The imitation game. Alan Turing e le “macchine pensanti”

In un articolo apparso sulla rivista Mind nel 1950, Computing Machinery and Intelligence, Alan Turing (1912-1954) afferma:

«Credo che alla fine del secolo l’uso delle parole e l’opinione delle persone di cultura saranno cambiati a tal punto che si potrà parlare di macchine pensanti senza aspettarsi di essere contraddetti».

Turing è considerato una delle menti più brillanti del XX secolo e padre della scienza informatica e iniziatore di quella che, a partire dagli anni ’50, sarà chiamata “intelligenza artificiale”. La sua vita è stata di recente narrata anche in un film intitolato The imitation game, adattamento cinematografico della biografia del 1983 Alan Turing: The Enigma.

Prima della pubblicazione dell’articolo citato in apertura, nel 1936 Turing pubblica un saggio, On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidunsproblem, in cui analizza il comportamento umano del contare e la possibilità di stabilire una relazione tra questa azione e una “macchina”. Questa relazione viene effettivamente stabilita con l’ideazione di una macchina che, seguendo delle istruzioni, è in grado di simulare l’atto del calcolare: attraverso una scomposizione del processo di calcolo, la “macchina di Turing” simula ciò che fa un calcolatore umano. Quanto detto potrebbe essere applicato non solo all’atto del calcolare, ma ad altri aspetti dell’intelligenza umana a patto però che si consideri l’intelligenza in termini di capacità e di funzione come fa appunto Turing. Nell’articolo del 1950 Computing Machinery and Intelligence, il logico e matematico inglese fa proprio questo partendo dalla domanda “Le macchine possono pensare?”. Per rispondere, Turing immagina un dialogo tra un giudice (X) e due interlocutori, una donna e un uomo (Y e Z). X è separato da Y e Z e deve scoprire, attraverso una serie di domande, chi è l’uomo e chi è la donna, le cui risposte sono dattiloscritte. Il test prosegue con la sostituzione di Y con una macchina. Se le risposte di X sono simili alle precedenti – quando erano presenti i due uomini – allora la macchina stessa dovrebbe essere considerata “intelligente” perché X non si è accorto della sostituzione.

Come dicevo poc’anzi, questo test ha come presupposto un ben preciso concetto di intelligenza. Per Turing, l’intelligenza è una semplice “funzione”, funzione che si traduce nella manipolazione di simboli e, proprio perché tale, può essere svolta anche da un sistema artificiale. La domanda allora è: può l’intelligenza essere ridotta a questo “gioco dell’imitazione”?

La risposta a questa domanda non può che essere negativa: l’intelligenza, infatti, non può essere ridotta al semplice calcolo e alla manipolazione di simboli perché c’è un quid che rende impossibile questa riduzione. Seguendo su questo punto quanto dice il filosofo statunitense J. Searle con il famoso argomento della “stanza cinese” (vedi articolo Searle e l’intelligenza artificiale), l’attività umana presenta una “dimensione” che la pone in uno stadio qualitativamente superiore: l’uomo comprende, ha consapevolezza di quello che fa.

Potrà la macchina giungere a questa consapevolezza?

A mio giudizio il gap è incolmabile perché siamo – e su questo mi discosto anche dal “cripto-materialismo” di Searle (vedi qui) – sul piano dell’immaterialità, come già annotava Platone nel Fedone (97 C – 101 D: vedi articolo insufficienza della dottrina di Anassagora e seconda navigazione).

Giovanni Covino


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