Nel panorama filosofico contemporaneo, l’opera di Livi ha un posto di rilievo, sia per l’originalità della sua proposta (infatti come ho mostrato altrove, sebbene molti siano stati i filosofi che hanno fatto riferimento alla nozione di senso comune, nessuno si è mai proposto di elaborare una filosofia su tale nozione), sia per gli obiettivi che si propone di raggiungere (il superamento di ogni forma di scetticismo e di razionalismo).
Per ben comprendere la portata speculativa del suo progetto, bisogna tener presente – come ben rileva un acuto studioso – che «il senso comune di cui si occupa Antonio Livi non è naturalmente il buon senso, sia che questo venga inteso come immediatezza spontanea del sentire che in filosofia, dove nulla vi può essere di ovvio, non ha diritto di accesso, sia che venga inteso come saggezza pratica, la phronesis aristotelica» (Battista Mondin, in Doctor communis 44 (1991), pp. 190 ss.). Tale precisazione è di fondamentale importanza, in quanto spesso la prospettiva liviana viene messa da parte e tacciata di ingenuità, proprio perché non si è compreso cosa effettivamente sia il “senso comune” e cosa sia la “filosofia del senso comune”.
È altresì importante notare che con la sua proposta Livi riconduce ad una più alta sintesi la preziosa eredità di quei pensatori, sia moderni che contemporanei, compiendo un notevole passo avanti: egli, difatti, va a definire in maniera precisa la nozione di senso comune, superando in tal modo le incertezze sia concettuali sia terminologiche che ancora persistevano intorno a tale nozione. E difatti, nella sua opera più significativa, afferma che il senso comune è dal punto di vista formale un «sistema organico-genetico di giudizi spontanei e necessari dell’intelligenza umana» (A. Livi, Filosofia del senso comune, Roma 2010, p. 7), mentre dal punto di vista materiale si tratta di certezze relative all’esistenza del mondo, dell’io, della libertà e della responsabilità morale, del fondamento ultimo o Dio. Insomma quando Livi utilizza il termine moderno “senso comune” fa riferimento a determinate evidenze originarie che per ogni soggetto pensante costituiscono le verità prime che sono, appunto in quanto prime, il fondamento aletico di ogni altra riflessione: difatti, quando si riflette (“re-flectere”), e si cercano spiegazioni, si presuppone ciò che richiede di essere spiegato e che quindi genera la riflessione.
Livi lo mette in risalto quando – nel suo manuale di filosofia della conoscenza – sostiene che
«la posizione di una domanda […] è indice di qualche conoscenza già acquisita, sia pure problematica e provvisoria: l’esperienza del problema (desiderio di sapere, ricerca, domanda) fa capire (a noi stessi che riflettiamo) che il soggetto (cioè noi), proprio perché in possesso di alcuni elementi razionali (in possesso di qualcosa che è già conoscenza), in forza della razionalità già acquisita può e deve cercare maggior razionalità (spiegazioni, dimostrazioni, applicazioni), ossia una ulteriore e migliore conoscenza circa l’essenza di qualcosa o la verifica dell’esistenza di altre cose logicamente connesse».
A. Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Roma 2005, p. 144
Secondo quanto asserisce Livi, quindi, esistono alcune certezze che esprimono ciò che ogni soggetto pensante recepisce dall’esperienza immediata, ma senza alcuna riduzione empiristica. Infatti,
«fa parte dell’esperienza anche l’intuizione immediata delle dimensioni metafisiche degli enti percepiti con i sensi, quali soprattutto l’esistenza [il fatto di esserci], la sostanza [le cose concrete nella loro individualità], l’essenza [o natura delle cose], le relazioni di una cosa con le altre [singolarmente o nel loro insieme], e pertanto la nozione di causalità efficiente»(Ibidem).
Proprio perché tali certezze derivano dall’esperienza immediata, esse costituiscono la conoscenza della realtà concreta che si presenta dinanzi ad ogni soggetto pensante e da cui deriva anche la conoscenza dell’universale, vale a dire
«l’intuizione dei primi principi, sia quelli di natura metafisico-logica (che rendono essenzialmente intelligibile, anche se sempre problematico, il reale di cui si vive e in cui si vive) che quelli di natura metafisico-etica (che danno il senso e il significato della propria vita individuale e sociale, in prospettiva sia temporale che eterna)» (Filosofia del senso comune, cit., p. 67).
Essendo, poi, tali certezze connaturali all’intelligenza umana, esse sono «patrimonio di tutti, sono universali nel tempo e nello spazio, sono una costante in mezzo a tutte le variabili di cultura e di condizioni sociali»(Ibidem). Queste certezze sono, inoltre, la base su cui è possibile la comunicazione, al di là di ogni differenza culturale, etnica, politica, religiosa ecc.: il senso comune si presenta come quel terreno su cui è possibile, nonostante tutte le differenze, poter comprendere l’altro. È, in altri termini, il referente comune proprio in virtù della certezza assoluta che contraddistingue quei giudizi che vanno a costituire il senso comune. In questo senso «la loro non-verità è assolutamente impensabile: nessuno può mai metterle realmente in dubbio» (Ivi, p. 71), se non verbalmente, come già Aristotele faceva notare con i negatori del principio di non-contraddizione.
Si può allora dire, per concludere questa prima parte con una precisa definizione, che da un punto di vista formale per senso comune si deve intendere
«l’insieme (sistematico e organico) di quelle certezze primarie, fondate sull’esperienza originaria di tutti, che sono alla base di ogni altra possibile conoscenza di tipo settoriale e inferenziale, tanto da essere sempre e in ogni caso il criterio di base della verità di ogni giudizio; infatti, tutti i giudizi presuppongono – attraverso una catena di presupposizioni logiche – queste prime certezze empiriche, che risultano presenti nella coscienza di tutti, e presenti come assolutamente indubitabili» (Ivi, p. 91).
Giovanni Covino
Segue parte seconda
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