Nell’articolo precedente ci siamo soffermati sulle prime sventure di Giobbe. Il Nostro viene messo alla prova anzitutto con la perdita dei beni materiali, poi con la morte dei figli. Nonostante lo sconforto e l’immensa tristezza provati, Giobbe non abbandona la sua strada, ma accetta la volontà divina sapendo che nulla accade che non sia permesso dal Signore.
Il giusto, anche se provato dal dolore e dalla sofferenza, continua a dimorare nel bene, evitando di cadere nella disperazione che, quando penetra nel cuore dell’uomo, distrugge ogni possibilità di autenticità: la disperazione è, infatti, una “malattia” che attanaglia il cuore della persona gettandolo nel vortice di un’esistenza priva di senso.

Il filosofo danese Søren Kierkegaard ne parla come di una «contraddizione penosa»: la disperazione è la malattia presente nell’io «di morire eternamente, di morire eppure di non morire, morire la morte» (Antologia, a cura di C. Fabro, La Scuola, Brescia 1978, pp. 172-173).
La persona esce, per così dire, dalla sua propria dimora per rinnegare se stesso e, in questo modo, cadere nella contraddizione e ammalarsi di questa “malattia mortale”, una malattia che porta l’io a desiderare di morire senza poter morire: «non poter distruggere se stesso, non poter sbarazzarsi di se stesso, non poter annientarsi. Questa è la formula della potenziazione della disperazione, il salire della febbre della malattia dell’io» (Ivi, p. 173).
Giobbe, invece, nel suo “esser fermo”, con la sua perseveranza non si allontana da se stesso e dal proprio bene, e lo fa non allontanandosi da Dio, riconosciuto come Bene assoluto. In questo – commenta Tommaso – si riconoscono i segni della nobiltà d’animo del Nostro: Giobbe è, infatti, in grado di vivere una vita autentica perché capace di riconoscere l’ordine del bene o, per usare l’espressione di Agostino, l’«ordo amoris».
Scrive l’Aquinate: «Triplice è il bene dell’uomo, quello cioè dell’anima, del corpo e delle cose esteriori: tra loro esiste un determinato ordine in forza del quale il corpo è per l’anima, e i beni esteriori per il corpo e per l’anima. Ora, come segue un disegno perverso chi ordina i beni dell’anima alla prosperità delle cose terrene, così è anche perversa l’intenzione di chi ordina i beni spirituali ai beni del corpo» (Expositio super Job, cit., pp. 49-50). Giobbe, invece, «eccelleva nelle azioni virtuose» proprio perché lontano dal disordine appena descritto.
Giovanni Covino
Pingback: La ricerca della nostra nobile radice | Briciole filosofiche
L’ha ripubblicato su Briciole filosofiche.
"Mi piace""Mi piace"