assumere che vi sia un mondo là fuori. È piuttosto una struttura necessaria perché sia possibile avere delle opinioni e delle teorie riguardo a cose come i movimenti dei pianeti. […] Il realismo esterno non è una rivendicazione di esistenza di questo o di quell’oggetto, ma piuttosto una presupposizione del modo in cui noi comprendiamo tali rivendicazioni» (pp. 35-36).
Nella postfazione, Il realismo “ingenuo” di John R. Searle, Eddy Carli, parlando del procedimento utilizzato da Searle, mette ben in evidenza che la confutazione searliana è diretta a mostrare l’incoerenza materiale di alcune posizione anti-realistiche (quelle appunto che negano il carattere fondazionale dello senso comune, nell’accezione epistemica, chiamato dal filosofo americano “sfondo”), congiungendo poi idealmente (e ciò è di notevole interesse) questo procedimento con il metodo utilizzato da Platone e da Aristotele. Ecco quanto dice lo studioso:
«Searle procede con un attacco serrato alle posizioni anti-realistiche, mettendone in evidenza l’inconsistenza logica. Le sue argomentazioni sono tipiche di un filosofo analitico, che mira ad attaccare le premesse dell’argomento e a dimostrare l’inconsistenza o la falsità. Searle sembra anzi manifestare qui un’eredità ancor più lontana di quella della tradizione analitica: l’eredità della filosofia greca e del metodo dialettico-confutatorio di Platone e Aristotele, con la messa in discussione delle tesi dell’avversario e il confronto dialettico che porta alla dimostrazione della falsità delle premesse» (p. 174, [corsivo mio]).
Note critiche
Detto ciò, vorrei ora segnalare alcuni aspetti problematici del pensiero searliano. A mio avviso, essi sono due: il primo riguarda la sua posizione circa l’esistenza di Dio e il secondo riguarda la coscienza.
Circa la prima questione, nel volume citato, il filosofo presenta la sua posizione raccontando un episodio il cui protagonista è B. Russell. Questi alla domanda: «“Supponga che Lei si sia sbagliato riguardo Dio. Supponga che l’intera storia sia vera […]. Avendo negato l’esistenza di Dio per tutta la vita, che cosa direbbe a…Lui?” Russel rispose senza un attimo di esitazione: “Bene, andrei da Lui e gli direi: ‘non ci hai dato sufficienza evidenza!’”» (p. 41). Ebbene questa posizione mi sembra difficilmente conciliabile con la problematicità del reale, che il filosofo stesso riconosce: la realtà nella sua problematicità “suggerisce” la presenza di Dio, così come è “suggerito” dall’ordine mirabile della stessa realtà. Allo stesso modo mi sembra insufficiente la soluzione data da Searle alla questione della coscienza. A tal proposito riporto un passo di un articolo-recensione del prof. Michele Malatesta con cui concludo questo “ritratto”:
«Gli elogi sopra fatti al filosofo statunitense non mi vietano però dal rivolgergli una critica. Il filosofo non me ne avrà perché so che la verità gli sta a cuore quanto sta a cuore a me. Il Searle non si rende conto che la sua non è una terza posizione [una terza via tra dualismo e materialismo] ma rientra nella seconda trattandosi di un materialismo sia pure raffinatissimo. Infatti delle due l’una: o la coscienza si risolve nelle sole componenti biologiche senza residui, ma allora è privo di senso il discorso del filosofo sul gap tra le cause della decisione e la decisione reale, come quello sul gap tra la decisione e la realizzazione dell’azione; oppure, si asserisce che non esistono nel cervello divari corrispondenti ai sopraddetti gap, allora è giocoforza, a fil di logica, rigettare la riduzione della coscienza alla pura sfera biologica senza residui» (in «Metalogicon» (2003) XVI, 2 p. 131).
Giovanni Covino
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