È possibile cogliere l’importanza della teoria del senso comune di Livi anche in un altro ambito della conoscenza, quello per mezzo della testimonianza. La filosofia del senso comune mostra come quei giudizi esistenziali siano alla base anche dell’atto di fede, la condizione di possibilità dello stesso.
Non a caso nell’enciclica Fides et ratio Giovanni Paolo II ha conferito notevole rilievo a quella che ha chiamato “filosofia implicita” ed è stato proprio Livi, in diverse pubblicazioni, ad analizzare l’enciclica da questo punto di vista, ma in modo particolare in questo testo. In tale “filosofia implicita”, ha scritto papa Wojtyla, «è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell’umanità», sostanziato di conoscenze «in forma generica e non riflessa», che «proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche» (§ 4).
Nel commentare – in sede di presentazione – l’enciclica l’allora cardinal Ratzinger precisò che «la dottrina cristiana esige l’affermazione di una recta ratio (ragione filosofica retta), che pur non identificandosi con nessun movimento filosofico particolare, esprime il nucleo essenziale e i capisaldi irrinunciabili della verità razionale dell’essere, del conoscere, dell’agire morale dell’uomo, che precedono, per così dire, la pluralità delle diverse filosofie e culture, e costituiscono il criterio di giudizio sui diversi enunciati dei sistemi filosofici».
Il riferimento al senso comune (filosofia implicita), in un documento magisteriale, è di notevole interesse e mostra quanto tale teoria sia importante nella questione della fede. Questa è una delle problematiche più ardue che la filosofia della conoscenza si trova ad affrontare, anzi bisogna dire che, fatta eccezione di pochi studiosi, tale tematica è esclusa da questo ambito della filosofia. Ciò accade soprattutto perché la fede è considerata alla stregua di un sentimento che dovrebbe guidare (come?) l’uomo ad orientare la propria vita. In realtà dice Livi «si dà il fenomeno della fede allorché la testimonianza altrui porta un soggetto alla certezza di sapere qualcosa circa un oggetto che gli è inevidente»(Antonio Livi, La ricerca della verità, cit., p. 261. Cfr. anche Antonio Livi, Filosofia del senso comune, cit., pp. 163-167; Massimiliano Del Grosso, Logica della Rivelazione. Analisi filosofica delle condizioni di possibilità della fede, Leonardo da Vinci, Roma 2010, pp. 248-291).
Il ricorso alla testimonianza dell’altro è essenziale per l’uomo: ogni soggetto umano ha infatti dei limiti che non può trascendere e perciò deve ricorrere ad altri per sapere (senza vedere) ciò che altri hanno visto (conoscenza diretta). Ciò avviene, per esempio, con testimonianze circa eventi del passato (la fede storica), oppure circa le intenzioni o altri aspetti dell’interiorità altrui (la fede nella confidenza o confessione di un altro), ma l’evento cristiano ha introdotto una differenza fondamentale tra la fede umana e la fede divina. Siamo, in questo caso, in un altro ordine, quello che riguarda la testimonianza circa la Trascendenza stessa, cioè la natura intima di Dio e i suoi disegni di salvezza nei riguardi degli uomini. Si tratta di misteri che possono essere svelati solo da Dio, perché solo Lui ne è direttamente a conoscenza (in questo caso Rivelatore e testimone coincidono). Quindi se la conoscenza indiretta è necessariamente legata al dubbio e al rischio per ciò che concerne la testimonianza di un uomo (perché fallibile), nella fede cattolica, «se ne è più certi della propria esistenza», in quanto è «la Prima Verità che ha parlato», donandoci così una «partecipazione a quella conoscenza infinitamente luminosa che l’Abisso divino ha di se stesso. Essa [la fede] ci dice le profondità di Dio» (Jacques Maritain, La fede e le sue vie, in Jean Guitton – Jacques Maritain, La fede. Dono e mistero, Massimo, Milano 1998, p. 41).Ma su che base io posso affermare che colui che ha testimoniato più di duemila anni fa sia realmente la Prima Verità, il Verbo incarnato? Ciò può essere conosciuto tramite alcuni segni che egli ha fatto, non segni qualsiasi ma segni che rimandano necessariamente a Dio. Tali segni sono garanzia della sua testimonianza.
Su questo punto Del Grosso ha scritto pagine di notevole spessore su questo argomento. Proprio sulla logica della testimonianza scrive:
«a) la rivelazione deve essere comunicata tramite testimoni; b) che una rivelazione per essere infallibile deve essere comunicata da un testimone infallibile; c) che sia evidente come nessun uomo sia per sua natura infallibile; d) che l’unico essere infallibile è Dio. È ora più chiara la questione: ogni atto di fede umana è sempre scommessa, in quanto non è evidente che il testimone umano sia infallibile, ma se la testimonianza è resa da Dio stesso, essa costituisce vera evidenza, anche se ciò che è testimoniato non possa essere in alcuna maniera provato».
Massimiliano Del grosso, Logica della Rivelazione, cit., p. 85.
Circa tale logica, si legga anche questo denso passo di Tommaso d’Aquino:
«Prestando fede a queste verità, che la ragione umana non è in grado di controllare, non si commette una leggerezza, come se si prestasse fede a sofisticate fantasie. Poiché la stessa sapienza divina, che tutto conosce in modo completo, si degnò di rivelare i suoi segreti agli uomini; mostrando il suo intervento e la verità del suo insegnamento e della sua ispirazione con argomenti adatti: confermando cioè cose che sorpassano la conoscenza naturale con opere visibili superiori alle capacità di tutta la natura. Vale a dire con la guarigione prodigiosa di malattie, con la risurrezione dei morti, con le mutazioni miracolose dei corpi celesti, così da riempire col dono dello Spirito Santo uomini ignoranti e semplici, facendo loro conseguire all’istante somma sapienza ed eloquenza. In considerazione di ciò, per l’efficacia delle prove suddette e non già per violenza di armi, né per attrattiva di piaceri e, cosa mirabilissima, in mezzo alla tirannia dei persecutori, una turba innumerevole non solo di persone semplici, ma anche di uomini sapientissimi, abbracciò la fede cristiana; nella quale vengono predicate cose che trascendono qualsiasi intelletto umano, mentre insegna a tener a freno i piaceri della carne, e a disprezzare tutte le cose del mondo. Ora, l’adesione degli animi dei mortali a queste cose è insieme il più grande dei miracoli, ed esige l’intervento manifesto dell’ispirazione divina, per disprezzare le cose visibili nel solo desiderio di quelle invisibili. E questo non avvenne improvvisamente o per caso, ma per disposizione divina, come è evidente dalla predizione fattane in precedenza dagli oracoli di molti profeti, i cui libri sono stati conservati religiosamente fino a noi, come testimonianza della nostra fede.
Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei, I, 6
Questa mirabile conversione del mondo alla fede cristiana è segno certissimo degli antichi miracoli, così da non essere necessaria la loro ripetizione, apparendo così evidenti nei loro effetti. Sarebbe infatti il più strepitoso dei miracoli, se il mondo fosse stato indotto a credere cose tanto ardue, a compiere azioni tanto difficili e sperare cose tanto alte da uomini semplici e poveri, senza prodigi mirabili».
Ora proprio il riferimento ai segni ci conduce nel cuore del problema in quanto va a combattere quell’atteggiamento di disprezzo nei confronti della conoscenza per via di testimonianza: tale atteggiamento dipende «dal fatto che la riflessione di logica epistemica trascura abitualmente di rilevare la componente critica dell’atto di fede, ossia il vaglio al quale necessariamente ogni soggetto pensante – se intende davvero acquisire una conoscenza “garantita” – sottopone il testimone allo scopo di accertarne personalmente la credibilità» (Antonio Livi, Filosofia del senso comune, cit., p. 176).
La certezza di una simile forma di conoscenza è fondata sulla consapevolezza «che la razionalità dell’atto di fede nella rivelazione divina implica la funzione critica della ragione umana, ossia il vaglio razionale della credibilità dell’enunciato (la sua non-contraddittorietà, alla luce delle leggi metafisiche e logiche), e prima ancora il vaglio razionale della credibilità del teste» (Antonio Livi, Razionalità della fede nella Rivelazione, Leonardo da Vinci, Roma 2005, p. 105).
Si tratta di un uso dell’intelligenza necessario per fondare adeguatamente, in questo caso, una certezza che è di tipo morale, una certezza che – spiega Livi ne Il senso comune tra razionalismo e scetticismo, Massimo, Milano 1990, pp. 177-178 – non è certo meno razionale delle certezze di tipo metafisico, logico e matematico. Chi svaluta questo tipo di certezze dovrebbe poi negare valore scientifico ai risultati delle ricerche storiche, o alla scienza psicologica dove il paziente fornisce dati della propria interiorità che lo psicologo non vede. Occorre dunque superare «il pregiudizio razionalistico per cui sarebbe pregiudizio qualunque affidamento all’autorità dottrinale altrui, in qualunque contesto storico e in qualunque circostanza della vita personale» (Antonio Livi, Filosofia del senso comune, cit., p. 172). Detto ciò è importante ora esaminare le pagini più importanti dell’opera di Livi che vanno ad evidenziare il ruolo epistemico del senso comune in rapporto all’atto di fede nella Rivelazione. Si tratta – come già rilevato altrove – di mostrare come i giudizi del senso corrispondono alla dottrina dei preambula fidei di Tommaso d’Aquino; ma leggiamo quanto afferma Livi:
«La natura razionale dell’uomo esige che un soggetto chiamato alla fede, prima di accettare un enunciato come verità rivelata da Dio, verifichi nella sua mente la possibilità che quella dottrina sia veramente “parola di Dio”. Si tratta del primo passo verso la formulazione finale di quel “giudizio di credibilità” della Rivelazione che, in termini rigorosamente logici, si può formulare così: il giudizio con il quale un soggetto pensante, nel momento in cui viene interpellato dalla dottrina della fede, valuta quella dottrina – che fino a quel momento è ancora una mera ipotesi – come qualcosa di effettivamente possibile, cioè di pensabile, di non-assurdo. Proprio in relazione a ciò che Tommaso propone la sua dottrina dei preamula fidei, sostenendo che l’accertamento della credibilità del messaggio cristiano è reso possibile dal fatto che ogni soggetto umano è in possesso di alcune verità “naturali” che costituiscono, dal punto di vista logico, le condiciones sine quibus non dell’assenso della mente alle verità “soprannaturali”».
A. Livi, Filosofia del senso comune, cit., pp. 187-188
Queste condizioni necessarie sono per Tommaso dal punto di vista antropologico-morale, la coscienza di essere liberi e responsabili, e quindi anche la coscienza della condizione di precarietà, la consapevolezza di essere in peccato e quindi bisognosi di salvezza; dal punto di vista metafisico, la certezza dell’esistenza di Dio. Come si può facilmente notare quindi i presupposti di cui parla Tommaso corrispondo rispettivamente al secondo e terzo giudizio del senso comune, e al quinto giudizio di questa teoria. Vi è quindi uno stretto rapporto tra le prime verità che appartengono all’ordine naturale (il senso comune, il pre-filosofico o per usare l’espressione di Giovanni Paolo II la filosofia implicita) e le verità soprannaturali rivelate da Gesù Cristo, Verbo incarnato, verità custodite fedelmente dalla Chiesa nel corso dei secoli. Quando ho esposto il contenuto del senso comune, ho anche notato la difficoltà di molti ad accettare il quinto giudizio, quello relativo all’esistenza di Dio. In realtà questa certezza, proprio perché necessaria per accogliere la Rivelazione (solo se Dio esiste può rivelare e incarnarsi), deve necessariamente essere patrimonio di tutti gli uomini e non prerogativa di pochi eletti.
Giovanni Covino
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