I cinque giudizi esaminati sono, quindi, correlati l’uno all’altro: la nozione di senso comune si contraddistingue proprio per questa reciproca implicazione e nella loro omogeneità (cfr. Filosofia del senso comune, cit., p. 120) e costituiscono il necessario presupposto gnoseologico su cui poter edificare la scienza.
Questo vuol dire che il soggetto conoscente non può non partire dalla realtà, significa, in altri termini, che il punto di partenza del sapere è il “mondo delle cose”, ed infatti come ha avuto modo di rilevare Roberto Di Ceglie:
«un elemento costitutivo della validità dei giudizi esistenziali di senso comune è certo quello dell’intenzionalità che lega il pensiero alle cose, per cui il dubbio a priori (metodico) in proposito risulta inaccettabile, in qualsiasi forma esso venga espresso. La salvaguardia della suddetta intenzionalità consente di evitare gli opposti estremismi dello scetticismo e del razionalismo».
La filosofia del senso comune in Italia: obiezioni e risposte, Leonardo da Vinci, Roma 2005, p. 140.
Questo punto è da tener ben presente per comprendere il valore e l’efficacia della teoria del senso comune di Livi che, in scia a quanto già detto da Gilson, sostiene che nella storia del pensiero occidentale «operano due diverse opzioni intellettuali: da una parte, l’opzione del realismo metafisico (che parte da Giambattista Vico e giunge fino a Henri Bergson, passando da Antonio Rosmini e John Henry Newman), dall’altra quella dell’immanentismo (che ha inizio con il razionalismo cartesiano e si conclude con l’idealismo di Georg F. W. Hegel e di Giovanni Gentile)».
Quest’ultimo «(tanto nella versione iniziale, che era stata quella razionalistica, quanto nella versione finale, che fu quella idealistica) è il pensiero della rivoluzione, della rottura con la tradizione, dell’abolizione di ogni fondamento oggettivo per l’etica, della pretesa di dare origine a una nuova umanità e a un nuovo mondo, come opera delle mani dell’uomo». Se ne conclude che «ogni aspetto teoretico e pratico dell’immanentismo – la secolarizzazione, l’ateismo, il relativismo o il formalismo morale, il nichilismo, la deriva totalitaria – ha la sua giustificazione ultima nell’opzione gnoseologica; per contro, ogni critica di quelle forme di immanentismo che prima citavo non può avere successo se non giunge a criticare il nucleo gnoseologico dell’opzione» (A. Livi, «Étienne Gilson: una vera filosofia per l’intelligenza della fede», in Roberto di Ceglie (a cura di), Verità della Rivelazione. I filosofi moderni della “Fides et ratio”, Ares, Milano 2003, pp. 125-152, qui p. 129).
La teoria del senso comune, mostrando la contraddizione in cui cadono i sistemi delle posizioni immanentiste, giungendo quindi al cuore del loro impianto gnoseologico, mette in risalto, allo stesso tempo, che non vi è una vera e propria opzione tra realismo e idealismo: l’opzione idealistica è la scelta (si noti il carattere volontaristico) di partire, in filosofia, dal pensiero, ma è una scelta che non ha alcun ragione epistemica, si presenta come una «tentazione della ragione» (A. Llano, Filosofia della conoscenza, Le Monnier, Firenze 1987, p. 95) il nostro intelletto è, infatti, naturalmente aperto alla realtà, conoscere è conoscere qualcosa ed è proprio per questo che Di Ceglie, nella precedente citazione, definisce inaccettabile una posizione che adotta il “dubbio metodico universale” come fa Descartes.
La prospettiva realistica esaltata dalla teoria del senso comune è caratterizzata dalla chiusura ad ogni forma di ideologia e dal costituirsi come una “tesi forte” che combatte l’odierna “debolezza” del pensiero che è infine un’altra forma di scetticismo.
Giovanni Covino
Segue parte quarta
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