
Il racconto che segue ha come protagonista il filosofo Baruch Spinoza e, fatta eccezione per i riferimenti presenti nella nota preliminare (per leggere clicca qui) e le citazioni, che saranno riportate al termine del racconto stesso, tutto quello che andrete a leggere è il frutto della fantasia dell’Autore.
Se non ha letto il primo capitolo:
II.
Amsterdam, 9 settembre 1660
«E così, in base a quanto detto in precedenza, possiamo concludere che ogni felicità o infelicità risiede unicamente nella qualità dell’oggetto a cui l’amore ci unisce».
Spinoza concluse la sua lezione, mentre i due discepoli, con le sopracciglia aggrottate, riflettevano su quanto era stato appena detto dal proprio maestro.
«Ci sono domande?» – chiese Spinoza, notando lo sguardo perplesso dei discenti.
«Sì, maestro…» – disse uno dei due.
«Dimmi pure».
«In che modo possiamo capire che l’oggetto sia degno del nostro amore?».
«Non è una domanda semplice questa che poni, ma è molto opportuna. Difatti è proprio questa comprensione la chiave di tutto e, quindi, della nostra stessa felicità. Se l’oggetto, infatti, non fosse adeguato alla nostra nobile natura, finiremmo di certo in un pozzo di infelicità, legati a qualcosa che invece di migliorarci ci renderebbe peggiori. Per questo bisogna filosofare: per capire ciò che veramente è buono».
«Ma prima di arrivare a questo non dobbiamo, maestro, capire la natura del bene?».
«Proprio così, caro amico. Ma questo lo affronteremo la prossima volta: avete abbastanza su cui riflettere. Potete andare».
«Grazie, maestro».
Spinoza congedò i suoi discepoli e si diresse verso la scrivania, dove aveva qualche libro e il necessario per i suoi appunti e le sue ricerche. Si sedette e iniziò a riflettere sul problema metafisico che era emerso poco prima al termine della lezione.
Mentre era nel mezzo della sua riflessione, sentì bussare alla porta per ben tre volte, con una certa forza e in un modo tale da mostrare, già con quel semplice gesto, una terribile ansia.
«Baruch, sono io, sono Franciscus».
Era il suo vecchio maestro. «Strano» – pensò Spinoza che si alzò e si diresse verso la porta con la fronte ancora aggrottata.
«Ciao, Franciscus. Cosa è successo?».
«Mia figlia».
«Clara-Maria? Cos’è successo?» – disse Spinoza con una leggera preoccupazione.
«Niente di particolare, ma da diversi giorni si comporta in modo strano: è triste ed evita di rispondere alle mie domande. La vedo sempre pensierosa, preoccupato».
«Franciscus, tua figlia è grande ormai ed è una donna di grande intelligenza e sensibilità».
«Certo, ma ieri e oggi l’ho seguita…».
«Franciscus – disse Spinoza con tono deluso – sai che non è una cosa degna del padre e dell’uomo che sei».
«Baruch, devi comprendere la mia preoccupazione. Conosco Clara. C’è qualcosa che non va…».
Spinoza, con pazienza e garbo, invitò Franciscus ad entrare per sedersi e parlare con tranquillità.
«Dimmi pure».
«…dicevo: ho seguito Clara e ho visto che si è incontrata con due persone…».
«Li conoscevi?».
«No, mai visti. Un uomo e una donna. Sono stati lì a parlare con Clara per molto tempo e sembravano tutti molto preoccupati».
«Poi cosa è successo?».
«Niente. Dopo Clara è tornata a casa, ma il suo viso era una maschera di cera: sembrava che avesse visto un fantasma».
Spinoza, pensieroso, si appoggiò allo schienale della sedia, mentre guardava Franciscus che, a sua volta, aveva gli occhi puntati a terra con un’espressione che Baruch non aveva mai visto: si trattava di un misto di preoccupazione e panico che dai suoi occhi si versava su chi lo guardava. Baruch comprese che non era un’esagerazione di un padre, ma sincera preoccupazione. Perciò si alzò e, poggiando la mano sulla sua spalla, cercò di consolarlo.
«Non preoccuparti, Franciscus, parlerò io con Clara. Cercheremo di scoprire qualcosa in più» [continua].
Giovanni Covino



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