Tornare all’essere! Riattualizzare il realismo metafisico per superare la decostruzione del pensiero postmoderno (pt. 2)

Propongo ai lettori di Briciole filosofiche la seconda parte (per la prima parte clicca qui) di una ricca e puntuale recensione che Matteo Andolfo ha fatto ai primi numeri della rivista τί έστι. Come detto in altri luoghi questo progetto nasce per affrontare temi che spaziano dalla metafisica all’etica, dalla gnoseologia alla psicologia, dall’epistemologica all’estetica, fino ad arrivare alle nuove frontiere della ricerca come la bioetica, il biodiritto o l’intelligenza artificiale. Lo sforzo degli autori di questa rivista sarà quello di recuperare – al netto di ogni antipatia ideologica verso il fenomeno religioso, in qualsiasi modo lo si voglia considerare – la forza e l’efficacia scientifica del pensiero speculativo di tipo metafisico. Si tratta dunque di compiere una battaglia culturale a difesa dei diritti della metafisica e perciò della filosofia in quanto tale, in un momento storico che, per certi aspetti, è decadente, antiumano, dominato dall’illogico, non sincero [Giovanni Covino].


Nei due numeri il realismo metafisico viene “scandagliato” sia sul piano storico-filosofico sia su quello teoretico.

Nella sezione “Storia della filosofia” del secondo numero, Fabrizio Cambi tratta dell’esistenza e della natura della provvidenza divina, nonché del modo in cui si attua per mezzo delle cause seconde, specialmente gli esseri umani, dotati di ragione. «Il fatto che sia il mondo greco che quello romano abbiano abbondantemente affrontato il tema della provvidenza divina, ci mostra come un tale argomento non sia appannaggio della ricerca teologica ma sia primariamente di competenza filosofica o, per meglio dire, di teologia filosofica» (p. 34).

Dopo aver mostrato che la provvidenza divina in quanto ordinamento delle cose verso il loro fine è connessa alla creazione, con cui Dio vuole comunicare alla creatura quel bene che è l’essere, ed essendo Dio il sommo bene, non solo ciò da cui tutto proviene, ma anche ciò verso cui tutto tende, approfondisce il concetto di “ordine” gerarchico delle creature, dovuto alla differenza ontologica che le costituisce in specie, cosicché gli animali sono più perfetti del mondo inanimato e l’uomo è più perfetto degli animali. Questo ordo rerum indica che le cose, tra loro differenti, hanno in sé stesse fini diversi, onde appare che il mondo materiale è ordinato all’uomo e questi a Dio, il quale con uno stesso atto produce le cose nell’essere, le conserva e le conduce al proprio fine anzitutto per mezzo di quelle potenze e operazioni che sono loro conferite, rendendo le creature capaci di essere realmente cause seconde nel governo dell’universo.

La prospettiva teoretica è predominante nella sezione “Studi e notazioni”, che riprende temi “classici” in chiave moderna. Nei due numeri viene pubblicato in due parti un contributo di Mario Padovano, che s’interroga sul valore delle prove dell’esistenza di Dio connesso alla questione del rapporto tra fede e ragione. «È l’esistenza di Dio una verità accessibile alla ragione naturale o è in senso stretto un articolo di fede? Se è una verità di ordine naturale è essa una affermazione per se nota o per aliud nota? È l’esistenza e la nozione di Dio una prima evidenza oppure no? È non-immediatamente nota solo quoad nos o anche quoad se? È addirittura possibile per la facoltà intellettuale dell’uomo trascendere il puro campo dei fenomeni e dell’immanenza?» (p. 29). Secondo lo studioso, se la fede è in crisi oggi, è perché è in crisi la ragione e questa è in crisi perché si auto-censura nella sua capacità metafisica, negando che l’intelligenza possa scoprire i princìpi e le cause dell’ente in quanto ente, ossia che la mente umana possa tematizzare qualcosa che potremmo definire come fatti metafisici colti mediante un’intuizione intellettuale (apprehensio entis e simplex apprehensio) della realtà nel suo essere realtà. Tuttavia, se non fosse possibile avere tale subjectum (l’ens qua ens) della scienza, nessun altro subjectum sarebbe dato, perché si tratterebbe sempre di tematizzare una realtà (del pensiero, della ragione ecc.).

Rifacendosi all’Aquinate, Padovano evidenzia che tanto il ragionamento deduttivo quanto l’induzione presuppongono l’intuizione intellettuale immediata dei princìpi. Occorre una capacità immediata di cogliere i princìpi eidetici delle cose e i princìpi primi dell’ente in quanto tale, altrimenti sarebbero impossibili definizioni e affermazioni per se notae e dunque sarebbe impossibile avere scienza, frutto di mediazione per estendere la conoscenza dal noto all’ignoto. Inoltre, l’esistenza di Dio è una verità per se nota quoad Deum ipsum sed non quoad nos. Nel provare questa tesi Tommaso prende in considerazione la tesi ontologista, secondo cui l’idea di Dio sarebbe per se nota quoad nos. Infatti, l’ontologista non può dimostrare che l’idea di Dio abbia di per sé referente reale, dato che per farlo dovrebbe compiere la reductio ad absurdum, ma nel tentativo di compiere questa reductio cade nel circolo vizioso di concepire l’idea di Dio come implicante già l’esistenza necessaria.

Se non è un’evidenza per se nota quoad nos,allora sarà un’evidenza per aliud nota quoad nos, ossia da dimostrare. Questa è la tesi tomistica. Contro il fideismo, che considera l’esistenza di Dio un articolo di sola fede, un oggetto di stretta rivelazione[1], sulla linea di Aristotele Tommaso dimostra l’esistenza di Dio quale soluzione del problema dell’intelligibilità e della possibilità ontologica del divenire e del molteplice. Pertanto, si può risalire all’esistenza di Dio pur non sapendo nulla della definizione nominale di Dio. Il procedimento aristotelico-tomista consiste appunto nel dimostrare che ogni ente in divenire e molteplice è causato, ossia è effetto di qualcos’altro, che toglie la contraddizione. Dall’effetto si desume il significato del nome di Dio. È la dimostrazione metafisica quia o a posteriori. Tale processo dimostrativo concerne fatti ed enti reali come la dimostrazione empirica e dunque si fonda sull’esperienza. Tuttavia, non parte da fatti particolari, bensì da quei fatti che riguardano l’ente in quanto ente e le sue determinazioni e che hanno una necessità assoluta nel legame con qualcos’altro, la causa. Le cinque vie tomistiche partono tutte da una considerazione di un fatto metafisico, concernente lo statuto non fisico o biologico o chimico di un ente qualsiasi, ma ontologico: la finitezza e i suoi tratti caratteristici. Si tratta di fatti immediatamente evidenti. «Per tale ragione la dimostrazione metafisica quia è un procedimento scientifico che riguarda la realtà ma che è ad un tempo necessario e universale e oggettivo» (p. 82).

«Possiamo dire che oggi non solo la riscoperta dell’esistenza di Dio ma addirittura la riscoperta stessa della metafisica in quanto scienza assume il carattere di praeambulum fidei. Si tratta cioè di difendere il fondamento della possibilità logica stessa dell’atto di fede» (pp. 65-66). E non si tratta di ragionevolezza in senso debole (argomenti persuasivi ma solo probabili), ma in senso forte: fanno evincere la fondatezza epistemica stessa dell’atto di fede cattolico, così come ha sempre insegnato anche Antonio Livi.

L’articolo di Francesco Arzillo pubblicato sul primo numero affronta proprio il tema del contributo di Antonio Livi alla teologia naturale, che non è consistito nell’elaborazione di nuove “prove”, ma di elaborare una “metateoria” di tipo fondazionale: al termine delle prove filosofiche dell’esistenza di Dio ci si trova – secondo la nota espressione di Tommaso – di fronte a ciò che omnes intelligunt Deum; «vuol dire proprio che il Dio cui perviene la dimostrazione è esattamente intelligibile come tale proprio perché in un certo senso già inferenzialmente preconosciuto sulla base del senso attribuibile agli omnes, ossia del senso comune. «In altri termini, il referente dei due discorsi su Dio, quello filosofico e quello comune, è assolutamente lo stesso» (p. 46)[2]. Arzillo tiene a sottolineare che nel pensiero di Livi la causalità non è un principio logico-metafisico, ma un fatto dell’esperienza. Pertanto, la difesa dialettica del principio segue l’inferenza spontanea a partire dall’esperienza, mostrando che se ciò che ha un inizio potesse cominciare a partire da sé stesso ciò significherebbe immaginare che esso esista già prima di esistere, che allo stesso tempo esista e non esista, il che sarebbe contraddittorio.

Arzillo cerca di comprendere le ragioni per cui nella cultura contemporanea questo approccio teologico-razionale non viene accolto e individua la principale «nella pervasiva diffusione dei paradigmi “olistici”, “relazionali”, “sistemici”. Ci riferiamo in particolare a un intero Zeitgeist, che si manifesta in una mentalità in parte irriflessa, anche sull’onda del fenomeno del New Age dilagante in Occidente a partire dagli anni Sessanta» (p. 51): tutto ciò che esiste è un frammento dell’unica sostanza o realtà, divina e consapevole, ma impersonale, chiamata in vari modi e soprattutto Energia. «Vale la pena di precisare come una tale concezione del divino, basata su un panteismo radicale positivamente affermato, anche se sembra tradursi in una sorta di esaltazione del carattere prezioso e sacrale di ogni realtà esistente, si traduce in realtà in una negazione del divino, così come siamo avvezzi a concepirlo nella nostra cultura, nel senso di una realtà trascendente» (p. 52). Al contrario, Livi ha sottolineato che Dio è attinto dal senso comune anche quale Fine ultimo, sicché la necessità di un approccio pluralistico non solo alle realtà del mondo, ma anche alle relative implicazioni causali costituisce una componente essenziale di un’epistemologia fondamentale basata sulla logica “materiale”.

Matteo Andolfo


Note al testo

[1] Il fideismo è addirittura contraddittorio: se l’esistenza di Dio è oggetto di stretta rivelazione, come farò a sapere che è Dio stesso che rivela di esistere? Inoltre, il fideismo è materialmente incoerente, «perché de facto compie ciò che afferma non potersi compiere ossia la categorizzazione intellettuale dell’oggetto che si presume coglibile solo con una intuizione non-intellettuale» (p. 66).

[2] «A rigor di termini, secondo Livi non esistono atei, in quanto il teismo presupposto alla stregua del senso comune ha carattere di universalità, anche se non sempre esplicita» (p. 46).


2 pensieri su “Tornare all’essere! Riattualizzare il realismo metafisico per superare la decostruzione del pensiero postmoderno (pt. 2)

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